Che
l’individuo erri o che sia nella giusta direzione, è sempre la ricerca del suo
bene a condurne i passi e tutto ciò che si trova a portata della sua mano o del
suo intelletto gli è indifferente se non sembra servirgli a procurargli questo
bene, sia in un modo positivo, sia risparmiandogli una pena. Quando nel mondo
antico lo vediamo moltiplicare i riti e i sacrifici propiziatori; sottomettersi
con la minuziosità più estrema alle formalità di un culto i cui dèi sono tanto più
esigenti quanto più sono numerosi e vicini all’uomo; vivere nell’angoscia di
aver destato per una negligenza involontaria la collera di una potenza occulta
che vuole la sua parte di omaggi – capiamo perché Epicuro, figlio di
un’indovina ed esorcista, abbia avuto pietà di questa schiavitù e tentato di
liberarne lo spirito umano. Ma non è affatto per amore degli dèi che l’uomo
antico vincolava il suo pensiero e i suoi gesti a mille intralci ed assentiva
ad ecatombi rovinose. Per amore di se stesso chiedeva al mondo esterno, di cui
divinizzava, non conoscendola, la potenza benefica e maligna, di accordargli il
bene e di risparmiargli la sofferenza. Senza arrivare sino alle nostre campagne
più sperdute, dove sopravvive così fortemente questa condizione spirituale, non
vediamo intorno a noi persone impregnate della cultura moderna fare delle offerte
al santo che assicura il successo agli esami, a quello che fa ritrovare gli
oggetti perduti o alla tal vergine che guarisce i malati? Nonostante gli sforzi
generosi di qualche grande mistico per elevare l’umanità alla concezione
dell’amore disinteressato, nonostante le esortazioni verbali del catechismo,
smentite del resto dalle stesse pratiche del prete che le insegna, l’immensa
massa dei credenti non agisce che per attirarsi i favori del dio o per
scongiurare le sue collere.
La speranza e la paura sono sempre state la
solida base dell’emozione religiosa, che in sé non è mai esistita se non in
qualche cuore d’eccezione e che nella maggior parte delle coscienze non
sussiste se non per le promesse di felicità e le minacce di tormenti non solo ultraterreni,
ma temporali, che la fondarono e che la fanno persistere. Quando un certo
generale romano, malgrado tutti i vantaggi che gli si offrivano, rifiutava di
intraprendere la battaglia e si esponeva ad essere vinto con una manovra del
nemico, e ciò perché il volo degli uccelli non era stato favorevole, è in
quanto considerava una battaglia persa meno dannosa di una disobbedienza nei
confronti degli dèi. Anche quando sacrificava la sua armata, la sua propria
gloria e il suo interesse personale, non compiva un atto di pietà pura e
disinteressata. Tra la sconfitta e la collera degli dèi, sceglieva il male
minore, in quanto era persuaso che i mali peggiori spettassero all’empio. Il
fatto è che, se l’uomo può sbagliarsi su ciò che gli è utile o nocivo, non
preferisce mai ciò che crede nocivo a ciò che crede utile. Ben lontane dal fare
eccezione a questa regola, le religioni ne sono l’eclatante giustificazione e
si può dire che esse siano, a dispetto o piuttosto a causa dei sacrifici personali
che esigono, le più utilitarie fra le istituzioni umane.
Trovare il suo bene, evitare la sua pena (il
che è tutt’uno, non essendo il bene, più comunemente, che l’assenza di pena):
ecco, per l’individuo, non l’unico segreto, ma il segreto essenziale. E se noi penetriamo
il secondo segreto, messo così bene in luce da Guyau, se noi vediamo
l’individuo, uomo o animale, compiere spontaneamente atti disinteressati che
arrivano fino al sacrificio assoluto senza che intervenga un calcolo dei
valori, è perché l’individuo non è un essere assolutamente autonomo e la
specie, con i suoi istinti generali di conservazione collettiva, vive in lui, a
sua insaputa, di una vita attiva e permanente.
Del resto, nessun individuo può cercare il
suo bene in se stesso e tirarlo fuori dal suo intimo fondo. Egli è autonomo in
un certo senso, ma non esiste e non constata la sua autonomia personale che
tramite il suo contatto e la sua relazione con ciò che lo circonda, cose e
individui. Senza di essi sarebbe un punto nel vuoto, un punto che si
ignorerebbe. Egli è certamente scopo a se stesso, le cose e le persone non sono
per lui che dei mezzi; ma è precisamente perché queste cose e questi individui
esistono come mezzi e le loro azioni e reazioni sono così in contatto, per
conflitto o per accordo, con le sue proprie azioni e reazioni, che può
realizzare questo fine, che è lui stesso. E le cose, come gli individui, non
sono solamente fuori di lui, ma anche in lui, come idee e come realtà. Il mondo
esterno è in lui come idea solo quando ha imparato a conoscersi e a penetrare
un poco l’universo; mentre è in lui, come realtà immediata, per i caratteri
etnici che gli consegna il suo ambiente e i caratteri morali che gli consegnano
gli antenati che in lui sopravvivono.
Il secondo segreto scoperto da Darwin e
precisato da Guyau, che l’ha definitivamente introdotto nella filosofia, cioè
il segreto della simpatia per i suoi simili, si trova dunque nella parte più
profonda dell’individuo. La psicologia sommaria dei metafisici non poteva evidentemente
scoprirlo lì, dove avrebbe sonnecchiato ancora a lungo senza l’intervento
benefico dei naturalisti. Esso non si oppone, tutto il contrario, a che
l’individuo cerchi soprattutto e prima di tutto il suo bene, a che si consideri
come il suo proprio fine e non consideri i suoi simili che come suoi propri
mezzi. Nell’incessante scambio che è la vita di relazione – e nessun’altra
forma della vita è concepibile –, ogni individuo sente bene di essere se stesso
ed è a se stesso che egli pensa attraverso gli altri individui. Egli sviluppa
coscientemente la sua simpatia verso di loro per il bene che vi troverà e la
sua antipatia è da commisurare al male che egli ne teme. Può sbagliarsi nelle
sue simpatie e nelle sue antipatie, come può errare nella ricerca del suo bene
ed intossicarsi con dei frutti velenosi credendo di nutrirsi; ma non lo si vede
mai andare volontariamente contro il suo fine, che è se stesso, in tutte le
circostanze per mezzo delle quali si conserva, si preserva e si accresce.
L’individuo vive dunque essenzialmente per
sé, ma non vive grazie a sé, poiché non è in se stesso che trova le condizioni
della sua vita. Nemmeno l’attitudine ironicamente contemplativa dello scapolone
che pretende di vivere da filosofo realizza quella vita autonoma dichiarata così
eccellente dai teorici letterari dell’egoismo. Per quanto puramente intellettuale,
per quanto completamente distaccato dalle agitazioni mondane e politiche, dagli
affetti, dalle sofferenze e dalle pietà che ci oppongono o uniscono
nell’immensa mischia umana, questo atteggiamento è solo un atteggiamento, non
una regola di vita. Lasciamo poi perdere il brutto ruolo che interpreta colui
che assume tale attitudine lasciandosi nutrire, vestire ed ospitare da persone
che egli onora del suo disprezzo superiore: poiché l’individuo è il suo proprio
fine e poiché il resto dell’universo – cose e persone – non è che il mezzo tramite
cui egli si realizza, si sviluppa e si mantiene, si può ammettere per un
istante che l’egoista si soddisfi ricevendo tutto e non dando nulla. Fintantoché
gli altri individui, per ignoranza, acconsentono a donargli tutto ciò che gli
permette d’essere e a non ricevere niente in cambio se non il suo disprezzo, è
una questione fra lui e loro. Bene o male, ognuno di essi concepisce così il
proprio bene; è sicuramente uno dei numerosi errori in cui cadiamo durante la
ricerca del nostro bene, ma poco importa
per il momento.
Ma la vita intellettuale di questo egoista
non è formata, come tutto il resto, dai morti che sono in lui e dai vivi che
gli sono attorno? La sua ironica contemplazione non trae unicamente il suo
valore dallo strumento interiore donatogli dai morti e dagli oggetti che gli forniscono
i vivi? – E sia, lui dirà. Ciò lo ricevo ancora con la stessa sprezzante
serenità con cui ricevo il vitto e l’alloggio. Anche in questo senso il mondo
esterno mi appartiene senza reciprocità. Le cose e gli individui sono per me
dei mezzi, per me che, come ogni individuo, seguo il mio proprio obiettivo,
rifiutandomi di essere un mezzo per gli altri individui; quanto alle cose,
faccio del mio meglio per farne a meno, limitando i miei bisogni allo stretto
necessario. In questo modo il mondo esterno mi fornisce lo spettacolo
gratuitamente. Esso non ha che un mezzo per sfuggire alla mia osservazione poco
benevola: è quello di sparire; lo sfido a farlo! Invano mi si minaccerà di
privarmi delle gioie positive destinate a coloro che instaurano con esso un rapporto
di simpatia. Queste gioie non esistono per me, io le ritengo un raggiro
sentimentale: esse complicano la vita e vi introducono dei tormenti superiori
per intensità alle gioie stesse.
L’errore di questo egoista, il quale si
crede un individualista, deriva dall’immaginare che ogni differenza sia una
superiorità. Egli non è simile agli altri uomini, dunque è loro superiore. Non
ha donato loro nulla e da loro ha ricevuto tutto, dunque è più ricco. Egli
dimentica solo questo: che se la differenza è uno dei caratteri della
superiorità, è anche uno dei caratteri dell’inferiorità. Per quanto riguarda la
sua ricchezza, che si degni di farne un inventario sincero e sarà terrorizzato
dalla sua povertà. Crede di averci preso tutto ed eccolo ridotto a ricevere l’elemosina
della nostra pietà. Crede di averci spogliati ed è lui stesso che si è
spogliato di tutti i mezzi per gioire e comprendere. La suprema ricchezza di
questo povero pazzo è una suprema miseria. Per aver misconosciuto la gioia che
c’è nel diffondersi, nel donarsi, nel prodigarsi, si è infine richiuso su se
stesso. Non è lui che ha dominato su di noi, ma noi che abbiamo dominato su di
lui. Abbiamo iniziato a coltivare un terreno che si è esteso attorno a lui a
mano a mano che lui stesso si riduceva. Credeva di possederci nello spirito e
di noi è arrivato ad ignorare tutto. Poiché egli non possiede che delle
apparenze in ciò che esse hanno di più strettamente soggettivo. Ci scorge
attraverso lo specchio alterato della sua coscienza ridotta e, quando crede di
farsi beffe delle nostre imperfezioni, è della propria deformità che ride. Fa proprie
le nostre aspirazioni all’ideale e, impedendogli il suo realismo inferiore di
comprendere i nostri sforzi per avvicinarci ad esso, è la sua propria impotenza
che diffama in noi. È condannato a non conoscerci se non per i nostri aspetti
animali più bassi e brutti, e la sua pretesa scienza senza illusioni non si
nutre che dello spettacolo incompleto di alcune delle nostre azioni, essendo
essa divenuta incapace di intravederne la coesione e di distinguerne il senso.
Egli assomiglia a un maniaco che trascorre le sue serate dietro le quinte di un
teatro, che dello spettacolo non vede che attori ansiosi prima della loro
entrata e sudati alla loro uscita, e che non ode che il rumore degli applausi e
dei fischi attraverso i teloni chiusi. Sull’opera recitata un tale spettatore
ne saprebbe meno del pompiere di servizio.
È d’altronde inutile che il nostro egoista
creda di sfuggire alla legge dello scambio universale. Non solo, credendo di
ingannarci, si inganna allo stesso modo dell’avaro che muore di fame sul suo
tesoro inutile, ma inoltre, suo malgrado, ci restituisce più di quanto non ci
abbia preso, pur avendoci preso così poco. Crede che noi gli regaliamo uno
spettacolo, mentre è lui che ce lo regala. È uno sconcio sociale, un ilota
filosofico, e serve, comunque sia, al nostro apprendimento. Siccome lo si ignorerebbe
se lui stesso non si curasse di esporsi ai nostri sguardi, è lui che si
incarica di presentarci la sua miseria. Accanto al profitto che la letteratura
ne ricava, nella misura in cui le opere soggettive sono sempre le più
letterarie, lo sorprendiamo nel flagrante delitto di scambio con il mondo
esterno. Così che egli non può affermare il suo egoismo se non negandolo.
Eugène
Fournière,
Essai sur l’individualisme, Alcan, Paris 1901, pp. 17-24
Nessun commento:
Posta un commento