martedì 22 ottobre 2013

L’INDIVIDUO E IL SUO BENE



  Che l’individuo erri o che sia nella giusta direzione, è sempre la ricerca del suo bene a condurne i passi e tutto ciò che si trova a portata della sua mano o del suo intelletto gli è indifferente se non sembra servirgli a procurargli questo bene, sia in un modo positivo, sia risparmiandogli una pena. Quando nel mondo antico lo vediamo moltiplicare i riti e i sacrifici propiziatori; sottomettersi con la minuziosità più estrema alle formalità di un culto i cui dèi sono tanto più esigenti quanto più sono numerosi e vicini all’uomo; vivere nell’angoscia di aver destato per una negligenza involontaria la collera di una potenza occulta che vuole la sua parte di omaggi – capiamo perché Epicuro, figlio di un’indovina ed esorcista, abbia avuto pietà di questa schiavitù e tentato di liberarne lo spirito umano. Ma non è affatto per amore degli dèi che l’uomo antico vincolava il suo pensiero e i suoi gesti a mille intralci ed assentiva ad ecatombi rovinose. Per amore di se stesso chiedeva al mondo esterno, di cui divinizzava, non conoscendola, la potenza benefica e maligna, di accordargli il bene e di risparmiargli la sofferenza. Senza arrivare sino alle nostre campagne più sperdute, dove sopravvive così fortemente questa condizione spirituale, non vediamo intorno a noi persone impregnate della cultura moderna fare delle offerte al santo che assicura il successo agli esami, a quello che fa ritrovare gli oggetti perduti o alla tal vergine che guarisce i malati? Nonostante gli sforzi generosi di qualche grande mistico per elevare l’umanità alla concezione dell’amore disinteressato, nonostante le esortazioni verbali del catechismo, smentite del resto dalle stesse pratiche del prete che le insegna, l’immensa massa dei credenti non agisce che per attirarsi i favori del dio o per scongiurare le sue collere.

   La speranza e la paura sono sempre state la solida base dell’emozione religiosa, che in sé non è mai esistita se non in qualche cuore d’eccezione e che nella maggior parte delle coscienze non sussiste se non per le promesse di felicità e le minacce di tormenti non solo ultraterreni, ma temporali, che la fondarono e che la fanno persistere. Quando un certo generale romano, malgrado tutti i vantaggi che gli si offrivano, rifiutava di intraprendere la battaglia e si esponeva ad essere vinto con una manovra del nemico, e ciò perché il volo degli uccelli non era stato favorevole, è in quanto considerava una battaglia persa meno dannosa di una disobbedienza nei confronti degli dèi. Anche quando sacrificava la sua armata, la sua propria gloria e il suo interesse personale, non compiva un atto di pietà pura e disinteressata. Tra la sconfitta e la collera degli dèi, sceglieva il male minore, in quanto era persuaso che i mali peggiori spettassero all’empio. Il fatto è che, se l’uomo può sbagliarsi su ciò che gli è utile o nocivo, non preferisce mai ciò che crede nocivo a ciò che crede utile. Ben lontane dal fare eccezione a questa regola, le religioni ne sono l’eclatante giustificazione e si può dire che esse siano, a dispetto o piuttosto a causa dei sacrifici personali che esigono, le più utilitarie fra le istituzioni umane.

   Trovare il suo bene, evitare la sua pena (il che è tutt’uno, non essendo il bene, più comunemente, che l’assenza di pena): ecco, per l’individuo, non l’unico segreto, ma il segreto essenziale. E se noi penetriamo il secondo segreto, messo così bene in luce da Guyau, se noi vediamo l’individuo, uomo o animale, compiere spontaneamente atti disinteressati che arrivano fino al sacrificio assoluto senza che intervenga un calcolo dei valori, è perché l’individuo non è un essere assolutamente autonomo e la specie, con i suoi istinti generali di conservazione collettiva, vive in lui, a sua insaputa, di una vita attiva e permanente.

   Del resto, nessun individuo può cercare il suo bene in se stesso e tirarlo fuori dal suo intimo fondo. Egli è autonomo in un certo senso, ma non esiste e non constata la sua autonomia personale che tramite il suo contatto e la sua relazione con ciò che lo circonda, cose e individui. Senza di essi sarebbe un punto nel vuoto, un punto che si ignorerebbe. Egli è certamente scopo a se stesso, le cose e le persone non sono per lui che dei mezzi; ma è precisamente perché queste cose e questi individui esistono come mezzi e le loro azioni e reazioni sono così in contatto, per conflitto o per accordo, con le sue proprie azioni e reazioni, che può realizzare questo fine, che è lui stesso. E le cose, come gli individui, non sono solamente fuori di lui, ma anche in lui, come idee e come realtà. Il mondo esterno è in lui come idea solo quando ha imparato a conoscersi e a penetrare un poco l’universo; mentre è in lui, come realtà immediata, per i caratteri etnici che gli consegna il suo ambiente e i caratteri morali che gli consegnano gli antenati che in lui sopravvivono.

   Il secondo segreto scoperto da Darwin e precisato da Guyau, che l’ha definitivamente introdotto nella filosofia, cioè il segreto della simpatia per i suoi simili, si trova dunque nella parte più profonda dell’individuo. La psicologia sommaria dei metafisici non poteva evidentemente scoprirlo lì, dove avrebbe sonnecchiato ancora a lungo senza l’intervento benefico dei naturalisti. Esso non si oppone, tutto il contrario, a che l’individuo cerchi soprattutto e prima di tutto il suo bene, a che si consideri come il suo proprio fine e non consideri i suoi simili che come suoi propri mezzi. Nell’incessante scambio che è la vita di relazione – e nessun’altra forma della vita è concepibile –, ogni individuo sente bene di essere se stesso ed è a se stesso che egli pensa attraverso gli altri individui. Egli sviluppa coscientemente la sua simpatia verso di loro per il bene che vi troverà e la sua antipatia è da commisurare al male che egli ne teme. Può sbagliarsi nelle sue simpatie e nelle sue antipatie, come può errare nella ricerca del suo bene ed intossicarsi con dei frutti velenosi credendo di nutrirsi; ma non lo si vede mai andare volontariamente contro il suo fine, che è se stesso, in tutte le circostanze per mezzo delle quali si conserva, si preserva e si accresce.

   L’individuo vive dunque essenzialmente per sé, ma non vive grazie a sé, poiché non è in se stesso che trova le condizioni della sua vita. Nemmeno l’attitudine ironicamente contemplativa dello scapolone che pretende di vivere da filosofo realizza quella vita autonoma dichiarata così eccellente dai teorici letterari dell’egoismo. Per quanto puramente intellettuale, per quanto completamente distaccato dalle agitazioni mondane e politiche, dagli affetti, dalle sofferenze e dalle pietà che ci oppongono o uniscono nell’immensa mischia umana, questo atteggiamento è solo un atteggiamento, non una regola di vita. Lasciamo poi perdere il brutto ruolo che interpreta colui che assume tale attitudine lasciandosi nutrire, vestire ed ospitare da persone che egli onora del suo disprezzo superiore: poiché l’individuo è il suo proprio fine e poiché il resto dell’universo – cose e persone – non è che il mezzo tramite cui egli si realizza, si sviluppa e si mantiene, si può ammettere per un istante che l’egoista si soddisfi ricevendo tutto e non dando nulla. Fintantoché gli altri individui, per ignoranza, acconsentono a donargli tutto ciò che gli permette d’essere e a non ricevere niente in cambio se non il suo disprezzo, è una questione fra lui e loro. Bene o male, ognuno di essi concepisce così il proprio bene; è sicuramente uno dei numerosi errori in cui cadiamo durante la ricerca del nostro bene, ma poco  importa per il momento.

   Ma la vita intellettuale di questo egoista non è formata, come tutto il resto, dai morti che sono in lui e dai vivi che gli sono attorno? La sua ironica contemplazione non trae unicamente il suo valore dallo strumento interiore donatogli dai morti e dagli oggetti che gli forniscono i vivi? – E sia, lui dirà. Ciò lo ricevo ancora con la stessa sprezzante serenità con cui ricevo il vitto e l’alloggio. Anche in questo senso il mondo esterno mi appartiene senza reciprocità. Le cose e gli individui sono per me dei mezzi, per me che, come ogni individuo, seguo il mio proprio obiettivo, rifiutandomi di essere un mezzo per gli altri individui; quanto alle cose, faccio del mio meglio per farne a meno, limitando i miei bisogni allo stretto necessario. In questo modo il mondo esterno mi fornisce lo spettacolo gratuitamente. Esso non ha che un mezzo per sfuggire alla mia osservazione poco benevola: è quello di sparire; lo sfido a farlo! Invano mi si minaccerà di privarmi delle gioie positive destinate a coloro che instaurano con esso un rapporto di simpatia. Queste gioie non esistono per me, io le ritengo un raggiro sentimentale: esse complicano la vita e vi introducono dei tormenti superiori per intensità alle gioie stesse.

   L’errore di questo egoista, il quale si crede un individualista, deriva dall’immaginare che ogni differenza sia una superiorità. Egli non è simile agli altri uomini, dunque è loro superiore. Non ha donato loro nulla e da loro ha ricevuto tutto, dunque è più ricco. Egli dimentica solo questo: che se la differenza è uno dei caratteri della superiorità, è anche uno dei caratteri dell’inferiorità. Per quanto riguarda la sua ricchezza, che si degni di farne un inventario sincero e sarà terrorizzato dalla sua povertà. Crede di averci preso tutto ed eccolo ridotto a ricevere l’elemosina della nostra pietà. Crede di averci spogliati ed è lui stesso che si è spogliato di tutti i mezzi per gioire e comprendere. La suprema ricchezza di questo povero pazzo è una suprema miseria. Per aver misconosciuto la gioia che c’è nel diffondersi, nel donarsi, nel prodigarsi, si è infine richiuso su se stesso. Non è lui che ha dominato su di noi, ma noi che abbiamo dominato su di lui. Abbiamo iniziato a coltivare un terreno che si è esteso attorno a lui a mano a mano che lui stesso si riduceva. Credeva di possederci nello spirito e di noi è arrivato ad ignorare tutto. Poiché egli non possiede che delle apparenze in ciò che esse hanno di più strettamente soggettivo. Ci scorge attraverso lo specchio alterato della sua coscienza ridotta e, quando crede di farsi beffe delle nostre imperfezioni, è della propria deformità che ride. Fa proprie le nostre aspirazioni all’ideale e, impedendogli il suo realismo inferiore di comprendere i nostri sforzi per avvicinarci ad esso, è la sua propria impotenza che diffama in noi. È condannato a non conoscerci se non per i nostri aspetti animali più bassi e brutti, e la sua pretesa scienza senza illusioni non si nutre che dello spettacolo incompleto di alcune delle nostre azioni, essendo essa divenuta incapace di intravederne la coesione e di distinguerne il senso. Egli assomiglia a un maniaco che trascorre le sue serate dietro le quinte di un teatro, che dello spettacolo non vede che attori ansiosi prima della loro entrata e sudati alla loro uscita, e che non ode che il rumore degli applausi e dei fischi attraverso i teloni chiusi. Sull’opera recitata un tale spettatore ne saprebbe meno del pompiere di servizio.

   È d’altronde inutile che il nostro egoista creda di sfuggire alla legge dello scambio universale. Non solo, credendo di ingannarci, si inganna allo stesso modo dell’avaro che muore di fame sul suo tesoro inutile, ma inoltre, suo malgrado, ci restituisce più di quanto non ci abbia preso, pur avendoci preso così poco. Crede che noi gli regaliamo uno spettacolo, mentre è lui che ce lo regala. È uno sconcio sociale, un ilota filosofico, e serve, comunque sia, al nostro apprendimento. Siccome lo si ignorerebbe se lui stesso non si curasse di esporsi ai nostri sguardi, è lui che si incarica di presentarci la sua miseria. Accanto al profitto che la letteratura ne ricava, nella misura in cui le opere soggettive sono sempre le più letterarie, lo sorprendiamo nel flagrante delitto di scambio con il mondo esterno. Così che egli non può affermare il suo egoismo se non negandolo.


Eugène Fournière, 
Essai sur l’individualisme, Alcan, Paris 1901, pp. 17-24

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