giovedì 25 ottobre 2012

Alzarsi all’alba



Alzarsi all’alba


Alzarsi all’alba. Di buon passo, o utilizzando qualche mezzo rapido di locomozione, recarsi al lavoro; cioè rinchiudersi in un locale più o meno spazioso, per lo più mancante d’aria. Seduto davanti a un computer, a picchiettare senza posa per trascrivere delle lettere, metà delle quali non si compilerebbero neppure se si dovessero scrivere a mano. Oppure fabbricare, azionando qualche ordigno mecca
nico, oggetti sempre identici. Oppure non allontanarsi mai più di qualche passo da un motore del quale bisogna assicurare il movimento o sorvegliare il funzionamento. O infine, meccanicamente, automaticamente, ritto innanzi ad un telaio ripetere continuamente gli stessi gesti, gli stessi movimenti. E questo per ore e ore senza cambiare, senza prendersi alcuna distrazione, senza mutare d’atmosfera. Tutti i giorni!
e questo voi lo chiamate vivere?
Produrre! Produrre ancora! Produrre sempre! Come ieri, come avant’ieri. Come domani, se non vi avrà colto un malanno o la morte. Produrre cosa? Cose che appaiono inutili, ma della cui superfluità non è lecito discutere. Oggetti complessi di cui non si ha tra le mani che una parte soltanto, e magari una parte infima. Dei quali si ignorano l’insieme delle fasi utili per la loro fabbricazione.
Produrre? Senza conoscere la destinazione del proprio prodotto. Senza potersi rifiutare di produrre per chi non vi aggrada, senza poter dare prova della minima iniziativa individuale. Produrre: presto, rapidamente. Essere uno strumento da produzione che si stimola, si pungola, si sovraccarica, si spossa fino al completo esaurimento, fino a quando non se ne può più cavare nulla.
e questo voi lo chiamate vivere?
Partire al mattino a caccia della clientela; inseguire, accalappiare il «buon cliente». Saltare dalla metropolitana su un’auto, dall’auto all’autobus, dall’autobus su un tram elettrico. Effettuare cinquanta visite in una giornata. Affannarsi nel sopravvalutare la propria merce e spolmonarsi a svalutare quella altrui. Rientrare a tarda sera sovraeccitati, stufi, inquieti, rendendo infelici tutti attorno a sé, privi d’ogni vita interiore, d’ogni slancio verso una migliore esistenza etica.
e questo voi lo chiamate vivere?
Imbozzacchire fra le quattro mura di una cella. Sentire l’ignoto dell’avvenire che vi separa da coloro che sono i vostri, che voi sentite vostri, almeno, o per l’affezione o per la comunanza di rischi. Provare, se condannato, la sensazione che la vostra vita vi sfugge, che più nulla potete fare per determinarla. E questo per mesi, per interi anni. Non poter più lottare. Non essere più che un numero, uno zimbello, un cencio, un qualche cosa di matricolato, sorvegliato, spiato, sfruttato.
Tutto ciò in misura assai maggiore della conseguenza del delitto commesso.
e questo voi lo chiamate vivere?
Indossare una uniforme. Per uno, due, tre anni, ripetere incessantemente l’atto di uccidere altri individui. Nell’esuberanza della gioventù, in piena esplosione di virilità, rinchiudersi in immensi edifici donde non si esce e non si entra che ad ore fisse. Consumare, passeggiare, svegliarsi, addormentarsi, fare tutto e niente a ore fisse. Tutto ciò per imparare a maneggiare strumenti atti a togliere la vita ad altri esseri del tutto sconosciuti. Per prepararsi a cadere un giorno, ucciso da qualche proiettile proveniente da lontano. Allenarsi a morire, o a far morire, strumento automa nelle mani dei privilegiati, dei potenti, dei monopolisti, degli accaparratori. Allorché non si è né un privilegiato, né un potente, né un possidente di checchessia.
e questo voi lo chiamate vivere?
Non poter apprendere, né amare, né isolarsi, né sprecare il tempo a proprio piacere. Dover rimanere rinchiuso quando splende il sole ed i fiori emanano nell’aria i loro effluvi. Non poter dirigersi verso mezzogiorno quando la tramontana è gelida e la neve batte alle finestre; o a nord quando il calore si fa torrido e l’erba secca i campi. Imbattersi, sempre e ovunque, nelle leggi, nelle frontiere, nelle morali, nelle convenzioni, nelle regole, nei giudici, nelle officine, nelle prigioni, nelle caserme, negli uomini in uniforme che proteggono, mantengono, difendono un ordine di cose mortificante ed ostacolante l’espansione dell’individuo. E questo voi — voi innamorati della «vita», turiferari del «progresso», voi tutti che spingete le ruote del carro della «civiltà»? —
lo chiamate “vivere”?

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