mercoledì 24 luglio 2019

IL FUOCO E L’IDENTITÀ II


In maniera quasi musicale, Nietzsche sintetizza l’intuizione fondamentale di Eraclito di un mondo in eterno divenire contro la tendenza opposta di vedere in esso qualcosa di permanente, di fisso, di residuale:
….Per prima cosa negò la dualità di mondi del tutto diversi, che Anassimandro era stato costretto ad ammettere; non separò più un mondo fisico da un mondo metafisico, un regno delle qualità determinate da un regno della indefinibile indeterminatezza. Compiuto che ebbe questo primo passo, niente poté più trattenerlo da una ben più grande audacia di negazione: negò l’essere in generale. Questo unico mondo, infatti, che egli lasciò sussistere – custodito da una cintura di eterne leggi non scritte, abbandonato al flusso e al riflusso nel bronzeo pulsare del ritmo -, in nessun luogo mostra un permanere, una indistruttibilità, una diga nella fiumana.
Conformemente alla forma intuitiva del suo filosofare, Eraclito mostra avversione per il procedere freddamente logico. La massima forza della rappresentazione intuitiva è per Eraclito il suo regale possesso; mentre verso l’altra specie di rappresentazione che si realizza in concetti e in combinazioni logiche, dunque verso la ragione, si mostra freddo, insensibile, anzi ostile e sembra provare piacere allorché può contraddirla con una verità conquistata intuitivamente. Così fa in proposizioni come: «ogni cosa ha sempre in sé la propria antitesi», con tale spavalderia che Aristotele lo accusa, dinanzi al tribunale della ragione, del massimo crimine, quello di aver peccato contro il principio di contraddizione.
Ritornando all’eterno fluire del mondo secondo la lotta degli opposti:
A ciò giunse Eraclito osservando il caratteristico andamento di ogni divenire e trapassare, inteso da lui sotto la forma della polarità, come lo scindersi di una forza in due attività qualitativamente diverse, antitetiche e tendenti al ricongiungimento. Una qualità entra di continuo in discordia con se stessa e si divarica nei suoi opposti; di continuo questi opposti cospirano nuovamente l’uno verso l’altro. Il volgo crede invero di identificare qualcosa di rigido, di compiuto, di permanente; in verità luce e ombra, amaro e dolce sono in ogni momento vicini e avvinghiati l’uno all’altro come due lottatori, dei quali ora questo ora quello prende il sopravvento.
Dalla guerra dei contrari nasce ogni divenire: le qualità determinate che ci appaiono come durevoli esprimono solo la momentanea preponderanza di un lottatore, con ciò tuttavia la guerra non è mai finita, questo lottare si protrae in eterno.
E ora Nietzsche, con un’acutezza ed una sensibilità che appartengono solo ai grandi come lui, esprime quella massima intuizione di Eraclito secondo la quale questa guerra tra gli opposti non soggiace ad un caotico e amorale criterio materialistico ma, al contrario, è l’espressione di quell’eterna giustizia che regola ogni profonda contesa. Un concetto, quest’ultimo, conforme alla più profonda civiltà ellenica:
Tutto avviene secondo questa contesa, e appunto questa contesa manifesta l’eterna giustizia. E’ una concezione mirabile attinta alla più pura fonte dell’ellenico, quella che considera la contesa come il costante signoreggiare di una giustizia unitaria, rigorosa, vincolata a leggi eterne. Solo un greco fu capace di trovare in questa concezione il fondamento di una cosmodicea ……. è il pensiero agonale dei singoli greci e dello stato greco trasferito dai ginnasi e dalle palestre, dai certami artistici, dalla lotta dei partiti politici e dalle città tra di loro, sul piano della massima universalità, così che ora su di essa fa perno la ruota dell’ingranaggio cosmico.
Mentre l’immaginazione di Eraclito misurava l’universo nel suo moto incessante, la «realtà», con l’occhio dello spettatore gioiosamente appagato, che vede lottare in gaia tenzone innumerevoli coppie sotto la vigilanza di severi giudici di gara, sopraggiunse in lui un presagio ancor più alto; non poté più considerare separate tra loro le coppie e i giudici, gli stessi giudici sembravano combattere, gli stessi lottatori sembravano giudicarsi.
L’essenza del mondo come fuoco che si plasma in infinite forme ed infinitamente ritorna in se stesso:
Quel che costui (Eraclito) trovò è una rarità anche nell’ambito delle inverosimiglianze mistiche e delle inattese metafore cosmiche. – Il mondo è il giuoco di Zeus o il giuoco del fuoco con se stesso; solo in questo senso l’uno è al tempo stesso il molto.
Nel passo seguente, Nietzsche si interroga su come Eraclito, dopo aver definito una bramosia del mondo quella di ritornare nel puro fuoco, sia arrivato a giustificare il nuovo ed opposto desiderio, di quel fuoco stesso, di effondersi in una nuova «peccaminosa» molteplicità; e trova la risposta nel concetto greco di «hybris».
Il concetto di «colpa» sembra, dunque, attanagliare anche la filosofia di Eraclito, dell’emancipatore per eccellenza, del «Prometeo dei filosofi».
Il periodo in cui il mondo si affretta incontro a quella conflagrazione e alla dissoluzione nel puro fuoco è caratterizzato da Eraclito, in guisa estremamente incisiva, come una bramosia e un bisogno, il completo inabissarsi nel fuoco come sazietà. Resta a noi il problema di come ha inteso e chiamato il nuovo ridestantesi impulso alla plasmazione cosmica, all’effondersi nelle forme della molteplicità. Sembra venirci in aiuto il proverbio greco, con il pensiero che «sazietà genera delitto (la hybris)»; e in effetti ci si può chiedere un istante se Eraclito abbia forse derivato dalla hybris codesto ritorno al molteplice. Si consideri un po’ questo pensiero con serietà: alla luce di esso il volto di Eraclito si trasforma di fronte ai nostri sguardi, il superbo lampeggiare dei suoi occhi si smorza, una piega di dolorosa rinuncia, d’impotenza si rileva nei suoi lineamenti, si direbbe che ci sia chiaro perché la tarda antichità lo abbia chiamato il «filosofo piangente». Non è ora l’intero processo cosmico un atto di punizione della hybris? La molteplicità, il risultato di un delitto? La metamorfosi del puro nell’impuro, conseguenza dell’ingiustizia? Non viene posta ora la colpa alla radice delle cose, e di conseguenza non è affrancato da essa il mondo del divenire e degli individui, ma al tempo stesso sempre di nuovo a subirne le conseguenze?
Ma, poi, Nietzsche mette in evidenza come quel concetto di «colpa» appaia permeare la filosofia di Eraclito solo a chi non ha compreso il senso autentico della sua intuizione; ritorna con forza quel senso di giustizia eterna e di normatività alla base della contesa. Quella pericolosa parola, hybris, è in realtà la pietra di paragone per ogni eracliteo; è su questo punto che egli può mostrare se ha compreso o misconosciuto il suo maestro. V’è colpa, ingiustizia, contraddizione, dolore in questo mondo?
Sì, grida Eraclito, ma soltanto per l’uomo limitato che vede per parti staccate e non globalmente, non già per il dio contuitivo; per questi ogni contraddizione concorre ad un’unica armonia, invisibile, è vero, per il comune occhio umano, ma comprensibile per chi, come Eraclito, è simile al dio contemplativo.
…..E così come giocano il fanciullo e l’artista, gioca il fuoco semprevivente, costruisce e distrugge, con innocenza……
……Tramutandosi in acqua e terra, a somiglianza di un fanciullo innalza cumuli di sabbia sul lido marino, ammonta e fa ruinare: di tempo in tempo riprende di nuovo il giuoco. Un attimo di sazietà: poi lo riafferra nuovamente il bisogno, così come il bisogno costringe l’artista a creare. Non empietà, bensì il sempre risorgente impulso del giuoco chiama altri mondi alla vita.
Soltanto l’uomo esteta riguarda in questo modo il mondo, lui che nell’artista e nel nascere dell’opera d’arte ha appreso come la contesa del molteplice può portare in sé norma e diritto, come l’artista sia contemplativamente al di sopra e agisca all’interno dell’opera d’arte, come necessità e giuoco, conflitto e armonia debbano coniugarsi per generare l’opera d’arte.
Chi pretenderà ora da una siffatta filosofia altresì un’etica con i necessari imperativi «tu devi», o addirittura muoverà a Eraclito il rimprovero di una tale mancanza?
Sin nelle sue più profonde midolla l’uomo è necessità e assolutamente «non libero» – se si intende per libertà l’insana pretesa di poter mutare a talento la propria essentia a guisa di un abito, una pretesa che ogni seria filosofia ha fino ad oggi respinto con il dovuto sarcasmo. Soltanto coloro che non hanno motivo di essere soddisfatti della sua descrizione naturale dell’uomo trovano Eraclito cupo, malinconico, lacrimoso, accigliato, atrabiliare, pessimista e particolarmente detestabile. Ma con tutte le loro antipatie e simpatie, odio e amore, sarebbero costoro per lui egualmente indifferenti ed egli impartirebbe loro sentenze all’incirca di questo tenore: «I cani abbaiano a coloro che non conoscono»
…..Da questi insoddisfatti (della sua filosofia) provengono altresì le numerose lagnanze sull’oscurità dello stile eracliteo; verosimilmente mai un uomo ha scritto in modo più chiaro e luminoso. Molto stringato senza dubbio e perciò, a dire il vero, oscuro per chi va rapido nella lettura.

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