sabato 6 ottobre 2012

Città senza evasione possibile


Città senza evasione possibile

Tratto da: Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, Firenze, La Nuova Italia, 1956. 

L’anarchismo ci prendeva per intiero perché ci chiedeva tutto, ci offriva tutto: non c’era un solo angolo della vita che non rischiarasse, almeno così ci sembrava. Si poteva essere cattolici, protestanti, liberali, radicali, socialisti, anche sindacalisti senza nulla cambiare del
la propria vita, e per conseguenza della vita: bastava dopo tutto leggere il giornale corrispondente; a rigore frequentare il caffè degli uni o degli altri. Intessuto di contraddizioni, dilaniato in tendenze e sottotendenze, l’anarchismo esigeva anzitutto l’accordo tra gli atti e le parole (cosa che in verità esigono tutti gli idealismi, ma che tutti dimenticano, addormentandosi): per questa ragione andammo alla tendenza estrema (in quel momento), quella che mediante una dialettica rigorosa arrivava, a forza di rivoluzionarismo, a non aver più bisogno di rivoluzione. Eravamo un po’ spinti dal disgusto di un certo anarchismo accademico molto assennato, di cui Jean Grave era il pontefice ai Temps nouveaux. L’individualismo era stato appunto allora affermato da Albert Libertad, che ammiravamo. Non si conosce il suo vero nome; non si sa nulla di lui prima della predicazione. Infermo alle due gambe, camminava appoggiandosi alle stampelle, di cui si serviva con vigore nelle baruffe, da quell’attaccabrighe che era, portava su un torso possente una testa barbuta dalla fronte armoniosa. Povero, venuto vagabondo dal Mezzogiorno, cominciò la sua predicazione a Montmartre, nei circoli libertari e nelle code di poveri diavoli che aspettavano la distribuzione della minestra non lontano dai cantieri del Sacro Cuore. Violento e magnetico, divenne l’anima di un movimento di un dinamismo così straordinario che non è ancora del tutto spento al giorno d’oggi. Amava la strada, la folla, il baccano, le idee, le donne: convisse due volte con due sorelle, le sorelle Mahé e le sorelle Morand; ebbe figli che rifiutò di iscrivere allo stato civile. «Lo stato civile? Non lo conosco. Il nome? Me ne infischio, si daranno quello che vorranno. La legge? Vada al diavolo.» Morì nel 1908, delle conseguenze di una baruffa, all’ospedale, non senza lasciare il suo corpo, «la mia carogna » diceva, ai preparatori anatomici, per la scienza. La sua dottrina, che divenne quasi la nostra, era questa: « Non aspettare la rivoluzione: quelli che promettono la rivoluzione sono buffoni come gli altri. Fa la tua rivoluzione tu stesso. Essere uomini liberi, vivere da compagni.» Evidentemente semplifico, ma era davvero d’una bella semplicità. Comandamento assoluto: regna, «e crepi il vecchio mondo!» Da qui partirono naturalmente molte deviazioni; «vivere secondo la ragione e la scienza », conclusero alcuni, e il loro povero scientismo, che invocava spesso la biologia meccanicistica di Yves Le Dantec, li condusse a ogni sorta di cose ridicole come l’alimentazione vegetariana senza sale e di sola frutta, e anche a fini tragiche. Si sarebbero visti dei giovani vegetariani impegnare lotte senza uscita contro la società intiera. Altri conclusero: «Dobbiamo essere al di fuori, per noi non c’è posto che in margine alla società », senza pensare che la società non ha margine, che ci si è sempre dentro, anche in fondo alle galere, e che il loro «egoismo cosciente » faceva eco dal basso, tra i vinti, al più feroce individualismo borghese. Altri infine, tra cui mi trovavo anch’io, tentarono di condurre di pari passo la trasformazione individuale e l’azione rivoluzionaria, secondo il motto di Elisée Reclus: « Fino a che durerà l’iniquità sociale, resteremo in stato di rivoluzione permanente... » (Cito a memoria). L’individualismo libertario ci dava presa sulla realtà più lancinante, su noi stessi. Sii te stesso. Però, esso si sviluppava in un’altra città-senza-evasione-possibile, Parigi, immensa giungla dove un individualismo primordiale, ben altrimenti pericoloso che il nostro, quello della più darviniana lotta per la vita, regolava tutti i rapporti. Partiti dalle servitù della povertà, ce le ritrovavamo dinanzi: essere se stessi sarebbe stato un prezioso comandamento e forse un alto adempimento, se però fosse stato possibile; e non comincia a divenire possibile che quando i bisogni più imperiosi dell’uomo, quelli che lo confondono con le bestie più che con i suoi simili, siano soddisfatti. Il nutrimento, un ricovero, i vestiti dovevamo conquistarli con una lotta accanita; e, dopo, l’ora per leggere e meditare. Il problema dei giovani senza un soldo che una irresistibile aspirazione sradicava, « strappava al collare », come noi dicevamo, si poneva in termini quasi insolubili: molti compagni dovevano presto scivolare in quella che si chiamò l’illegalità, la vita non più in margine alla società, ma in margine al codice. « Non vogliamo essere né sfruttatori né sfruttati», essi affermavano, senza accorgersi che diventavano, pur restando l’una e l’altra cosa, uomini braccati. Quando si sentirono perduti, decisero di farsi uccidere, non accettando la prigione « La vita non val questa!», mi diceva uno di essi, che non usciva più senza la sua browning. «Sei pallottole per i cani da guardia, la settima per me. Sai, ho il cuore leggero...» È pesante, un cuore leggero. La dottrina della salvezza che è in noi metteva capo, nella giungla sociale, alla battaglia di Uno contro tutti. Una vera esplosione di disperazione maturava tra noi senza che lo sapessimo.

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