giovedì 18 ottobre 2012

ANCORA NELL’INFERNO


ANCORA NELL’INFERNO


Negli anni che seguirono la mia vita continuò a svolgersi nella solitudine e nel dolore.
Da Ventotene fui trasferito a Macchiagodena, un villaggio sperduto sulle montagne del Molise.
Dal simpatico ambiente dei comunisti fanatici che mi calunniavano, passai all’ambiente, altrettanto gradito, dei contadini, rozzi ed ignoranti, che, istigati dal prete locale, mandavano i loro ragazzi a lanciar sassi contro l’anarchico, nemico di dio. La storia durò fin quando non pestai ben bene uno di quei monellacci. Corsi allora il rischio di finire in galera, ma la conseguenza fu che, al mio passaggio, non volarono più pietre.
Da Macchiagodena, il ministero mi traslocò ad Isernia dove scontai gli ultimi due anni di confino. Trovai in questo paese una certa tranquillità e potetti dedicarmi di nuovo ai prediletti studi filosofici e letterari. Nel 1942 terminai il periodo di relegazione e, finalmente, ritornai a Napoli. Ma nella città canora non mi fu possibile rimanere inattivo. Ero stato troppo ferocemente colpito, troppo duramente offeso, perché la mia anima ribelle si rassegnasse all’accaduto e non cercasse la vendetta. Costituii segretamente un gruppo di azione rivoluzionaria e progettai di fare saltare, con una bomba ad orologeria, la sede della federazione fascista. Uno dei miei compagni, il traditore Datodi, denunziò me e gli altri, pochi giorni prima che l’attentato avvenisse. Fummo arrestati ma siccome mancava ogni prova e non si poteva procedere legalmente contro noi, il capo dell’Ovra, Pastore ,mi costrinse, con la minaccia d’infierire su mia madre ammalata, a firmare una confessione. Io però, appena passato al carcere, smentii la firma, dichiarando al giudice istruttore che mi era stata estorta con la violenza. Quindi gli altri uscirono e rimasi dentro io solo, in seguito ad una nuova denunzia sporta a mio carico dall’invelenito Pastore.
Otto mesi durò la detenzione. E furono otto mesi di dolori fisici e morali, patiti nell’opprimente tetraggine di una cella buia dove non avevo altra compagnia che quella dei miei pensieri cupi.
Uscii, alla fine di settembre del 1943, quando il popolo insorse contro i tedeschi e fece le quattro giornate.
Respirando l’aria libera mi avvidi che se il mio corpo si sentiva sfinito per i tormenti della prigione, il mio spirito, invece, bruciava, consumato da quello stesso fuoco ribelle che, a sedici anni, mi aveva spinto a promuovere una sommossa a Vigevano.
Ormai il fascismo era caduto e speravo si trascinasse dietro, nel baratro delle sue colpe, l’intera società borghese, quella società che, da ventitré anni, mi perseguitava e della quale volevo vedere la morte ingloriosa. E a darle la morte, ad immergerle il pugnale nella gola, mi sentivo spronato dall’odio covato durante tanto tempo, dal bisogno frenetico di vendicare la mia giovinezza sciupata nel confino e nella galera e i miei sogni infranti dalia miseria e dalle persecuzioni.
Ma per distruggere la nemica non potevo essere solo: mi occorreva il concorso di altri. E speravo che, almeno in quell’istante, non mi sarebbe mancato.
Invece dovetti disilludermi: il fascismo scomparve, ma la società borghese rimase.
Mussolini ed alcuni gerarchi furono fucilati: il regime si frantumò. Ma i borghesi, che avevano mantenuto al potere il fascismo per oltre quattro lustri, si affrettarono ad indossare la casacca democratica e furono lasciati ai posti di comando dagli americani conquistatori dell’Italia.
I grassi industriali del nord e i boriosi terrieri del sud, i solenni papaveri della burocrazia e i pettoruti dirigenti la polizia, tutti coloro che col fascismo avevano fornicato, che col duce s’erano arricchiti e che al duce avevano tributato, per ben ventitré anni, i più bassi servizi, si ritrovarono ipso facto, per trasformazione fregoliana, antifascisti della prima ora.
Abbandonando l’alleato, esosamente sfruttato, nel momento in cui esso crollava sotto i colpi dello straniero, i borghesi italiani si precipitarono dinanzi alle ruote delle camionette yankee per lustrare le scarpe dei soldati d’oltre Atlantico e rivelare ai negri camusi il loro ardente amore per la libertà e l’odio per il tiranno.
Di persone simpatiche, in Italia, non rimasero che quei pochi che ebbero ancora il coraggio di non rinnegare se stessi, sfidando il colpo alla nuca degli sgherri staliniani ed il campo di concentramento allestito dagli anglo-sassoni.
Come prima, durante l’epoca littoria, di uomini simpatici non c’erano stati che i pochi, pochissimi, antifascisti che, mantenendosi eretti contro la dittatura, avevano affrontato la galera e il confino. Ma la borghesia italiana, presa nel suo insieme, dette il più miserabile spettacolo di panciafichismo e di viltà, di tradimento e di codardia. Coloro che avevano mangiato col fascismo spularono nel piatto dei cibi consumati e si prostituirono al nuovo padrone. Quelli che avevano ricevuto gli stipendi e i favori di Mussolini, s’impennacchiarono di democrazia e continuarono a comandare e a divorare. Ad essi si aggiunsero gli eroi dell’ultimo giorno, gli antifascisti platonici che, durante il deprecato ventennio, se n’erano stati prudentemente all’estero senza affrontare carcere e confino, ma che al seguito delle baionette marocchine e delle scimitarre zanzibaresi, se ne vennero in Italia per esigere il compenso dei sacrifici sopportati. Cosi il raro formaggio rimasto nel bel paese fu messo a dura prova dagli aguzzi denti di questi sorci famelici, già disdegnanti la sbobba di una prigione italiana per i migliori pranzetti consumati sui tavoli dei ristoranti parigini e pagati coi soldi della Massoneria o del partito comunista o, anche, degli agenti dell’Ovra di cui molti fuorusciti erano informatori segreti.
Al mangiucchiamento generale dei borghesi e dei demagoghi si associarono i preti, usciti di sagrestia, e che avendo con l’Italia da regolare vecchi conti, come la breccia di Porta Pia e l’incameramento dei beni ecclesiastici, pretesero anch’essi accomodarsi lo stomaco. E intorno al desco si trovarono tutti d’accordo, i fascisti convertiti e gli antifascisti dei boulevard, i reverendo in berretto frigio e i masanielli sbracati. E, mangiando e bevendo, fondarono il nuovo antifascismo, partitocratico ed opportunista, di cui la più fulgida espressione divenne quel Pietro Nenni che, ritornalo dall’esilio ed ottenuta la carica di Alto Commissario per le sanzioni contro il fascismo, si fece consegnare tutti i fascicoli dell’Ovra e ne restituì qualcuno in meno, suscitando il sospetto che avesse voluto sottrarre quelli che rivelavano suoi segreti rapporti con la polizia politica di Mussolini.
Insieme a Nenni parteciparono al banchetto e alla farsa governativa anche i suoi amici e protettori comunisti. Loro primo compito fu quello di accettare nei ranghi del partito tutti i fascisti rinnegati, di filare il migliore idillio con i borghesi passati da Mussolini a Roosevelt e di frenare e riaddormentare il proletariato, questo eterno ciuco che, in seguito alla compressione ventennale e alle sofferenze della guerra, s’era scosso per un solo e breve istante dal millenario torpore e sembrava deciso a fare la rivoluzione. Ma una rivoluzione in Italia, una rivoluzione socialista, non sarebbe stata utile, in quel momento, al padrone Stalin che, per accordi stabiliti con gli alleati anglosassoni, doveva impedire ogni movimento sovversivo in occidente, ricevendo in cambio la libertà di azione e di dominazione nella penisola balcanica e nel bacino danubiano. Quindi i fedeli servi del Piccolo Padre, gli zelanti esecutori degli ordini di Mosca, ammansirono l’asino recalcitrante, gli rimisero le briglie e poi le consegnarono nelle mani dei borghesi, dicendo: «tirate pure ma a condizione che noi tiriamo insieme a voi ».
Don Palmiro Togliatti, il gesuita numero 1, l’abile destreggiatore che s’era assunto il compito di presentare il bolscevismo con una maschera umanista, venne in Italia, per comando del dio Baffone, e cominciò a predicare che il regime di Tamerlano non era dittatura ma libertà, non barbarie ma civiltà, non negazione dell’individuo ma attuazione del progresso (con la P maiuscola). Ci disse tutte le fesserie che volle, raccontò che il comunismo ammette la proprietà privata, riconosce la religione, rispetta la tradizione, idolatra la democrazia e vuole, sì, conquistare, per il bene del popolo, il potere, ma non con i mezzi rivoluzionari dai quali rifugge, bensì con i volontari suffragi degli elettori coscienti. Mai lupo nascosto sotto il vello dell’agnello fu tanto volpe quanto il cicciutello ed occhialuto politico spedito dal moderno Gengis Khan fra la gente d’Ausonia. Facendo un inchino a destra ed un sorriso a sinistra, una strizzata d’occhio da una parte ed un segno significativo dall’altra, questo buon raggiratore riuscì ad ingannare tutti ed a servire, a puntino, gli interessi di messer Stalin. Ai borghesi disse: « Tenete me ed il mio lustrascarpe Pietro Nenni a fare i ministri con voi. Condividete con noi due il governo. In cambio impediremo la rivoluzione, somministrando un poco d’oppio al proletariato e permettendo ai ricchi di conservare il peculio ». Ai proletari confidò in sordina: «La rivoluzione non la possiamo fare perché ci sono gli americani in Italia. Fingiamo di collaborare con i borghesi, andiamo al potere con loro e poi, al momento buono, quando ci sentiremo più forti, daremo lo sgambetto a preti e capitalisti ed instaureremo il governo comunista».
Così gabbando tutti, promettendo fabbriche e terre ad operai e contadini, ed offrendo ai borghesi la salvezza proveniente da una rivoluzione stroncata, e alla chiesa l’approvazione dei patti lateranensi, il furbacchiotto esegui, con molto zelo, gli ordini del Tamerlano motorizzato che, dall’imperiale castello del Kremlino, lo salutò « capo del popolo italiano».
Ma siccome non tutte le ciambelle riescono col buco, avvenne che al grossolano machiavellismo del solerte Palmiro, borghesi e preti opposero un machiavellismo più sottile, più abile, che non traeva la sua ispirazione dalla rozzezza dei mongoli ma dalla fine astuzia del Vaticano. Finsero di credere a tutte le balle che diceva, si tennero lui e Nenni nei loro governi ciellenisti, si servirono dei due demagoghi per frenare la massa, per calmarla, per soffocare le sue velleità rivoluzionarie diluendole nei contentini delle promesse future. Poi, al momento buono, quando videro che la folla s’era nuovamente ammansita e si sentirono ben protetti dallo Stato riorganizzato e dalla polizia ricostituita, borghesi e preti presero delicatamente per un orecchio don Palmiro e don Pietro e li tirarono giù dalla poltrona ministeriale. Allora i due messeri tornarono oppositori e, non potendo più parlare di rivoluzione, si misero a declamare che il paradiso terrestre sarebbe stato portato sulla punta delle baionette tartare e delle fruste cosacche mandate, in un prossimo futuro, dal Piccolo Padre Stalin rottosi, nel frattempo, con gli alleati anglo-americani e con l’Italia retta dalle chieriche democristiane.
Ed ora, mentre scrivo, la commedia continua. E ci sono ancora tanti operai babbei che credono alle menzogne che questi imbonitori spacciano. Non comprendendo che se il proletariato italiano permane sotto il giogo e lo sfruttamento clericale e borghese è perché i marxisti hanno due volte tradito e fatto fallire una rivoluzione che era possibile: nel 1920 e nel 1945.

* * *

Io, uscito dal carcere, non mi rassegnai all’evidenza. Ma pure constatando che la società non crollava e tutti si sforzavano per tenerla in piedi, l’attaccai da solo.
Sfruttando le mie capacità oratorie girai per l’Italia centrale e settentrionale tenendo molte conferenze nelle quali bollavo preti, borghesi e comunisti e spronavo le folle alla rivoluzione demolitrice. Sapevo benissimo che la massa non avrebbe risposto all’appello e che i politici si sarebbero coalizzati a mio danno, rendendomi la vita impossibile. Questo però non m’importava, volevo avere almeno la soddisfazione di scagliarmi contro l’odiata società e i suoi sostenitori e di smascherare le sue menzogne, deridere i suoi principi, rivelare il suo marcio. Anche a costo di rovinarmi maggiormente, volevo sfogare l’ira accumulata nel cuore e staffilare gli ipocriti, sputare sui demagoghi, aggredire gli opportunisti e i commedianti d’ogni colore che si atteggiavano a paladini dell’ordine costituito.
Riuscii nell’intento, tirai colpi da tutte le parti, feci mordere la polvere a parecchi pezzi grossi, battuti nei contraddittori; ma con la conseguenza che non potetti procurarmi un’occupazione e ogni tentativo compiuto per guadagnarmi da vivere s’infranse contro gli ostacoli, artificiosamente suscitati, da nemici potenti che agivano nell’ombra. Fui ridotto nella più nera miseria e costretto ad abitare, con la mia giovane compagna Renata Latini, nella fredda ed insalubre soffitta di un albergaccio fiorentino dove saltavamo i pasti quasi tutti i giorni. Soffrii le più atroci torture morali e materiali, mi contorsi negli spasimi delle preoccupazioni e dei patema d’anima che l’indigenza genera, sentii mille volte che i miei nervi non resistevano più alla tensione estrema a cui quella condizione terribile li costringeva. Se non mi avesse trattenuto il timore di lasciare, sola e indifesa, la mia compagna, mi sarei fatto ammazzare, colpendo disperatamente. Ma mai passò nella mia testa l’idea di arrendermi, di sottomettermi, per ottenere cosi che mi lasciassero vivere. Molli mi consigliarono di recedere dal mio atteggiamento di rivolta contro tutto e tutti; perfino mia madre me lo ripeté tante volte, però io respinsi sempre tali consigli e rimasi al mio posto. Perché non m’era possibile rinnegare me stesso e rinunziare al mio passato e alle mie idee. Non m’era possibile fingere ed inchinarmi dinanzi a quella società che, da un trentennio, mi colpiva. E infine perché chi è nato con la natura del leone non può cambiarla con la natura della volpe o della pecora.
Solo, senza mezzi e senza amici, combattuto dall’universale, incompreso e calunniato, mi mantenni diritto sotto la tormenta che infuriava. Gli unici che avrebbero dovuto schierarsi al mio fianco e sorreggere ed appoggiare la mia rivolta, sarebbero stati coloro che, in Italia, si professano anarchici. Invece furono, come per il passato, perfidi e velenosi nemici e lanciarono contro me le più malvagie calunnie, nella speranza di fornire altre armi ai tanti che mi combattevano.
Gelosia, invidia, faziosità; ecco i motivi che determinarono l’attacco di questi settari. Infatti, nella grande maggioranza, essi sono degli omuncoli, presuntuosi ed ignoranti, ed odiano chi vale qualcosa più di loro. Si dicono anarchici per distinguersi dalla massa e darsi delle arie ma poi, in sostanza, hanno lo stesso gregarismo della massa, tanto vero che si presentano organizzati in un ridicolo partitino, la F.A.I., retto da quattro o cinque capoccia che si fanno adorare come santoni.
Ed ottengono la venerazione della base perché sono formati colla sua stessa pasta.
Spregiudicati a chiacchiere e per posa, questi sedicenti anarchici conservano invece tutti i pregiudizi comuni, e sono giunti fino al punto di scandalizzarsi perché nei miei libri «Più Oltre» e «La Bandiera dell’Anticristo» ho difeso i principi della libertà sessuale. Mentre un cattolico convinto, il professore Luigi Scremin, nel suo lavoro « La questione delle case chiuse», dopo avere riportato alcuni periodi de « La Bandiera dell’Anticristo», ha lealmente riconosciuto:
« Quando, concettualmente, si fa della sensazione il fine della funzione, è a questo che si arriva, ancorché non si possa poi tradurlo nella pratica della vita associata ».
Nemici mortali degli individualisti, che sono i soli e veri anarchici, i faziosi della F.A.I., odiano particolarmente me che, dal 1920 in poi, ho sempre bollato l’antianarchismo della loro prassi e teoria. Ed ho dimostrato che la stessa filosofia dei Bakunin, dei Kropotkin, dei Malatesta, di cui essi si dicono seguaci, conduce ad un socialismo organizzato che non è anarchico.
Perché la società che ne deriva è senza governo come massa conformista, in cui essendo tutti uguali, si muovono tutti nello stesso modo e non hanno quindi bisogno di un capo che li comandi e li disciplini. Ma l’individuo originale che è oppresso dalla massa, che vuole imporgli il conformismo, subisce, sì, un governo, quello del numero, e dunque non è anarchico nella società anarchica.
D’altronde alcuni degli attuali teorici del comunismo libertario, come Pier Carlo Masini, risolvono ancor più completamente l’anarchia in un sistema democratico e dichiarano che nella Comune futura, anche se non vi sarà l’uniformità quasi assoluta, la maggioranza dovrà sempre dettare legge alla minoranza. Cosicché 17 avranno, in tutti i casi, ragione contro 5 solo perché saranno 17. E ciò anche se i 5 si chiameranno Goethe, Heine, Nietzsche, Baudelaire, Rimbaud; e i 17 si distingueranno in 4 accalappiacani, 7 spazzini, 2 guardiani di cessi pubblici, 3 raccoglitori di cicche ed un intellettuale della scuola di Masini.
L’anarchismo, invece, è qualcosa di molto diverso. È individualismo. Che se potesse realizzarsi su scala universale produrrebbe lo sfacelo di ogni società organizzata, il ritorno alla natura e la nascita dell’uomo unico, sbarazzato da ogni catena. E se invece rimarrà eternamente la rivolta di pochi indomabili, assetati di libertà, contro tutti gli ordini sociali che si succedono nel tempo, impedirà a questi ordini d’instaurare l’assoluto conformismo a cui tendono e di distruggere la personalità e la vita autonoma dell’individuo.
Vero è che le influenze della civiltà industriale meccanica che ci opprime sviluppano sempre più il gregarismo e l’uniformità e livellano gli uomini ,per natura diversi, nella massa indifferenziata. Oggi è ancor più difficile che nei tempi passati, trovare un fuori-serie. Non vi sono più grandi tiranni né grandi ribelli. I tiranni non somigliano ad Alessandro, a Cesare, a Napoleone e non conquistano il potere impiegando le loro qualità eccezionali, compiendo azioni prodigiose, esponendosi a pericoli gravi; ma sono dei volgari ciurmatori, dei mediocri omiciattoli, che salgono imbonendo ed adulando la massa, prosternandosi ai suoi piedi e poi schiacciandola dopo che essa li ha portati in alto (1). E la massa servile tanto più li stima e li elogia quanto maggiormente questi capoccia la calpestano e la tosano. Nessuno si ribella e se qualcuno, raramente, insorge, lo fa nei limiti consentiti dalla legge e per ottenere dal padrone un aumento di salario. Mentre i grandi ribelli del passato, da Spartaco a Bonnot, hanno lottato per la conquista di tutte le libertà, per l’abbattimento di ogni padrone, e sono caduti eroicamente con l’arma stretta nel pugno.
Ma appunto per questo, proprio perché il gregarismo è aumentato e la personalità va sparendo, occorrerebbe potenziare il ribellismo individualista nel pensiero e nell’azione anarchica che servono come reazione alla compressione sociale. Invece gli anarchici (?) di oggi cercano risolvere sempre più l’anarchismo in una forma comunista che dall’attuale federazione organizzata tende ad estendersi in una futura società nella quale il conformismo, assoluto o quasi, sarà assicurato da un maggiore gregarismo, o da una rigida autodisciplina esercitata da ciascuno o, più facilmente, dal prevalere opprimente della maggioranza sulla minoranza. Quindi anche l’anarchia, degenerata per opera di anarchici degenerati, è divenuta un elemento di soffocazione per l’individuo e di negazione della libertà che non può esistere nel gregge.
E allora, di fronte ad una prospettiva tanto triste, sorge spontanea la domanda suggerita dall’angoscia:

« Che fare ? »
«Nulla — risponde la ragione — lasciare correre, lasciar passare. Occorre rassegnarsi all’inevitabile, ritirarsi dalla lotta, rimanere nelle grinfie della società attuale e poi, quando questa cadrà, passare sotto la frusta del suo erede, il bolscevismo, che ridurrà gli uomini ancora più iloti».
Ma il cuore si ribella a questa fredda dimostrazione fornita dalla ragione che glacialmente constata. Perché il cuore non può soffocare i suoi sentimenti più cari, più intensamente sentiti, non può distruggere quell’impulso di rivolta che spinge l’uomo non gregario a scattare contro il giogo, anche quando sa che non riuscirà ad abbatterlo, e si sfascerà, invece, la testa nel cozzo. Ed io che seguo più il sentimento che la ragione, rimango al mio posto, attendendo la morte.
Forse rimarrò solo, come per il passato. Forse pochi uomini, sperduti nello spazio e come me refrattari e maledetti dal gregge, risponderanno al richiamo del fratello lontano che sprona alla battaglia ed al cimento supremo.
Ma, avvenga quel che avvenga, solo o no, non farò mai macchina indietro, né mai mi pentirò. E se il mondo borghese mi troverà sempre nemico, la bestia mostruosa che avanza dall’Asia, m’incontrerà sulla sua strada, armato d’odio feroce e pronto ad attaccarla con la stessa risolutezza con la quale Sigfrido affrontò il drago divoratore.

E. Martucci "La setta Rossa"



(1) Come Stalin, tiranno astuto e sanguinario ma privo di genio, che è riuscito a carpire il potere col pretesto di liberare il popolo e servire i suoi interessi.

Nessun commento:

Posta un commento