martedì 15 ottobre 2013

N° 7




“All’improvviso, come avvenne al tempo della caduta dell’impero romano,
la carta geografica si è popolata di nomi di tribù poco conosciute”

“ La mia vuol essere una tetraggine consolatoria, perché riduce
il futuro cataclisma alle dimensioni di un semplice disastro”

Felipe Fernàndez-Armesto, Millennium



Accra City, Ghana, West Africa. 20XX

Sapevo che sarebbe successo ancora. Certo non mi aspettavo due crisi così ravvicinate, questa è la prima volta che succede. D’altronde parliamo di un soggetto Beta in fase di iper-recezione negativa, in astinenza da più di ventiquattro ore: non si può pretendere molto. Anzi, da come mi hanno presentato il problema al telefono ci si può addirittura ritenere fortunati.
Neanche i politici e militari che presiedono il progetto “ItESP”, e forse il professor Martone stesso, sanno che il N°7 praticamente vive in costante stato critico e che necessita di una dose tripla di psicofarmaci inibitori. Se lo sapessero avrebbero già provveduto ad incenerirlo. O forse è ormai troppo tardi anche per questa soluzione? Il suo potere adesso è…
Evidentemente qualcuno se n’era accorto dopo il “Grande Mattino”, anche se il suo diretto coinvolgimento nella catastrofe che causò diecimila vittime non è mai stato provato.
Comunque è per questo che ora il N°7 si trova qui.
Che ci troviamo qui.
Non maledirò mai abbastanza il giorno che mi feci carico della sua tutela.
L’attimo in cui il vacuo concetto d’amore per lui mi balenò nel cervello è il perverso compagno del mio rimorso.

Accra è caos, anarchia, disordine sociale, ghetto, tradizione, edilizia selvaggia, modernità, melting pot, violenza, pace e tutto quel altro che ora non mi viene in mente, ma ha a che fare in qualche modo con la razza umana.
Sono troppo incazzata.
La sottoscritta, Santo, Akwasi Daniel e quattro contractors siamo saliti mezz’ora fa sullo sgangherato pulmino coreano che, sebbene appaia un normale tro-tro, cioè un tipico taxi collettivo locale, funge in realtà da stazione di monitoraggio mobile. Le apparecchiature sono nascoste in cassette di legno per la frutta. Non manca nemmeno la solita scritta “The blood of Jesus” che Prince ha insistito per attaccare sul lunotto posteriore. La odio.
Dicevo? Ah sì, il traffico è un casino, un vero problema. Mezz’ora per percorrere cinque chilometri lungo l’intasata Kwame Nkrumah Motorway, una striscia di asfalto screpolato stretta tra gli edifici spogli.
Quando hanno detto che il casino era scoppiato a Korle Gonno, zona Sud, quartiere sul mare, mi sono sentita male e ho sciorinato tutte le parolacce che conosco nelle quattro lingue che conosco. Mentre finiscono il repertorio siamo fermi a La Paz. Ai due lati della strada centinaia di persone sfilano sovraccariche di merci (impossibile stabilire cosa) nel tentativo di evacuare le onnipresenti zone di mercato prima che scatti l’ora della preghiera serale. Infatti, davanti a noi una fiumana di teste nere o velate sbarrano il passaggio.
Hanno l’andatura concitata, spingono, scalpitano perché dal minareto della grande moschea, sulla nostra sinistra, gli altoparlanti del muezzin pompano già la cantilena sacra ad un volume esagerato. I finestrini abbassati per fronteggiare il caldo fanno entrare, senza pietà, anche polvere, puzzo di sudore e piscio e di banane arrostite sulla brace.
La radio, tra una scarica elettrica e un pezzo reggae locale, informa che la 5° flotta U.S.A. ha ripreso i bombardamenti missilistici sulle basi d’addestramento delle milizie cinoafricane.
Queste sono sospettate di dar man forte ai ribelli nella lotta contro le multinazionali della Coalizione Atlantica, impiantate nel delta del Niger. La città di Bukavu, Repubblica Democratica del Congo, è stata rasa al suolo nell’ambito della Terza Guerra Continentale Africana (quella non sponsorizzata dall’ONU) per il controllo delle materie prime.
Grondo sudore, il corpo come spalmato di resina, tremo per la tensione. Vorrei freddare all’istante ogni venditore ambulante che si accosta alla portiera. Poliomielitici arrancano fra le vetture per strappare qualche spicciolo ai conducenti. I gas di scarico aleggiano bassi come un maleficio, nascondendo le capre di passaggio: lo sfortunato che ne schiaccia una dovrà sorbirsi sul posto l’interminabile discussione per il risarcimento.
Passiamo per Indipendence Square, dove un gruppo di operai sta finendo di allestire la macabra scenografia delle forche. Domani l’esecuzione di dodici militanti di clan musulmani e animisti che non hanno siglato l’accordo bilaterale coi cino-africani ed hanno protestato con un’autobomba al Ministero.

Korle Gonno.
Sobborgo abitato prevalentemente da pescatori e operai dell’agglomerato industriale asiatico, l’unico della metropoli.
I tetti in lamiera delle baracche rispondono luccicando al sole che esausto casca nell’oceano ondoso. La lunga fila di palme alte e sottili ci aveva dato il benvenuto da lontano.
Chief Sam, dal fondo del veicolo, segnala col braccio e sbraita indicazioni poco utili a Santo che deve orientarsi nel dedalo di viuzze tutte uguali. Più di una volta la fiancata stride contro lo spigolo di una “casa”. Uno sguardo al GPS e allo spettrometro: inservibili (copertura segnale assente o pod asiatici per le contromisure elettroniche?). Ci affidiamo ad alcuni ragazzini. Finalmente una folla assiepata davanti a un piccolo bar cancella la paura di esserci completamente persi.
Parcheggiamo, nessuno dice niente, nessuno si guarda in faccia. Il click-clack metallico di sette Beretta che vengono armate è il segnale per uscire. Mentre cammino l’infilo nella cintura. La folla è in subbuglio e non mi piace. Ci vorrà diplomazia, ma l’ultima volta, per le mie carenze in questa materia, un 9 mm mi ha scheggiato la clavicola. Accarezzo la spalla e deglutisco amaro.
Appena i curiosi vedono me, una meticcia, e Santo, un bianco, si aprono in due come il Mar Rosso di una sbiadita memoria biblica. Cominciano a vociare. Capto brandelli di dialoghi rabbiosi: la belva bianca deve morire.
Oltre lo steccato di bambù, inquadro subito il volto bello del capitano Cheng Owusu della Worker’s Defence Police, milizia al soldo della lobby commerciale asiatica. La seconda cosa che vedo sono altri dieci agenti cino-africani della W.D.P. con i mitra puntati alla porta aperta del bar. Sono nervosi, hanno le camicie kaki chiazzate di sudore e alcuni bossoli giacciono ai loro piedi. Merda, perché proprio in questo quartiere? Infatti, appena Owusu mi vede:
- Oh! Dottoressa Reyhan! Ero sicuro che c’entrassi tu con questo macello.
Il falso sorriso con gli occhi stretti a fessura e la capacità di irritare gli interlocutori sono solo alcune delle (tante) caratteristiche che fanno dei cino-africani persone difficili da capire e gestire. Sono a loro modo un’etnia nuova, ma hanno le premesse per cambiare il mondo. Le portaerei e gli incrociatori americani alla fonda nel Golfo di Guinea confermano che ci stanno riuscendo.
- Sento questa frase dai tempi delle scuole medie – rispondo impaziente, cercando di sbirciare.
- La tua mamma non ti ha detto di stare lontana dai guai? – sorride Owusu ancora più sforzato.
Dico la verità: - No. Mia madre diceva solo di non entrare nella camera da letto quando lei ci entrava con un cliente.
Ora che dovrebbe sorridere il capitano si fa serio, mette in risalto i tratti africani. La pelle sembra più scura, come per adeguarsi al suo umore. Mi guarda. Non sa se arrestarmi o, come le altre volte, lasciarmi lavorare. Deve decidere al volo se contrastare la folla e gli abitanti del quartiere oppure me e chi mi protegge in alto.
Si dice che alcuni asiatici, giapponesi, coreani e malaysiani che si stabilirono in Africa per fini commerciali, abbiano sacrificato il loro orgoglio razziale generando, con donne africane, meticci da usare come ufficiali di collegamento tra quei due mondi così diversi.
Il giovane Cheng ne è l’esempio fulgente. Questi ragazzi non sono semplici incroci nati da una passione occasionale, un amore, una fantasia erotica particolare. Sono un incrocio di resistenza, combattività, caparbietà e freddo istinto economico. È nel loro DNA, è nella rigida educazione che i genitori hanno impartito loro. Non hanno voglia di vendetta, non vogliono cancellare le altre razze, non sono arrabbiati con chi li ha creati per calcolo.
Hanno preso il meglio da ciascuna delle due culture dalle quali provengono. Il peggio lo tirano fuori solo coi nemici. Gli Stati Uniti non sono più l’unico gigante di una volta, l’Europa Unita vacilla sotto i colpi delle crisi economiche, dell’apatia delle masse, della mancanza di una strategia collettiva e coerente. Il minestrone dalla ricetta gustosa, una volta cotto, si è rivelato indigesto.
I cino-africani sanno che l’iniziativa a livello globale, per l’ennesima volta nella storia dell’uomo, sta cambiando. Questa nuova stirpe coraggiosa e determinata farà in modo che ciò avvenga a loro favore, non importa se dovranno estromettere persino i loro stessi facoltosi genitori.
Li invidio: con loro il progetto ha avuto successo, mentre con me…la sensazione di essere stata generata come allacciamento etnico mi tormenta, ma è più che un presentimento. Il “lavoro” di mia madre, il colore ambrato della sua pelle armena, quegli uomini bianchi dall’aria importante che parlavano una lingua come musica, la lingua delle più belle opere liriche che sentivo alla radio. E poi i collegi, le università, le caserme, il lavoro sporco in Arabia Saudita, le università…fanculo!
Serviva qualcuno che potesse muoversi come un pesce nell’acqua all’interno dell’odiata e sconosciuta cultura nemica, per meglio comprenderne le debolezze e attaccare gli avversari nel cuore delle loro stesse città.
Errori di calcolo madornali: accaparrarci con la forza il Medio Oriente risultò una mossa inutile quando gli asiatici spostarono il centro di gravità politico/economico del mondo altrove.
Sembro araba, penso da italiana, non ho mai vissuto davvero.
Ricaccio nella fogna gli incubi del passato e torno a concentrarmi sul capitano Cheng Owusu.
Guarda un’ultima volta nei miei occhi verdi, poi fa un cenno con la mano.
- È là dentro. Ragazzi, fate passare la dottoressa.
- Grazie.
Gli agenti fanno spazio senza abbassare le armi. Sembrano sorpresi dalla disinvoltura che sfoggio nell’avvicinarmi alla “belva bianca”.
Ancora Owusu: - Reyhan!
- Sì?
- Alla prossima c’è il plotone d’esecuzione clandestino, ricordalo – dice accendendosi una sigaretta.
- Quella belva non teme te, le pallottole o il governo. Lui combatte contro il suo istinto che combatte col suo cervello. Io cerco di aiutarlo visto che è una guerra che ho contribuito anch’io a scatenare.
Il cino-africano sorride: - Già, dimenticavo il vostro…come si chiama? Senso di colpa?
Comunque i tempi cambiano come la fortuna di un giocatore. Fra poco neppure Sobczak, Petroni o il vecchio Kuan Wu riusciranno più a proteggervi e impedirci di…
Tronca la frase, si gira e si allontana. Meglio, ho da fare e non ho voglia di sentire quello che già so.
Entro nella casupola di argilla secca, gli altri aspettano fuori. Appena la vista si abitua alla penombra mi aspetta il solito schifoso spettacolo, preannunciato da un tanfo dolciastro che offende le narici.
Un tavolo di legno spesso è rovesciato di lato, crivellato dai proiettili che non sono riusciti a trapassarlo. Sorrido pensando ai bossoli di prima: uno scudo improvvisato che ha fatto il suo dovere. Aggiro l’ostacolo e le suole degli anfibi incontrano un liquido scuro e viscoso che disegna una pozzanghera irregolare sul pavimento, schiacciano cocci di vetro sparsi ovunque. Curiosi arabeschi di sangue sono tracciati sulle pareti, spruzzi casuali come da un gigantesco pennello intinto nel rosso e agitato da un bimbo.
Eccoli, i cadaveri. Ammucchiati uno sull’altro i resti di due donne e un uomo. La solita tecnica: primo colpo per togliere il nutrimento all’anima, secondo colpo per farla uscire dal corpo. La gola è tagliata (anzi squarciata, visto che mancano intere porzioni di tessuti) con una ferita lunga e irregolare, rabbiosa, che ha ridotto praticamente l’intero collo sino alla trachea ad una poltiglia rossa e nera. In una delle giovani donne la violenza del colpo ha fracassato la mandibola, spostandola di lato ed esponendo la dentatura bianca in una smorfia inguardabile. C’è un foro perfetto e profondo in mezzo alla pancia dal quale è uscito una piccola porzione di intestino, gonfio e srotolato, di colore giallo chiaro solcato da venuzze blu. La cosa che colpisce sempre sono gli arti superiori protesi, irrigiditi dal rigor mortis in un ultimo, estremo tentativo di difesa.
Il N°7 è seduto a un tavolo, lo scorgo nell’ombra che tira lunghe sorsate da una bottiglia di birra Club.
Scavalco il macello e mi avvicino. Il completo di lino beige è pulito e stirato, le mani e la fronte sono una mappa di vene in rilievo, la lingua passa di continuo, rapida, sulle labbra bianche a raccogliere le bolle di saliva abbondante che si formano ad ogni respiro, le pupille due capocchie di spillo perse nel vuoto. Pieno shock post crisi. Se non assume Mafotal 100 entro dieci minuti, nelle migliori delle ipotesi, esploderà come un pallone.
Lo approccio come una maestrina:
- Vedo che ti sei divertito.
- Non è che lo faccio per divertimento, e tu lo sai.
- Cosa avevano fatto di male quelli?
- Niente di particolare, non so…esistevano.
- E il peccato di esistere merita quella punizione?
- Vedi, non capisco perché la gente continui a procreare, imprigionando così altre anime in corpi che le costringono a dimenticare la vera essenza libera della felicità.
- Penso che dovrebbe essere una cosa piacevole, che dà soddisfazioni.
- No. Magari a breve termine, ma poi il miracolo della vita ci lascia indifferenti. Il miracolo della morte ci riporta ad apprezzare tutto.
Raschia la gola e sputa, un altro sorso di birra.
- Reyhan, pensi che se nel fare sesso non si provasse niente, né piacere né dolore, la gente continuerebbe a fare figli? O diventerebbe solo un noioso esercizio? Dio o chi per lui ha dovuto inserire un premio, l’artificio metafisico dell’amore o del piacere per incentivare questo schifo di umanità a trascinarsi avanti.
- Tu combatti contro questo? Non ho mai…
- Io combatto contro tutto. Non esiste una situazione di normalità, o di pace, tale da indurmi a rompere la mia alleanza con la Morte.
- Una volta avevi un nemico preciso.
- I miei stessi nemici strumentalizzarono la mia lotta, il mio grande dono. L’hanno pagata cara – Sorride compiaciuto e s’alza in piedi – Ora pesco con le bombe a mano.
Mi avvicino. Si lascia prendere il braccio sudato e contratto, ne approfitto per iniettargli il cocktail con la siringa ad aria compressa che avevo messo in tasca.
Usciamo, è praticamente buio e gli uomini di Owusu ci scortano riluttanti tra la folla che protesta a voce bassa per non farsi sentire dalla belva, quel ragazzo pallido che cammina con muto distacco. Io penso che non deve essere facile essere il mandate, il sicario e il giudice di sé stesso.
Santo e gli altri ci accolgono con sollievo, salutano N°7 ma non sono ricambiati. Nel frattempo, senza dare nell’occhio, gli avvicinano i rivelatori di aura e mi fanno un segno negativo col capo.
Fino a che tutti non sono saliti sul pulmino accarezzo con le dita il calcio della pistola.
Il capitano Cheng Owusu, in lontananza, porta due dita alla fronte per salutarmi.
Lasciamo Korle Gonno imboccando la grande Ring Road West, ormai sgombra, in direzione dei quartieri Nord. Io e N°7 ci siamo sistemati negli ultimi sedili in fondo.
Lui tace, è serio.
Io guardo per un po’ fuori, le ombre che compaiono a intermittenza, raccolte attorno ai chop bars variopinti o ai falò che levano nugoli di scintille al cielo. Poi tiro la pesante tendina davanti a noi. Nessuno dei ragazzi sorride, una volta lo facevano ma adesso non più.
N°7 non si muove di un millimetro quando gli abbasso la cerniera dei pantaloni e avvicino la bocca. Lo calmerà più del Mafotal 100.


Bunker reale di Riyadh, Arabia Saudita, sei anni prima.

Lotte clandestine e furibonde per il potere.
Il corridoio è largo quattro metri e lungo cinquecento. Porta direttamente al cuore del bunker.
Incastrata tra pavimento e un cumulo di macerie aspetto che la grandine di proiettili sopra la mia testa si plachi. Dovranno pure cambiare i caricatori e la canna della mitragliatrice.
Guardo alla mia destra: Hans detto “Zero” e Mindaugas il lituano stanno nella mia stessa posizione. Zero solleva il pollice della destra, “tutto okay”. Sa che il rumore infernale mi terrorizza un po’.
Silenzio improvviso. Calcinacci cadono al suolo, sbraiti in arabo.
Mindaugas solleva sulla barricata il pesante lancia-granate a revolver. Uno, due, tre, quattro confetti al fosforo bianco partono con tonfi sordi verso il nemico. Le detonazioni rimbombano tremendamente (se non avessi il casco speciale sarei già diventata sorda) mentre l’onda d’urto investe tutto, seguita da una nuvola di polvere densa e tanto calore che brucia gli zigomi. Per un attimo la sensazione è quella di un crollo generale della struttura.
Azzardiamo a sporgerci. Una nebbia di gas tossici, impenetrabile alla vista. Passo in modalità infrarossi: fiamme e sette cadaveri.
Il sistema antincendio entra in funzione e una schiuma bianca scende dal soffitto, neve chimica che si deposita sul campo di battaglia.
Al segnale di Zero scattiamo in avanti coi fucili d’assalto spianati e i rilevatori di movimento che tacciono.
Un bip-bip: ho parlato troppo presto. Mindaugas spara alla sua destra, un corpo ustionato in tuta mimetica smette di contorcersi.
Una deflagrazione improvvisa mi fa saltare i nervi e perdere l’equilibrio, sparo una raffica alla cazzo di cane e cado all’indietro. Due razzi RPG sfrecciano tra di noi come grossi insetti impazziti andando a perforare il muro duecento metri più indietro. Questo non toglie che siamo allo scoperto, bersagliati senza pietà dal nemico che spara con armi automatiche da chissà dove. Sveltissimi, riguadagniamo postazioni coperte. Mi hanno colpita quattro volte ma l’esoscheletro tattico ha fatto il suo dovere. Le nuove piastre in ceramica antitrauma sono molto buone, però gli ematomi in corrispondenza alla zona d’impatto sono ugualmente dolorosi.
- Tutto bene, Reyhan? – la voce sempre rassicurante del lituano all’interfono.
- Sì, ma abbiamo fatto una stronzata. Non rimane molto tempo. Chiedo l’autorizzazione per la procedura d’emergenza.
Zero: - No.
Mindugas: - Vai! Copertura massima!
Zero sa che farò comunque di testa mia: - Scheisse!…
Con la coda dell’occhio vedo il lituano sollevarsi premendo il grilletto a fondo, spara centinaia di colpi, se non schianterà la culatta dell’arma sarà un miracolo.
Non esiste nessuna procedura d’emergenza sul manuale. Non ci penso. Dall’alloggiamento sulla schiena estraggo il fucile calibro 12 a canna corta, caricato con pallettoni adatti ad abbattere le porte blindate. Contemporaneamente salto le macerie e mi scaglio all’impazzata tra le fauci del lupo, la corsa agevolata dal servocomando idraulico che aiuta a sopportare il peso dell’esoscheletro.
Sciami di proiettili.
Urlo come una bestia.
Polvere e detriti.
Un colpo forte al pettorale destro, il seno sembra morsicato. Bestemmio.
Schiuma.
Una scheggia di acciaio si conficca in un cosciale blindato, lotto per rimanere in piedi.
Calore.
Fatica che si fotte col dolore.
Alle mie spalle anche Zero straccia il regolamento e si unisce al concerto heavy metal.
Trovo la forza di sorridere e raggiungere le due imponenti garitte che costituiscono l’estremo baluardo nemico. Costretti a stare riparati per il massiccio fuoco di copertura, i bastardi rimangono allibiti nel veder spuntare dall’inferno un gigante nero in armatura.
Quel gigante ha una bandierina blu con venticinque stelline sulla spalla, ha gli occhi verdi, è una femmina.
Quel gigante sono io.
Faccio fuoco a volontà, tutto intorno, un muro di piombo.
Avrei ancora due colpi ma decido di fermarmi e controllare. In questo tratto le ventole di aspirazione non sono ancora state danneggiate e in pochi secondi dispongo una discreta visibilità.
I corpi martoriati di dieci Guardie Reali compongono i petali di un fiore di morte di cui io sono il centro. I giubbotti antiproiettile che indossavano sono stati trapassati facilmente in più punti dalle sferette d’acciaio che hanno poi fatto scempio di ciò che si trovava sotto.
Uno ha le gambe disarticolate dallo scoppio delle ultime bombe. L’elmetto di chi è stato colpito alla testa è volato via stappando le cinghie allacciate sotto al mento. I crani presentano veri e propri squarci delle dimensioni di una grossa moneta. I muri sono sfregiati dal sangue e dai pezzi di materia cerebrale mista a capelli e ossa. Gli occhi dei morti mi osservano, sono…sorpresi.
Nessun superstite, ovviamente.
Mentre i miei due compagni mi raggiungono slaccio la maschera antigas e mi piego in avanti.
Vomito la colazione e lo stress della battaglia.
- Coraggio, è quasi finita!
Una pacca sulla spalla, Zero e Mindaugas corrono già verso il grosso portone, stampigliato con lo stemma della famiglia Saud.
Quando li raggiungo sono già entrati. Le ultime guardie giacciono immobili. La principessa si è appena suicidata con del veleno. Il principe Abdullah ci fissa con l’aria del perfetto fatalista. Le nostre microtelecamere ad alta risoluzione, integrate nell’elmetto, stanno registrando tutto. Molti si stanno godendo la scena in Dolby Digital sui loro computers.
Parla Zero, un inglese scolastico:- Principe, lei e il suo Consiglio siete colpevoli dell’abbattimento di tre aerei di linea polacchi e dell’esplosione di Bologna, Italia, detta “Grande Mattino” che ha causato la morte di più di diecimila persone.
Risponde il principe con le lacrime agli occhi:- Vaffanculo europeo! Allah è testimone della mia innocenza! Questo è solo uno squallido pretesto per…
- La corte respinge la testimonianza di Allah!
Una raffica dall’MP 58 di Zero mette contemporaneamente fine al discorso e alla poco gloriosa dinastia Saud.
Qualcuno, nel consiglio d’amministrazione di qualche azienda, starà festeggiando con champagne.


Spezzoni di interviste al N° 7 raccolte dalla Dott.ssa Reyhan Bonomi.

[…] mi ero davvero rotto le palle.
Sì, insomma, tanta ingiustizia, tanto dolore causato, tanta indifferenza, tanto qualunquismo. Percepivo decisioni epocali e scontri decisivi per il destino di interi popoli accadere lontano da me, senza di me, senza di noi. Il problema è che da anni ci facevano credere di essere il centro dell’universo politico, il cardine su cui ruotava l’intero paese, l’intera Unione di Stati formata da disciplinati e volenterosi elettori pieni di importanti diritti e giusti doveri. L’iniziativa era nostra, il potere era nostro, la giustizia era nostra.
L’assoluto democratico (una volta stracciato quello religioso) era lo splendente principio che ci teneva incollati alla bandiera di un modello economico che controllava e si fondeva col modello politico. Più questi due erano meschini e deprecabili (e lo erano molto) più il loro prodotto, cioè il modello sociale, ci sembrava equo e gratificante.
Un assoluto da proporre alla gente serve sempre, è l’orizzonte da guardare. Senza di questo risulta difficile orientarsi. Come distinguere la terra dal cielo?
Almeno avessero avuto la decenza di dirci che eravamo troppo stupidi per capire, troppo laidi per acquisire qualsiasi forma di potere.
Ci eravamo fossilizzati in una visione presbite dei problemi a livello globale (povero chi non ha la libertà d’opinione, povero chi non ha l’assistenza sanitaria, povero chi non ha una linea cablata a fibra ottica), sentendoci benedetti e gratificati per l’angolo di mondo indubbiamente privilegiato nel quale vivevamo.
La macchina di lusso scendeva per inerzia, coi freni rotti, giù per una discesa pericolosa.
Perdevamo i pezzi in giro. Sacche di popolazione non partecipativo, rimanevano isolate nella loro ignoranza, routine, muto consenso. Apatia ideologica e rappresentativa giocavano la loro parte […]

[…] allora non ero ovviamente consapevole del mio potere. Era ancora a livello latente, non pienamente manifestato ma sicuramente questo “embrione di aura” – come lo definisco ora - ebbe un ruolo determinante nello spingermi all’azione.
Dunque mi trovavo a diciotto anni deluso, profondamente arrabbiato per come andavano le cose sia a livello locale sia mondiale. Ero certo che non avrei nemmeno avuto l’occasione di cambiare qualcosa. Non da solo.
Nell’anno successivo la mia affiliazione al braccio armato del discusso gruppo politicosovversivo “Strage del 2005” non portò nessun miglioramento al mio stato depressivo cronico. Ogni campo della mia vita andava a rotoli: lavoro, fidanzata, amici, tentativi di scrittura, attivismo politico e sindacale. Arrivai a credere che l’eremitaggio sociale e il naufragio senza speranza di quella che, con un termine azzardato, chiamavo “vita” mi avessero fatto impazzire. Con l’aumentare dei problemi fisici dovuti all’ingresso nella fase Alfa dell’ESP convenni con me stesso che se proprio dovevo autodistruggermi, prima avrei fatto un po’ piazza pulita. Era facile, la lista era lunga e già pronta da mesi. Mancava solo l’alibi per cominciare la missione. La convinzione di essere pazzo me ne fornì uno ottimo […]

[…] quelle due ragazze stavano da mezz’ora sedute davanti a me, in uno scompartimento del treno ad alta velocità, nel tratto Firenze-Bologna. Non avevano fatto altro che parlare di università, ragazzi e vestiti. Cazzo, io penso che a ventisei anni devi cominciare anche a mettere insieme un po’ di autocoscienza, un minimo di ragionamento che ti elevi al ruolo di testa pensante, di entità senziente consapevole del tuo ruolo di fango nel mondo. Il mio odio cresceva a dismisura verso quelle due insulse rappresentanti della mia stessa razza.
Non so se mi infastidiva di più le certezze di sabbia che si erano autocostruite, oppure il degrado cognitivo che avevano dovuto raggiungere nella ricerca forsennata della felicità.
Il mio ragazzo fa questo, fa quello, gli piace questo, quello...
Guardavo dal finestrino i brandelli di campagna incastrati tra i cavalcavia e i ponti.
Volavano via come fogli di carta nel vento.
Ti avevo detto che la Laura s’è fatta il professore di economia?
Ma avrà sessant’anni, è così brutto, con quella barba bianca!
Lo sai che ha sempre cercato un uomo maturo che gli desse sicurezza…e qualche trenta ogni tanto!
Ficcai gli auricolari nei padiglioni. Chitarre acide al massimo non impedivano di sentire le loro voci.
Sai che Ingrid è incinta?
Sembravo appena uscito dalla doccia, tanto sudavo. Infilai la mano nel giubbotto per prendere il fazzoletto. Toccai il manico del coltello, un serramanico la cui forma ricordava quella del “gobbo” degli antichi briganti abruzzesi. Ritrassi le dita ma…
Come incinta?! Doveva tornare in Norvegia tra due settimane!
Esatto, ma ricordi quel ragazzo che ci stava insieme?
Marco?
Sì! Secondo me, dalla paura di perdere per sempre una così giovane e carina, l’ha messa incinta. Sai com’è sensibile Ingrid! Sicuramente adesso si sentirà costretta a rimanere con Marco.
Poverina, domani le telefono! Ah, ah, non vorrei essere nei suoi panni!
Il mio pugno destro si strinse nella tasca interna attorno al manico del “gobbo”.
Com’è andato l’esame di storia moderna?
Da schifo! L’importante è che non lo vengono a sapere i miei!
Mi rivolsi direttamente alla bocciata, una bionda tinta con occhialoni da sole blu:
- Scusa, studi storia moderna? Mi puoi dire la differenza tra il pensiero di Martin Luther King e Malcom X?
- Ma cosa dice questo scemo? E io cosa ne so?
Scattai in piedi come una furia e contemporaneamente estrassi il coltello, con un movimento del polso denudai la lama. La bionda rimase congelata nell’espressione strafottente che aveva prima di trovarsi dieci centimetri di liscio&affilato acciaio conficcati nel polmone sinistro. Un colpo da maestro come mai prima d’ora, tra due costole, appena sotto il seno. Gli occhiali fashion calarono sulla punta del nasino a patata, mentre le labbra griffate Lancôme annaspavano grida che rimasero sussurri per l’improvvisa, dolorosa mancanza di fiato.
La sua amica mora con le treccine ingenue che cadevano sulle spalle si schiacciò contro il sedile, una mano piena d’anelli traballante verso la porta dello scompartimento.
La fulminai cercando nel mio repertorio di cinefilo uno sguardo da serial killer. Eseguii rapidamente due mosse in una: senza estrarla, girai di 90° la lama nella ferita della prima troia (il corpo si irrigidì come colpito da una scossa) e poi scalciai, con la gamba a mezz’aria, in modo che il mio piede rivestito di stivale schiacciasse contro la parete la mano della seconda troia. Strillò, ma un istante dopo lo stesso stivale le piombava con forza sul sopraciglio, spaccandoglielo. Un velo di sangue calò come un sipario rosso sul suo viso. Strillò ancora ma il freddo bacio del “gobbo” le penetrava già la gola. Con sorpresa mi accorsi di aver preso il muscolo faringeo troppo di lato, con troppo impeto, e la punta della lama andò a cozzare contro una vertebra cervicale.
Che pasticcio. La tipa strabuzzò gli occhi, non so se implorasse pietà o cosa, comunque non provò più a parlare. Troppo shock. Forse con eccessiva calma liberai nuovamente l’arma e cercai di mirare un po’ più a sinistra, dove mi pareva si trovasse la giugulare esterna. La mia mano era incredibilmente ferma, il mio cuore un metronomo.
Affondai, estrassi.
Un fiotto scuro schizzò ad insozzare il sedile vuoto di fronte. Il corpo crollò di lato, scosso dai fremiti della vita che se ne andava. Mi compiacqui per alcuni secondi dell’opera poi ebbi un’idea geniale. Se l’anima risiede nel ventre, nelle viscere, perché non darle una scorciatoia per tornare libera? Le ultime due pugnalate, quindi, furono un favore che feci alla vera essenza di quelle due ex-troie.
Requisii i due cellulari super moderni sperando di trovarci il numero di Ingrid: bingo! Nei giorni successivi lei e il suo amato compagno ricevettero una lezione “di vita” molto importante.
Dei passi e delle voci concitate nel corridoio mi riportarono alla realtà. È vero: agli occhi della marmaglia avevo commesso un orribile delitto. Mi girai verso il finestrino: viaggiavamo a 300 Km orari, oltre il vetro, ogni dieci metri, c’era un palo di cemento. 
Dovevo fuggire ma…quante probabilità avevo? […]

[…] c’era quel piccolo imprenditore, ora non ricordo il nome. Aveva questa mini azienda che, a causa delle continue recessioni economiche e cattiva organizzazione, andava proprio male. Pieno di debiti. Cosa decide di fare quindi? Licenzia la segretaria che lavorava lì da otto anni, senza preavviso o giusta causa. La segretaria non se l’aspettava, visto che aveva sempre dimostrato un certo attaccamento al lavoro e si era resa disponibile per diverse ore di straordinario, naturalmente non pagate.
E poi contratti capestro per i giovani neo assunti, aumenti di stipendio al minimo sindacale, vampirizzazione di fondi statali, scarsa attenzione per le norme di sicurezza e per lo smaltimento di rifiuti speciali. Neoliberismo duro e puro unito alla logica del guadagno senza compromessi e all’ingordigia di capitale.
Mi misi sulle sue tracce, ne studiai le abitudini. Mi procurai un kukri nepalese, un ibrido fra coltello militare e machete, dal taglio eccezionale e un bilanciamento ottimale che richiede uno sforzo molto minore nel taglio.
Alla fine lo aspettai, un giorno tiepido di primavera, mentre usciva dalla messa della domenica mattina con suo figlio per mano. Giacca e cravatta, subito un commento sprezzante e arrogante sul fatto che gli stavo sbarrando la strada. Non persi neanche tempo a spiegargli le mie motivazioni.
Liberando il kukri da uno speciale fodero sotto l’ascella recisi la gola. Un attimo prima che cadesse all’indietro eseguii un affondo al centro del ventre. La larghezza della lama e la sua particolare curvatura fecero sì che una porzione di intestino tenue uscisse dal taglio come una lingua maliziosa da un paio di labbra rosse.
Guardai il bambino impietrito che forse non capiva bene. Pensai a qualcosa da dirgli che facesse effetto e magari alimentasse negli anni il suo rancore.
Nel frattempo una decina di persone in uscita dalla chiesa si avvicinano minacciose.
Avevano visto quello che avevo fatto. Avevano visto la foggia orientale della mia arma.
Avevano visto la mia barba sfatta e i capelli lunghi, i vestiti sporchi. A un chilometro da là c’era il quartiere arabo di Modena, “la casbah” come la chiamano i romantici, “Little Istanbul” come la chiamano i fumatori di hashish, “la fogna” come la chiamano tutti gli altri.
Comunque mi trovavo circondato da quelle merde di fondamentalisti cristiani che avevano stampata in faccia la scritta “linciaggio”. Alcuni avevano già estratto dalle tasche i bastoni elettrificati da difesa.
Li odiavo. Pensai intensamente alla loro morte. Più ci pensavo più la testa mi girava, come fosse piena di formiche impazzite che cercavano di uscire, e la mia aura aumentava. Avevo acquisito ormai consapevolezza del potere e mi ero esercitato con lattine, bottiglie e qualche randagio. Era arrivato il momento della bella copia. Rinfoderai il kukri e tesi le mani in avanti, i palmi rivolti verso gli inquisitori che si preparano ad aggredirmi.
Sfortunatamente, non avendo essi l’anima pulita, il loro Dio si guardò bene dall’avvertirli del pericolo imminente. La scarica di energia sprigionò dal mio cervello con un orgasmo sensoriale per poi uscì dall’involucro corporeo con un dolore acuto. Quando riaprii gli occhi mi gustai la vista di dieci cadaveri gonfi, tumefatti e violacei per le decine di emorragie interne […]

[…] Sembra incredibile, ma fu proprio così che mi presero. Dove fallirono le loro armi, il loro potere investigativo e coercitivo, riuscì la loro scienza. Asserragliato nella vecchia palazzina diroccata osservavo il piccolo esercito delle forze dell’ordine assiepato fuori, un lungo cordone di auto e furgoni blindati, ovunque spuntavano canne di fucili e mitragliette come un istrice minaccioso. Il questore brontolava qualcosa nel megafono. Gli agenti speciali del R.O.S. e i tiratori scelti, appostai sui tetti adiacenti, aspettavano solo il segnale verde.
Mi contorcevo a terra per il dolore. Orecchie e naso sanguinavano. La fase Beta implica anche questo e, soprattutto per il fatto che non sapevo ancora canalizzare lo spettro, in quei momenti mi trovavo all’inferno. Percepivo gli otturatori dei fucili dei cecchini chiudersi a 25 metri di distanza. Percepivo gli anfibi dei carabinieri rullare sui tetti, in rapido avvicinamento alla palazzina. Distinguevo le parole sussurrate tra questore e brigadiere “A Roma lo vogliono vivo”, “Ma ha ammazzato più di trenta persone!”, “Con una patente governativa ne farà secchi molti di più”. Sentivo il flusso vitale di ogni più piccola creatura vivente nei paraggi scorrere nel vortice infinito dell’universo. Io, padrone dell’energia, in trasformazione verso l’energia pura, avrei potuto spegnere quei deboli e ignari flussi paragonabili a candele accese in un uragano.
Mi serviva Mefotal 100, ma non potevo saperlo.
Rimasi disteso sul pavimento della stanza fino all’irruzione degli sbirri, che non spararono nemmeno un colpo.
Un uomo di mezza età e una bella ragazza con la pelle ambrata e gli occhi verdi si chinarono su di me.
- Professor Martone, crede davvero che questo soggetto sia in grado raggiungere il livello Beta?
- Certo, in pochi mesi la sua aura è cresciuta in modo esponenziale. Con i nuovi scanner e l’addestramento adeguato potrebbe diventare il nostro N°7.
- Potrebbe essere pericoloso. Già col N°6 avete sfiorato di poco la tragedia.
- Ma come? Una coraggiosa, pluridecorata, reduce della campagna in Arabia Saudita come lei che ha paura? Stia tranquilla, stavolta riusciremo a mantenere il controllo sull’esperimento.
- Okay ragazzo. Io sono la dottoressa Reyhan e lui è il professor Martone. Da oggi noi ci prenderemo cura di te.
Sembra incredibile, ma fu proprio così che mi presero e che cominciai ad essere quello che sono oggi.

Giulio Artioli
scritto nella primavera 2004



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