"L’anarchico che aspira al comunismo e l’individualistache aspira all’Anarchia non si accorgono di essereancora stretti, violentemente, fra i ceppi della sociologiacastratrice e fra le fauci dell’umanesimo che è un viscidoimpasto di non-volontà individuale e di morale pseudo-cristiana."
"Nessun avvenire e nessuna umanità, nessun comunismo
e nessuna anarchia valgono il sacrificio della mia
vita. Dal giorno che mi sono scoperto ho considerato me
stesso come META suprema. Sono al di sopra delle due anarchie."
L'autore dell'articolo, in cuor suo, auspica una sorte di fusione tra le varie tendenze anarchiche, un tetto comune dove tutti possano sperimentare le diverse vie. Una roadmap dove ognuno ha la sua via e nella quale i punti di convergenza stradale sono rappresentati dai momenti di rottura con i sistemi dominanti.
Essere al di sopra delle due anarchie non significa creare una anarchia senza aggettivi dove ognuno sceglie la propria sperimentazione rimanendo accomunato agli altri in una sorte di vincolo alla causa anarchica e rivoluzionaria.
Forse tale scelta potrà risolvere le diatribe tra le due anarchie, ma rimane comunque la logica rivoluzionaria in cui l'individuo deve sacrificarsi per la causa anarchica.
John Henry MacKay, in un suo noto romanzo, cerca di evidenziare le contraddizioni nelle quali si dibatte il pensiero anarco-collettivista con un vivace dibattito tra i due protagonisti: Auban, anarchico “individualista” e Trupp, anarco-comunista. Auban incalza il suo amico perché risponda a questa domanda:
– …. rispondi nettamente a ciò che sto per domandarti.... Nello stato sociale che designate col nome di comunismo libero impedirete, mediante un mezzo di scambio creato da voi, che gli individui scambino tra loro il loro lavoro? Impedirete ad essi di prender possesso personalmente del suolo per uno scopo di interesse personale?
Trupp si aspettava poco questa botta diritta; se diceva di sì, confessava che la società poteva far violenza all'individuo e rinunziava puramente e semplicemente a quella autonomia dell'individuo che egli rivendicava ad ogni costo; se diceva di no, ammetteva il principio della proprietà di cui aveva detto che non voleva sentir parlare.....
Trupp tergiversa ancora e Auban insiste:
– Otto, noi siamo stati sempre sinceri l'uno verso l'altro e non è questo il momento di cambiare. Tu sai tanto bene quanto bene lo so io che la tua non è una risposta: tu tinascondi, ecco tutto. Ma io insisto e ti domando di rispondermi categoricamente di sì o di no se vuoi che continuiamo le nostre relazioni.
Trupp era sempre perplesso quando incontrò lo sguardo di un compagno che non l'aveva mai sentito mettere in dubbio il principio della libertà individuale. E quasi costretto e forzato, rispose:
– L'anarchia accorda ad ogni gruppo di individui la facoltà di organizzarsi come vuole e di passare così dalla teoria alla pratica. Io non vedo come si possa espellere regolarmente qualcuno dalla casa ch'egli si è costruita...
MacKay, biografo di Stirner e convinto individualista, imposta questo dialogo (del quale ho riportato solo le battute finali) in modo da far fare una magra figura all'anarco comunista Trupp. Bisogna però ammettere che la frase finale di quest'ultimo lascia aperte le porte che un anarchico si attende tradizionalmente di trovare aperte; quelle cioè della libera sperimentazione sociale. La sperimentazione collettivista è sfociata nel totalitarismo oggi coperto dalle macerie del muro di Berlino. È vero che esistono i Kibbutz e svariate comuni volontarie che si confugurano come esperienze di socialismo non coercitivo, ma proprio per questo carattere di volontarietà rientrano nel novero delle esperienze non coercitive che un anarchico può non solo accettare ma anche apprezzare. Ma se il collettivismo è obbligatorio non è per nulla libertario ma totalitario.
Questa antica contrapposizione tra anarchismo individualista e anarchismo classico la si vuole talvolta ancora viva, molto polemica e frontalmente contrapposta. Ma le zone dove le divergenze sfumano e le contrapposizioni si frammischiano dando origine a fertili contaminazioni sono forse molto più numerose di quello che si può sospettare a prima vista.
Se Henry sosteneva nel 1892 che “Le istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. C'è solo un modo quindi per colpire le istituzioni, cioè colpire gli uomini”, ricalcando quasi involontariamente il fatalismo e il finalismo del materialismo storico, troviamo invece in Malatesta la concettualizzazione del ruolo della minoranza attraverso una sorta di secessione di “un nucleo di anarchici abbastanza forte per numero e capacità di bastare a se stesso e irradiare attorno a sé la propria influenza”. Non possiamo negare che questo concetto possa essere sostanzialmente sovrapponibile o almeno complementare a quello di Tucker quando afferma: “quando un certo nucleo di persone, abbastanza numeroso e determinato tanto da far dubitare l'autorità sull'efficacia di poterlo reprimere con la violenza e la detenzione, deciderà di cessare di pagare il tributo ai padroni del denaro sfidando le proibizioni legali, il governo, i privilegi che accorda e i monopoli che sostiene saranno inesorabilmente annientati”.
Tucker era di certo solidamente “individualista”: la presentazione del primo numero del suo giornale Liberty diceva fra l'altro: “Questo giornale sarà pubblicato per soddisfare il suo redattore e non i lettori; egli si augura che quanto gli va bene vada bene anche a loro, ma se così non fosse, non farà alcuna differenza”. Passa quindi a spiegare quello “che va bene al redattore”: “Il grido di Liberty è: abbasso l'autorità, e la sua battaglia principale è contro lo stato; lo stato che corrompe i bambini, lo stato che ingabbia la legge; lo stato che soffoca il pensiero, lo stato che monopolizza la terra, lo stato che limita il credito e lo scambio, lo stato che dà al capitale ozioso il potere di espandersi e che, attraverso l'interesse, la rendita e il profitto e le tasse deruba del suo prodotto il lavoro industrioso”.
Tucker, teorico della resistenza passiva, non esita tuttavia ad ospitare su Liberty un dibattito vivace sulla legittimità del ricorso alla violenza (oltre ad essere traduttore ed editore, primo negli Stati Uniti, delle opere sia di Bakunin che di Proudhon, di Kropotkin come di Stirner). Mi piace ricordare in questo ambito la posizione di Lysander Spooner che ritiene che in molti casi vi siano ottimi motivi per far ricorso alla violenza. Spooner, che aveva appena progettato il rapimento (progetto poi accantonato) del governatore della Virginia per farne oggetto di scambio a favore della causa degli schiavi ribelli e in particolare di John Brown, da poco catturato, rifiuta di esprimere una aprioristica condanna per l'assassinio del presidente Garfield o per i responsabili dell'episodio dell'Haymarket. D'altra parte anche oggi io credo che si possa prendere in considerazione l'ipotesi di manifestare solidarietà con chi è vittima della repressione autoritaria e statale senza essere necessariamente d'accordo
in tutto o in parte con le azioni e le idee che questa repressione hanno causato...
La tradizione individualista europea si è sempre trovata ad essere decisamente minoritaria, forse anche a causa di una mitizzazione in chiave “eroica” della resistenza individuale. D'altro canto mi pare chiaro che la scomparsa di alcuni presupposti fondamentali che portavano l'anarchismo classico europeo a legare le sorti della rivoluzione pressoché esclusivamente a una dimensione collettiva mediata dal ruolo messianico affidato ai movimenti operai e contadini, e in particolare alla scomparsa del “soggetto rivoluzionario” riassorbito ormai in modo organico nella logica legalitaria e di potere, possa aprire lo porte a un superamento della marginalizzazione, in quanto eresia, delle nuove spinte sociali in direzione secessionista, sociale o individuale che sia. Ma dovrebbe indurre anche questi fermenti e queste tendenze a pensare il percorso verso un mondo senza dominio e senza privilegio senza negare aprioristicamente possibili momenti di gestione della politica.
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