venerdì 10 agosto 2012

Le radici borghesi dell’anarcosindacalismo

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Le radici borghesi dell’anarcosindacalismo

“Noi favoriamo lo sviluppo di un movimento operaio fondato sulla democrazia diretta, non solamente perché esso sarà più efficace nell’odierna lotta contro la classe dei datori di lavoro, ma anche perché annuncia – e stabilisce le basi per – una società di libertà e di eguaglianza, senza autoritarismo o sfruttamento”.

Volantino redatto da Workers Solidar
ity Alliance, organizzazione anarcosindacalista


Nel corso del XIV e del XV secolo, comincia una profonda trasformazione sociale. I suoi momenti culminanti saranno la Guerra d’Indipendenza americana e la Rivoluzione francese. Questo periodo fu caratterizzato dall’emergere della borghesia contro il sistema feudale e il potere della Chiesa cattolica. Al posto del feudalesimo, è sorto il sistema economico capitalista e il sistema politico della democrazia.
Piuttosto che permettere ad una aristocrazia non eletta, o ad un re, di governare, la democrazia liberale rivendica il potere del “popolo”, attraverso i suoi rappresentanti ed il suo voto. Esattamente come gli anarcosindacalisti, la borghesia voleva “una società di libertà e di eguaglianza, senza autoritarismo o sfruttamento”. Eccezione fatta per le affermazioni sul “movimento operaio” e sulla “classe dei padroni”, Thomas Payne [1] avrebbe potuto essere l’autore della citazione sopra riportata.
Ovviamente, gli anarcosindacalisti ci diranno che non utilizzano lo stesso discorso tenuto dai rivoluzionari borghesi. E si potrebbe credere loro, se l’anarcosindacalismo non riflettesse l’ideologia borghese, in modo ben più significativo del semplice utilizzo di una stessa terminologia. I valori sostenuti dagli anarcosindacalisti non differiscono da quelli dei teorici liberali più radicali (vedi liberisti), ed il loro progetto è tutto sommato un’estensione del progetto liberale.


Il sistema economico imposto dalla borghesia è il capitalismo. Senza dilungarci troppo, possiamo affermare che il capitalismo si distingue, comparandolo con altri sistemi economici, non tanto per l’esistenza dei capitalisti, quanto per la produzione di un eccesso di capitale che permette un’espansione economica continua. Il capitalismo è un sistema altamente morale, che richiede dei valori in contrapposizione ai bisogni, ai desideri e all’avidità individuale, al fine di estendersi senza contraccolpi. Questi valori, essenziali all’espansione capitalista, sono la produzione e il progresso. Ogni conquista tecnologica deve essere immediatamente adottata, salvo nel caso in cui questa rappresenti una minaccia per una nuova espansione del capitale.
Il lavoro è essenziale per la produzione e il progresso; così la borghesia valorizza il lavoro e, contrariamente all’immagine diffusa dai propagandisti “radicali” del lavoro, non è raro che i capitalisti lavorino molte più ore di un operaio attivo nell’industria; ma è un lavoro organizzativo piuttosto che di produzione. Coloro i quali trovano un modo per evitare le pene del lavoro sono i rinnegati della società capitalista.


Gli anarcosindacalisti abbracciano tutti i valori capitalisti. Il loro obbiettivo è “il reale controllo umano della produzione”. Malgrado l’evidenza antropologica del contrario, essi suppongono che l’uomo, agli albori della civiltà, abbia passato il suo tempo a lottare per la sopravvivenza, e che solo grazie alla produzione delle tecnologie ed al progresso noi possiamo vivere una “vita meravigliosa” e gioire delle mercanzie – ups ! Desolato, sto scivolando nel sarcasmo !
I sindacalisti individuano delle tecnologie specifiche che rappresentano delle minacce alla sopravvivenza, ma generalmente vedono la tecnologia e il progresso come delle cose positive. Alla luce di tutto ciò, non è una sorpresa che parlino con entusiasmo del lavoro: perché senza il lavoro non ci sarebbe alcuna produzione o progresso.
Esattamente come la borghesia, essi vedono il disoccupato, il precario, l’emarginato, come dei “parassiti” – vedere ad esempio Listen, Anarchist ! di Chaz Bufe [2]. E, più di una volta, li abbiamo sentiti gridare in piazza: “Chi non lavora, non mangia !”.
Il loro unico problema con il sistema capitalista è inerente alla sua conduzione. Essi preferirebbero il sindacato internazionale dei lavoratori, piuttosto che essere diretti da individui, società o Stati. Ma la struttura di base resterebbe immutata. Come la borghesia, e forse più della borghesia, gli anarcosindacalisti abbracciano i valori essenziali del capitalismo.
Se la produzione e il progresso sono dei valori positivi, che rendono essenziale il lavoro, allora il conformismo sociale è altrettanto essenziale. (…) Qualsiasi piacere che sfugga alla mercificazione, e che di conseguenza non è soggetto al controllo della produzione, è contrario alla morale. Gli individui che non danno un contributo positivo alla società sono considerati dei fallimenti della società o peggio, condannati come criminali. Persino l’artista non conforme, il musicista o il poeta, sono sospetti agli occhi dei borghesi, a meno che si possa recuperare la loro creatività, talvolta rinnegata.
Questa stessa attitudine verso coloro che non si adattano alla società è condivisa dagli anarcosindacalisti. La punizione degli “emarginati”, dei “devianti”. (…) Storicamente, l’anarcosindacalismo ha sempre cercato di soffocare i focolai di ribellione, talvolta con la persuasione, altre con l’insulto, per spingere i ribelli a rientrare nei ranghi ed accettare la società. Alla pari della borghesia, essi vogliono che la produzione progredisca senza intoppi, e questo esige il conformismo sociale.
Con il conformismo sociale (e la sua “devianza”) si giunge necessariamente alla pace sociale, che diventa un atto di amore. È vero che la borghesia ha sempre sfruttato le guerre tra nazioni per estendere il capitale, ma è sempre un rischio; poiché qualsiasi violenza può nuocere al corretto funzionamento del capitalismo. Solo la violenza istituita dalle autorità, su basi razionali e morali, trova posto nella società borghese. I conflitti personali non solo escludono la violenza fisica, ma devono essere educati, restare nei limiti di una discussione ragionevole, della negoziazione e del consenso. Le passioni, in una tale società, non hanno diritto di cittadinanza. La pace sociale può essere violata solo in circostanze estreme.
Gli anarcosindacalisti valorizzano anche la pace sociale. Da Le influenze borghesi nell’anarchismo di Luigi Fabbri [3] a Listen, Anarchist !, essi cercano di convincere gli anarchici dall’astenersi da espressioni verbali violente – ironicamente, essi pretendono che questi contrasti sono delle false concezioni dell’anarchismo, creati ad arte dai media borghesi. Ma, come possano pensare che gli individui in rivolta contro l’autorità siano incantati dalle sirene della stampa borghese, resta per me un mistero. Al pari della borghesia, gli anarcosindacalisti ci invitano ad esprimere razionalmente i nostri disaccordi, senza passione, in modo sereno. Da qui, ogni espressione attiva e violenta di ribellione individuale è considerata irresponsabile, contro-rivoluzionaria e contraria alla morale anarcosindacalista. (…) In effetti, al di fuori di una “situazione rivoluzionaria”, gli anarcosindacalisti rifiutano ogni forma di attività illegale – ad esempio, la disobbedienza civile e il sabotaggio – , considerata controproducente. Ma è necessariamente un male essere controproducenti ? Solo la ribellione della classe operaia – “l’autorità appropriata” nella teoria anarcosindacalista – può giustificare la violenza. E questa violenza deve essere abbastanza razionale da permettere di mantenere gli strumenti di produzione intatti ed effettuare la transizione verso la produzione anarcosindacalista …possibilmente, in maniera vellutata.
Gli anarcosindacalisti vogliono anche creare una società razionale, secondo i precetti della loro morale. Ci invitano a “contrastare l’irrazionalità …ogni volta e ovunque essa appaia” [4]. Secondo loro, l’odierna società non è abbastanza razionale. Poiché la ragione è alla base del comportamento morale, essa deve prevalere in tutti gli aspetti della vita. Non sono né le nostre passioni, né i nostri desideri, ma il nostro “interesse razionale” che ci deve guidare, dicono i sindacalisti facendo eco agli utilitaristi. È più razionale che il lavoratore controlli i mezzi di produzione, proclamano. Ignorando la questione di sapere se è effettivamente possibile che qualcuno controlli i mezzi di produzione in una società industrializzata.


Tanto i teorici liberali borghesi, quanto gli anarcosindacalisti, vogliono imporre una società razionale, fondata sulla libertà, l’eguaglianza e la giustizia, garantendo i diritti dell’uomo. Entrambi vogliono un’economia funzionante, senza contraccolpi, e con un livello di produzione in grado di garantire il progresso scientifico e tecnologico. Entrambi esigono la pace sociale ed il conformismo per realizzare i loro progetti. È difficile pensare che i loro progetti siano dissimili. Vedo soltanto un paio di differenze significative. La borghesia concepisce l’economia come una forza apolitica, che può evolvere efficacemente sotto la forma di impresa privata. Gli anarcosindacalsiti riconoscono nell’economia una forza politica che deve essere, di conseguenza, diretta democraticamente. I liberali borghesi credono che la democrazia rappresentativa possa affermare il loro ideale. Gli anarcosindacalisti credono che la democrazia debba essere diretta. Eppure, non ci chiedono se siamo disposti a passare il nostro tempo a votare su ogni singola questione sociale.
Il progetto anarcosindacalista è solamente un’estensione del progetto liberale borghese, un tentativo di condurlo al suo compimento logico e razionale.


“L’attività quotidiana degli schiavi riproduce la schiavitù”

Fredy Perlman

Tutto ciò mi conduce infine al parallelo tra liberismo borghese e anarcosindacalismo; non un parallelismo di idee, ma di ignoranza. Nessuno dei due sembra in grado di riconoscere la realtà del sistema sociale nel quale viviamo. Parlando di libertà e democrazia, i borghesi liberali e gli anarcosindacalisti vedono solo le autorità umane che esercitano il controllo su di loro; sono dunque ciechi ai meccanismi sociali ai quali partecipano, e che sono la causa della loro schiavitù. Così, i liberali borghesi si accontentano di liberarsi dei preti e dei re, mentre gli anarcosindacalisti rifiutano i presidenti e i padroni. Ma le fabbriche restano intatte, le scuole restano intatte, i centri commerciali restano intatti (i sindacalisti possono chiamarli centri di distribuzione) …l’intero sistema sociale resta intatto. Se la nostra attività quotidiana non è cambiata in maniera significativa – e gli anarcosindacalisti non sembrano indicare alcuna volontà di cambiamento, se non quella di aggiungere al fardello quotidiano dell’operaio i problemi gestionali della fabbrica -, quale differenza fa il fatto di non avere un padrone? Continuiamo ad essere degli schiavi ! Cambiare il nome non cambia la natura del mostro.
C’è però una ragione per la quale né i borghesi liberali, né gli anarcosindacalisti, riescono a collegare la schiavitù al sistema sociale. Non vedono nella libertà la capacità dell’individuo di vivere la propria vita come la intende. La vedono unicamente come la capacità dell’individuo di integrare pienamente e attivamente una società progressista e razionale. “La libertà è la schiavitù” non è forse un’aberrazione del pensiero staliniano o fascista, ed è inerente a tutte le prospettive attribuite dalla libertà alla società, piuttosto che all’individuo. La sola via percorribile per garantire la “libertà” di tali società è di sopprimere la “devianza” o la ribellione, ovunque esse appaiano.
Gli anarcosindacalisti possono parlare di abolire lo Stato, ma dovranno riprodurre ciascuna delle sue funzioni, per garantire il funzionamento senza conflitti della loro società. L’anarcosindacalismo non rappresenta una rottura radicale con l’odierna società. Cerca piuttosto di estendere i valori di questa società, in modo tale da dominare totalmente le nostre vite quotidiane. (…) Noi vogliamo spezzare le nostre catene e vivere pienamente la nostra vita.

Feral Faun

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