giovedì 31 ottobre 2013

IL NICHILISMO LIBERTARIO DI MAX STIRNER



Nichilismo: manca il fine; manca la
risposta al “perché”;
che cosa significa nichilismo?
Che i valori supremi si svalutano.

Nietzsche, 1887




“Io ho fondato la mia causa su nulla”, afferma Goethe nella poesia “Vanitas! Vanitatum vanitas”, offrendo una plastica ricostruzione di cosa comporti la presa d’atto della in-giustificabilità del procedere logo-centrico.

L’uomo, si rende conto di non essere in grado di offrire una valida giustificazione per le sue pretese “fondative”.

Bene, male, giusto, sbagliato, tutto è “vano” in quanto privo di giustificazione ultima. I valori vanno in frantumi. Resta un’unica consapevolezza: “tutto è vano” in quanto in-giustificato.

Ciò che Goethe ha così ben trasmesso trova “eco” nell'opera anarchica di Max Stirner, che “rabbiosamente”, come ebbe a dire Franco Volpi, grida l’arbitrarietà di ogni tentativo volto all’assegnazione di un orizzonte di “senso” trascendente alla vita dell’uomo.

Chi può “giustificare” le grandi “costruzioni di senso” attraverso le quali l’umanità cerca di perimetrare il non-senso nel quale è gettata?

Stirner, ovviamente, ha di fronte a sé la “grandiosa impalcatura hegeliana” e davanti ad essa grida il suo sdegno per l’arbitrarietà di simili teorizzazioni.

Spirito in cammino, Ragione che fa la storia? Ma chi ha mai fatto esperienza di ciò?

Riprendendo il Kant trascendentale, Stirner, che espone il”suo sdegno” in “l’unico e la sua proprietà”, del 1844, è consapevole di quanto l’uomo possa “balbettare” soltanto di ciò di cui fa esperienza e, sottoponendo ad esame il proprio “ragionare discorsivo”, di quanto sia costretto ad ammettere di non avere valide giustificazioni per pretendere di dire qualcosa in più.

Dio, Anima e mondo, le tre “entità” della metafisica classica restano “fuori” da ogni affermazione che si pretenda razionale nell’accezione di giustificata, quindi procedente per inferenze necessarie.

Ciò di cui posso essere certo, e qui il richiamo è al Descartes che “apre la modernità”, è il mio esser-ci, afferma Stirner in quanto Unico.

L’esistenza originaria e individuale dell’Unico è la sola consapevolezza di cui possediamo certezza.

In tale ottica ogni costruzione di senso si origina su “nulla”.

Un “nulla” creatore che coincide con l’Unico che sono, questa affermazione lascia “vibrare”, per pagine e pagine Stirner.

Solo nella mia unicità, per affermare qualcosa del mondo, sono costretto a “costruire” affermazioni delle quali non posso offrire giustificazioni, in quanto è soltanto in virtù di una pretesa antropocentrica che assumo per postulato che il “mio discorrere” sul Reale equivalga a dire qualcosa di ciò che sta fuori di me.

In verità, questa, è proprio una pretesa che do’ per scontata, che non metto in discussione, quella secondo la
quale esista un mondo di cui discorrere, un mondo del quale “scoprire” leggi, movimenti, essenze.

Striner in queste affermazioni non fa che riprendere motivi da sempre presenti all’interno delle riflessioni filosofiche, almeno da Gorgia in poi.

La particolarità Stirneriana è legata alla consapevolezza che ogni “discorso” sull’ente non esaurisce la possibile gamma di verità sull’ente stesso.

Questa coscienza è ben esemplificata dal parallelismo che Striner fa con l’indicibilità di Dio.

Come dell’Ente sommo nulla si può affermare che ne esaurisca la realtà, così dice Stirner, nessun concetto può esaurire la mia “unicità”, sempre al di là dal poter essere “esaurita”.

Le assonanze di queste affermazioni con quelle Nietzschiane sono chiarissime, soprattutto in relazione al prospettivismo nietzschiano, che afferma, secondo la lettura Deleuziana, non che non ci siano verità ma che ce ne siano troppe, una per ogni piano di immanenza dal quale produciamo i nostri concetti. Una per ogni singolarità individuale.

Ora questa affermazione, che come risulta chiaro rimanda a certe intuizioni del”costruzionismo”, lungi dal negare il concetto di “verità”, ci sembra frantumarlo nella multiforme panoramica delle “differenze”, sempre cangianti e singolari.

Quelle stesse differenze dall’uomo linguisticamente ridotte al silenzio quando, “nominando” il reale, dapprima ne fa un “oggetto continuo” per poi oggettivarlo in generi, ordini e categorie sempre arbitrariamente contrassegnati, proprio come il gesto di chi osservando le foglie di un albero riduce l’insieme singolare e diverso di ogni singolo “mondo foglia”, abitato e innervato da vita singolare, ad un insieme denotato di senso in quanto parte di un tutto, per l’appunto, de-nominato “foglia”.

Stirner, in questa esaltazione dell’Unico, pone le basi per una critica radicale delle istituzioni sociali che reggono il nostro stare in comunità.

Afferma infatti che è una pretesa il-libertaria quella di costringere l’uomo in regole, istituti, leggi, che co-stringono la sua naturale propensione verso la libertà.

Questa costrizione lo aliena “zittendo” il suo anelito verso l’auto-determinazione.

Di tutto questo Stirner coglie e fa sue le istanze più esplicitamente legate al valore esistenziale di una ricerca del “paradiso perduto”, momento dopo cui l’uomo risulta infelice in quanto “dimentico” della sua originaria unità con una natura pre-sociale.

Il “Giardino delle delizie” di Bosch, ben rappresenta ciò che Stirner ha in mente per “felicità” pre-caduta, un libertario fluire di forme pre-individuali che, come il sangue nelle vene, vivono la pura identità con sé stessi.

Fabio Milazzo

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