sabato 27 aprile 2019
L’ESTINGUERSI DELL’UMANO SOCIETARIO
Pessimismo e nichilismo vanno a braccetto, ma solo in Albert Caraco raggiungono quella tonalità oscura che impedisce ogni speranza e chiude ogni spiraglio d’illusione. Dalle sue pagine si esce guariti da ogni miraggio sul mondo, preparati per il macello prossimo futuro – e definitivamente redenti da ogni viziosa idea di soavità dell’uomo e della realtà. Rispetto a lui, i grandi pessimisti sono roba dolciastra, profeti zuccherati, voci infiacchite dalla chimera che “l’uomo ce la farà”.
Non altro che questo può succedere con chi ha scelto la strada di una scrittura ossessiva e disperata, un uomo che rifiuta ogni ottimismo delirante – simile secondo lui all’erezione dell’impiccato –, un dandy solitario i cui gesti misurati celano una soffice contiguità col tragico, che egli accetta come segno della libertà («Il rifiuto del tragico è proprio degli schiavi», annotava). Tentare di classificare Caraco lascia sgomenti per i tanti aspetti che incarnò: invasato che impreca contro tutto e tutti; barbaglio gnostico nelle tenebre del mondo; creatura garbata in devota attesa che lo spirito femminile affranchi l’orrore maschile; ebreo convertitosi per convenienza familiare al cristianesimo, ma del quale disprezza la viltà e la bassezza; cantore di una fulgida sterilità che finalmente impedisca all’uomo di perpetuarsi.
Un’intelligenza che medita su tutto questo genera infine una sola requisitoria: quella sul male e sull’apocalittica fine della storia. Caraco infatti si rivolge a chi ancora s’illude che qualcosa possa impedire la fine e lo fa in libri i cui titoli abrogano ogni residua serenità: Il desiderabile e il sublime: fenomenologia dell’apocalisse (1953), Otto saggi sul male (1963), La tomba della storia (1966), Saggio sui limiti dello spirito umano (1982) e tanti altri.
Nato a Istanbul nel 1919 in una ricca famiglia ebrea, ne segue la vita errante tra Vienna, Praga, Berlino, Parigi e, col crescere dell’inquietudine europea, Honduras, Brasile, Uruguay. Al rientro in Europa nel dopoguerra, stabilitosi a Parigi, Caraco si abbandona alla scrittura come a una sorta di bisogno fisico, osservandone i rigori di una quotidiana disciplina, grazie alla quale produce titolo su titolo, un’opera di impressionante vastità che, per lo sfrenato impulso nichilista, resta ai margini dell’interesse comune.
La disperazione di Caraco ha un fascino assoluto e azzardato, rapisce in un gorgo di lucida visione, nel quale ogni cosa appare nuda, ma anche tersa. La sua voce declama l’orrore che fatalmente ci attende, in ottemperanza a un verdetto che è già stato espresso. Ridicole sono le illusioni, insensate le fedi, scellerati gl’ideali, efferati i valori: ci attende il baratro, che è molto più vicino di quel che pensiamo, intontiti come siamo dal clamore dell’imbecillità.
Tutto si è fatto nitido in relazione alle tenebre che salgono, tanto che è possibile schedare i fenomeni, strutturarli in una visione coerente, declinare il nulla in ogni sua variazione, redigere un diligente salterio della rovina. Caraco lo ha fatto col corrosivo Breviario del caos uscito a Losanna nel 1982 o con l’Abbecedario di Martin-Batôn, del 1994: collezioni di nitide sentenze che estasiano per come il nulla possa trovare una così imperturbabile forma espressiva, possa risuonare in frasi serene pur camminando sul ciglio del vuoto, possa essere narrato come una volta le fiabe ai bambini per farli serenamente addormentare.
Il suo edificio nichilista è di solido fondamento. Se ne potrebbe scorgere il debutto nell’osservazione che il mondo non può più essere salvato da nessuno, che l’idea di salvezza è semplicemente sbagliata. Ma anche nel rilievo che la catastrofe è necessaria: il mondo è a brandelli, il suo riassetto inattuabile, perché impossibile arrestarne il movimento e considerare tutto con metodico distacco: non è in nostro potere frenare il flusso che ci travolge, è troppo tardi, da decenni ormai stiamo andando verso il caos, stiamo allestendo la colossale catastrofe che estinguerà la storia.
E non sarà viaggio lieve. Nella catastrofe l’uomo diventerà atroce: verrà a mancargli acqua e terra, forse anche l’aria, e per campare sterminerà e divorerà il suo simile, azione alla quale daranno manforte quelli che oggi si allietano della propria spiritualità. Sarà inoltre una catastrofe completa: essendo annunciata e inevitabile, coglierà anche i «reggitori da strapazzo» e gli «impostori mitrati».
Esultante sapere che moriranno anche loro assieme a noi, che non ci sarà sotterraneo in cui barricarsi, isola dell’oceano in grado di accoglierne la fuga, valle alpina esente da luridume canceroso: nelle tenebre rotoleremo tutti assieme, e se rimarrà un ricordo della nostra immonda civiltà sarà quello del modello da non imitare.
Civiltà immonda, come attestano le città. Organismi disumani, incubi di perfida bruttezza, mostri che divorano quel che producono, ricettacolo di frastuono e di tanfo, caos di fabbricati assurdi, catasta di corpi sciaguratamente vivi, ammasso incoerente di criminali, accozzaglia di sventurati senza scampo: questo sono le città, scuole di morte, covi di una proliferazione che ha il solo fine di fomentare morte di massa, come per gli sciami di animali troppo numerosi: topi, scarafaggi e cavallette. Il solo modo di cambiare le città è distruggerle, assieme agli uomini che le popolano, e un giorno qualcuno plaudirà a questo olocausto.
Tutto sorge dall’orrore dell’universo: i pianeti sono inabitabili, sono miriadi di bolge, inferni di ghiaccio e inferni di fuoco. Nella creazione la vita si profila come un fenomeno accidentale. E che razza di creazione è? che razza di ordine naturale quello in cui a una buona riuscita equivalgono mille aborti e mille agonie?
Se Dio esiste, il caos e la morte sono nel novero dei suoi attributi; se non c’è poco importa, non cambia nulla: «Il caos e la morte basteranno a se stessi fino alla consumazione dei secoli». La fede diventa, così, una vanità tra le tante: qualunque divinità l’uomo incensi, sarà vittima del disfacimento.
A nulla servono le norme morali, delirante credere che giusti e ingiusti possano godere di diversi trattamenti: buoni e cattivi avranno un solo destino. Ma delirante anche credere che l’universo esista per noi: questa la frenetica allucinazione della metafisica. Le religioni non servono a nulla, e nessun motivo di esistere hanno più i credenti.
L’uomo, d’altra parte, è un minorato che, per assurdo caso, circola sulla crosta terrestre. Sparso sul mondo – e ora anche verso i pianeti più a portata di mano della sua miserabile tecnologia – l’uomo infetta come lebbra un angolo di universo, ne rappresenta l’animale rozzo, la bestia idiota, la creatura patologica. È la causa diretta della sua stessa fine, sulla cui fatalità si misura la sua menomazione. Per rinnovarsi, il mondo avrebbe bisogno di un’azione enorme di sfaldamento dell’umano, di ritorno indietro, di disgregazione volontaria.
Non essendo realizzabile da parte di una bestia ottusa, il mondo scomparirà assieme all’uomo che lo infetta. La catastrofe è inscritta nel destino della minorazione umana: è necessaria, desiderabile, legittima.
Ma non solo l’uomo è creatura depravata: egli si costituisce persino in forma di massa. Sottoprodotto della morale e della fede, la massa divora e insozza il mondo facendone un inferno, là dove potrebbe essere un paradiso se solo gli uomini fossero pochi, anzi pochissimi. Ne deriva che continuare a moltiplicarsi è criminale: bisogna insegnare all’uomo che «vivere è un abuso, mai un diritto», che vivendo si aumenta la bruttezza del mondo, sempre più gravato dal sovrannumero.
E sulla massa dominano uomini orribili: preti e bottegai. Il danaro e la spiritualità premono affinché la corsa del mondo non si arresti. I bottegai reclamano consumatori, i preti – per il gregge delle anime pecorelle – famiglie e figli. Bottegai e preti approvano la fecondità dell’uomo, solo perché in un caso dissemina acquirenti e nell’altro ne accredita l’ideologia.
Profitto materiale dei bottegai e credito morale dei preti fondano la forma più radicale del dominio, dilatato dalla nostra cecità e idiozia: solo il disinganno equivarrebbe alla loro fine, ma la loro fine non giungerà mai da parte di una bestia rozza come l’uomo. Il mondo si sovrappopola di idioti, così reclamano preti e bottegai, e la sovrappopolazione equivale alla fine. La morte trova nei bottegai e nei preti i più solidi sostegni.
Poiché la fecondità conduce alla fine del mondo, è azione criminale. Se un giorno, dopo l’umana catastrofe, un animale intelligente pensasse al flagello della fecondità non potrebbe che giudicare immorale la famiglia (istituzione popolatrice di un universo sovrappopolato), valuterebbe folle la depravazione del pianeta conseguita mediante la riproduzione.
Meno miserabile del nostro sarebbe infatti un mondo popolato da onanisti e sodomiti, vettori di precetti molto meno distruttori di quelli che spronano alla catastrofe: «Miseri coloro che, in preda alla follia, generano! Beati i casti! Beati gli sterili! Beati anche coloro che preferiscono la lussuria alla fecondità! Oggi gli Onanisti e i Sodomiti sono meno colpevoli dei padri e delle madri di famiglia, perché i primi distruggeranno se stessi e i secondi distruggeranno il mondo, a forza di moltiplicare le bocche inutili».
Una volta riprodottisi, gli uomini compiono la stupidaggine di prestar fede alle ideologie, peggio: agli ideali. La nostra ultima illusione abita nella convinzione che una certa struttura ideale possa, meglio di altre, salvare il mondo.
Così, abbiamo creduto di salvarci mediante una fede religiosa, poi abbiamo creduto che una certa impostazione della comunità ci avrebbe redenti. L’ultima illusione dell’uomo: credere che una idea sia “buona” per la società, utile per recuperare la massa di disperazione che avanza. Ancora una volta, le idee cedono al “credere”… Crediamo che sia così, ma appunto lo crediamo, non ne abbiamo alcuna prova o certezza. Siamo condannati. L’ultima illusione che ci resta è un nuovo teatrino ideale.
Un solo lumino resta acceso in questo cimitero delle illusioni; non resta che una sola lusinga, ma cospicua: la donna. Ma non per il suo essere donna, quanto portatrice del principio femminile, il solo che può spazzare via il Padre dal cielo, ormai solo Padre del caos e della morte. Con la fine del Padre, giungeranno i secoli del ripristino completo dell’elemento femminile: madre, vergine e prostituta.
Solo allora sarà celebrato il matrimonio tra cielo e terra, solo allora il moto s’arresterà e regnerà la quiete. L’abbandono delle virtù militari, la mollezza, il disprezzo per quel che è rispettabile, l’effeminato: solo il carico immorale di queste cose potrà salvare il mondo dall’incubo fallocratico, guerrafondaio, integralista e tanatologico. Dobbiamo assolutamente uscire dalla storia, e potremo riuscirci solo grazie alle donne: «Voglio che il principio femminile presieda alla fondazione della Città futura». Ma Caraco lo vuole senza illusioni, dubitando che quella luce mai si accenderà.
Resta la morte: la sola mira perfetta, cui tendiamo come una freccia che, diretta al suo bersaglio, non sbaglia mai il centro. La morte è la sola certezza che ci resta: «È per la morte che noi viviamo, è per la morte che amiamo ed è per lei che procreiamo e sgobbiamo, le nostre fatiche e i nostri giorni si susseguono ormai all’ombra della morte, la disciplina che osserviamo, i valori che salvaguardiamo e i progetti che facciamo portano tutti a un solo esito: la morte». E allora, poiché il mondo è ridotto a un aborto perpetuo, ben venga la rovina e la dissoluzione. Ad opera dell’uomo il mondo s’è fatto ributtante, e lo diventerà sempre più: le foreste spariscono, il deserto avanza, il cemento inghiotte ogni spazio, l’acqua e l’aria sono avvelenate. Nella totale laidezza, nel rigoglio dell’orrore, la catastrofe è preferibile
martedì 23 aprile 2019
SUICIDIO
Non esistono
le verità assolute
Esistono le proprie verità
E raramente le verità di ieri
coincidono con le verità di oggi
Tutto è un continuo evolversi
DISTRUGGERE
per poi rinascere
Chi rimane vittima
delle proprie certezze
sino a trasformarle in
DOGMI ASSOLUTI
dovrebbe farsi trasportare
dal vortice nichilista
sino al suo atto più sublime
il SUICIDIO
Oltre
ancora più oltre
Bene o Male
Morale o Amorale
sono concetti astratti
che hanno vita
in coloro che costruiscono orticelli
Chi vive il "QUI ED ORA"
è consapevole di ogni dato momento
frutto di innumerevoli ed incalcolabili variabili
in quell'ATTIMO
sceglierà come meglio agire
ai suoi FINI del momento
So chi ero ieri
So chi sono oggi
Ma NON
So chi sarò domani
So cosa volevo ieri
So cosa voglio oggi
Ma NON
So cosa vorrò domani
Chiù Pac
Bene o Male
Morale o Amorale
sono concetti astratti
che hanno vita
in coloro che costruiscono orticelli
Chi vive il "QUI ED ORA"
è consapevole di ogni dato momento
frutto di innumerevoli ed incalcolabili variabili
in quell'ATTIMO
sceglierà come meglio agire
ai suoi FINI del momento
So chi ero ieri
So chi sono oggi
Ma NON
So chi sarò domani
So cosa volevo ieri
So cosa voglio oggi
Ma NON
So cosa vorrò domani
Chiù Pac
giovedì 18 aprile 2019
Povertà, morte e distruzione
Non riesco a sentire ciò che sente “l’altro”. Posso soffrire o essere felice, ma non posso sperimentare la sua stessa sofferenza in modo integrale, perché è un oggetto completamente estraneo alla mia esistenza. Povertà, miseria, ricchezza o opulenza sono fattori estranei alla mia realtà, parole completamente prive di significato. Dicono: “raccogli oro e argento e poi sarai ricco” oppure “indossa gli stracci, dormi nelle strade, manca di beni materiali e poi sarai povero”.
Io dico: “vivi in base agli altri, prendi ciò che vuoi dagli altri; ritorna alla tua esistenza, uno strumento patetico degli altri, e dunque sarai povero” o “sii un egoista, vivi per te, soddisfa la sete e la fame nutrendoti nella natura, sii creatore e creatura allo stesso tempo, abbraccia la solitudine e poi sarai ricco ». Non riesco a sentire la tua sofferenza perché la mia percezione è limitata: vede e sente ciò che potrebbe giovarmi o danneggiarmi, rispetto a chiunque altro.
La morte di un altro essere che non sono Io, non mi danneggia direttamente o indirettamente perché ho raggiunto la vera libertà. Un essere nobile e libero non può continuare ad essere circondato da catene familiari, spirituali e sentimentali che non fanno altro che limitare le capacità e diminuire la libertà. La morte dell ‘”altro” è un evento assolutamente normale, e la sua importanza dipende dal beneficio o danno che l’evento può causare su di Me, sull’individuo egoista. In questo modo, affermi: “nobile è colui che sacrifica la propria vita a favore degli altri, che abbandona tutto per la famiglia e gli amici”. Io dico: «è nobile quello che vede sfilare i cadaveri dei propri familiari senza versare una sola lacrima».
La distruzione è purificazione. Il mondo è sovrappopolato, eppure le vostre donne ripetono il verbo “dare alla luce”, e lo scrivono ogni volta, più e più volte, nella loro nefasta biografia. Se un essere umano nasce, diventa automaticamente il mio nemico, perché entrambi lottiamo per ottenere i beni che ci sono necessari, e perché entrambi abbiamo bisogno di un certo numero di risorse per sopravvivere. È la durezza della realtà che dobbiamo vivere, ma non è questo il motivo per cui dobbiamo chiedere e lamentarci in eterno. Mi alzerò e camminerò senza compagnia alcuna. So che non ho bisogno di nessuno tranne me, e che gli uomini codardi, nati per essere servi, troveranno abbastanza motivi per combattere per gli inutili gaznápiros (stupidi, Ndt) che li circondano, mentre io cercherò di distruggerli.
E se la folla cerca di divorarmi, inghiottirò anche gli esplosivi e le armi che circondano la volontà furiosa e sfrenata di vivere in Me e per Me.
Belzeebub
giovedì 11 aprile 2019
Generosa Gioventù Iconoclasta
Da Henry, Caserio a Lucetti, fino ad Anteo Zamboni; da Bruno Filippi a Renzo Novatore e senza dimenticarci di Aguggini e di Mariani, la falange giovanile dei grandi iconoclasti sembra non voglia estinguersi.
In questi ultimi attimi di vita rivoluzionaria, la gioventù — non meno gli anziani — sta scrivendo nella sua storia indomita, a colpi di maglio, tutte le sue esuberanti virtù eroiche. A poca distanza — gli anni e i mesi nel tempo eterno sono minuti secondi — come una infrangibile catena d'acciaio, essi, i giovani iconoclasti, i grandi generosi dall'animo eroico e dal pugno sodo, dimentichi di sé e del loro avvenire, con una raggiante visione dell'ideale, si sacrificano per l’umana libertà.
E nella loro grande generosità, nel loro grande amore sconfinato, non vedono dinanzi nessuna barriera, nessun inciampo, ma una larga strada spazzata da tutti gli insormontabili ostacoli che il feroce Moloch pone d'intralcio.
Illuminati dalla fede iconoclasta — come novelli argonauti salpanti per ignoti lidi alla conquista del «vello d'oro» — corrono veloci per distruggere le infami barriere, per atterrare il gigante goliesco della tirannide, con la fionda, con il ferro, con il fuoco, con la disperazione.
Non sono essi nel diritto di ricambiare agli aguzzini ciò che questi hanno dato? Non sono nel diritto di contraccambiare, come nel deserto, la legge del taglione? Mille volte sì!
Prima di intraprendere disperatamente la corsa veloce della vendetta, essi furono martiri con uguale eroismo. Mai piegarono negli svolti della loro via crucis, ma salirono impavidi l'erto e pietroso Golgota sociale. Senza un lamento, benché alle volte col respiro sfuggì dalle loro labbra una bestemmia o si sprigionò un urlo maldicente. Se caddero sotto i colpi dei manganellatori o dei pugnalatori del tipo di Maramaldo, ebbero solo il grido selvaggio del leone, ma non implorarono mai mercé dall'aguzzino.
Così, sorbendo l'amarissimo fiele di tutti i divieti, soffrendo tutte le imposizioni dai vincitori, fin quello di lasciare ogni cosa, il paesello natio, la madre, la sposa, i figli, il casolare e tanti ricordi d’infanzia; forzato a subire l’affronto e lo sputo dai rettili, l’insulto dagli sciacalli, il riso schernitore delle iene.
Con uguale valore però essi tutto fecero loro: senza lamenti, senza lacrime, ma con la febbre scottante nel corpo giurarono di non perdonare, giurarono vendetta e ad uno ad una, senza intesa, senza alleanze che quelle del cuore, senza altra meta che quella della libertà intera, senz’altro premio che quello di godere il sacrificio delIa propria vita in cambio di quella del tiranno.
E solo così si assolverà il voto, solo così van realizzandosi gli atti giustizieri che hanno in noi, eterni scamiciati, fortissima eco.
Non lontano dai giorni nostri caddero sotto la dinamite di Ravachol, di Vaillant, di Henry, i satrapi di Parigi mentre gozzovigliavano il ricavato dai balzelli grassati al popolo di Francia; cadde sotto il fuoco di Michele Angiolillo il carnefice di Montjuich, Canovas del Castillo; cadde sotto il pugnale del giovane Sante Caserio il sanguinoso presidente francese Sadi Carnot; cadde anche sotto il piombo di Gaetano Bresci, Umberto Savoia, bieca figura di cornuto e di boia; cadrà anche il carnefice neroteschiato d'Italia… benché non voglia il dio di Roma e i numi del gesuitismo! Verranno altri a raccogliere le rivoltelle cadute alla nobile irlandese e all'adolescente linciato; verranno anche altri a raccogliere la dinamite del Lucetti e a imbrancare il fucile del Zaniboni.
Il linciato di Bologna ha un augurevole nome: Anteo; ed Ercole non l'ha abbattuto tanto facilmente secoli passati. I linciatori nerocamiciati non hanno tanto facilmente sfatato la mitologica leggenda. Anteo avrà novella vita dalla madre terra e si compierà ancora una volta il verdetto di mille e mille vittime.
Oh, no, il tiranno maramaIdesco non avrà più diritto alla vita, il vindice giustiziere che colpì Cesare, Tiberio, Caligola, Nerone, Alboino, e tanti altri potenti, lo colpirà un giorno anche a lui nel cuore! Così avrà il suo corso regolare ancora una volta la storia.
Mai impunemente Maramaldo rinfoderò il suo pugnale; mai la freccia di Guglielmo Tell sbagliò bersaglio; mai Balilla non colpì con la sua pietra!… Ed allora?
Allora ritempriamo gli acciai, raccogliamo l’intrisa camicia di Anteo Zamboni, e dal sangue sgorgante dalle infinite ferite bagniamo di rosso la nostra rossa bandiera di ribellione e agitando il lembo al vento iroso, rinnoviamo le promesse di non smentire il sacrificio dei nostri martiri.
Con vendetta, nella vendetta, per la vendetta!
Severino Di Giovanni
[L’Adunata dei Refrattari, 1926]
martedì 9 aprile 2019
L’UNICO E IVAN KARAMÁZOV: I DUE VOLTI OPPOSTI DEL NICHILISMO
Presumibilmente, nella lettura di Camus, l’individuo stirneriano soffrirebbe in particolare della paura della solitudine esistenziale e dell’incapacità di andare oltre, per superare il cadavere di Dio, di quella codardia che hanno, anche sofferto i discepoli di Zarathustra, gli adoratori dell’asino, con la sola differenza che l’individuo stirneriano, uccidendo Dio, non ha bisogno di un altro padre simbolico, ma si traveste da divinità.
In altre parole, l’Unico sarebbe la vittima che prende il posto del boia, il rivoluzionario che indossa la corona del re ghigliottinato e che, quindi, si sente legittimato a commettere un crimine.
Si capisce allora perché Camus consideri la volontà di affermarsi, come caratteristica distintiva dell’Unico, delimitando sia Stirner che i nichilisti russi, esaminati nelle pagine precedenti in un quadro comune: anche Ivan Karamazov, il personaggio descritto da Dostoevskij in “I fratelli Karamazov”, compie una speciale esplorazione verso il nichilismo estremo che porta alla giustificazione morale dell’assassinio del padre. Ivan rifiuta la salvezza nella misura in cui tutta la salvezza implica la conformità alla sofferenza cosmica perché: Anche se Dio esistesse, sebbene il mistero nasconde una verità, […] Ivan non accetterebbe che questa verità fosse pagata con il male, la sofferenza e la morte inflitte agli innocenti. Ivan incarna il rifiuto della salvezza. La fede conduce alla vita immortale. Ma la fede presuppone l’accettazione del mistero del male, la rassegnazione davanti alla giustizia. Colui a cui la sofferenza dei bambini impedisce l’accesso alla fede non riceverà, quindi, la vita immortale. In queste condizioni, sebbene esista la vita immortale, Ivan la respinge.
Ivan nega la grazia per amore della giustizia, ma la negazione di Dio e il rifiuto di accettare la sofferenza inevitabilmente lo trascinano in una sordida disperazione e nell’accettazione del male che prima lo disgustava. Il paragone con Ivan non è, per il nostro scopo, una inutile digressione, ma esprime più a fondo l’idea camusiana del nichilismo contemporaneo: il “tutto è permesso” che i russi hanno dato per primo e che Stirner ha portato alle sue ultime conseguenze, la conseguenza dell’uomo che è diventato Dio.
Il nichilista, nell’opporsi al male e la morte, abbraccia l’idea della fine non solo dell’immortalità, ma anche della virtù: se non c’è virtù, neanche la legge esiste. Uccidere quindi è permesso : quando Dio, fonte della moralità, muore, l’uomo può diventare Dio e riconoscere che tutto è permesso.
Camus cerca di metterci in guardia, attraverso il percorso storico dell’idea di ribellione, contro la pericolosa deriva di una ribellione contro Dio, altrimenti legittima: infatti, secondo Camus, lo scopo dell’omicidio di Dio va oltre un semplice requisito esistenziale e penetra davvero nelle viscere della ribellione, e ciò fa sì che la morte di Dio sia prima di tutto una questione “politica”, perché l’audacia dell’uomo evoluto che uccide la divinità rappresenta un’autentica e genuina esplosione di insubordinazione: quando si solleva contro Dio, sorge in questo modo, contro ogni moralità imposta, esprimendo il rifiuto, assolutamente umano, di una salvezza pagata con sofferenza, come ha fatto Ivan Karamazov.
Ma, allo stesso tempo, Camus dimostra che la morte di Dio può anche diventare un’arma a doppio taglio, così che i suoi propositi di liberazione conducono a fini criminali: il conseguente vuoto morale, l’assenza di una moralità definita potrebbe giustificare qualsiasi atto , anche il più riprovevole (precisamente, quello che Camus rimprovera a Stirner).
È facile quindi che il nichilismo contempli il crimine quando l’uomo, privato di Dio, si ritrova in quel vuoto di valori (purché tutto il valore fosse possibile solo grazie a Dio), una sorta di horror vacui che lo spinge verso la convinzione che senza la grazia, l’immortalità o la salvezza, anche il bene perde il suo significato.
Questa è l’immagine del ribelle metafisico che Camus attribuisce a Ivan Karamazov, da cui, in qualche modo, aderisce anche l’Unico di Stirner: la leggera differenza (che Camus intravede acutamente) è che il primo cade in una disperata solitudine dopo l’omicidio metafisico, mentre l’Unico è soddisfatto e convinto del suo atto. Consapevole, tuttavia, di distinguere le diverse fasi del nichilismo, Camus attribuisce un tratto comune all’Unico e ad Ivan Karamazov: essi stessi diventano dei e in tale situazione abbracciano l’immoralità del crimine. Il “tutto è permesso” significa nient’altro che l’accettazione di tutto (anche l’omicidio) perché io, nuovo Dio, lo permetto.
È vero che questa attitudine riflette il comportamento del protagonista di “I fratelli Karamazov” quando afferma:
“Poiché Dio e l’immortalità non esistono, l’uomo nuovo può diventare Dio.” Ma cosa significa essere Dio? Riconoscere con precisione che tutto è permesso: respingere ogni altra legge che non sia la propria […] vedendo e diventando Dio, significa accettare il crimine.”
Siamo d’accordo sull’interpretazione del nichilismo che Camus attribuisce a Ivan, mentre ci distanziamo dalla lettura dell’Unico. Diverse sono le motivazioni che spingono i due personaggi verso il nichilismo (Ivan uccide Dio come una ribellione contro la sofferenza universale, l’Unico, come il tentativo di disalienazione), così come le conseguenze della morte di Dio: Ivan e l’Unico, secondo l’opinione di colui che scrive, non possono essere ricondotti su un terreno comune (che per Camus è diventare dei).
Infatti, se per Ivan tutto è permesso perché Dio è morto, per Stirner Dio si è solo nascosto: il perenne problema dell’individuo stirneriano non è tanto da affermarsi dopo la morte di Dio, dopo che la moralità è scomparsa, così da assicurare che la morte di Dio sia definitiva: che Dio è veramente morto e che i dettami morali di cui era prima fonte non sono stati sostituiti da altri: che “nessuno si siede”, che non ci sono asini per sostituirlo, nemmeno l’Uomo-asino.
I nostri atei sono persone pie: la polemica con Feuerbach o la critica dell’umanesimo teologico.
Secondo Stirner, l’ateismo sarebbe insufficiente e inadeguato, persino miserabile, se solo negasse Dio, cioè uccidendo un oggetto preciso, puntuale, definibile, e non si prefiggesse di strappare quell’insieme di attributi che conferiscono a Dio le caratteristiche reputate alla divinità. La ribellione contro Dio si rivelerebbe quindi un atto dimezzato, bloccato in un nichilismo reattivo, timoroso di annientare davvero ogni moralità.
L’Unico stirneriano, in un modo diverso rispetto a Ivan, affronta questa perdita come un fatto definitivo e soddisfacente (sottolinea Camus) e non come un trauma o, peggio, un compromesso, cioè l’uomo Stirneriano, quando uccide Dio (una volta di più lo indichiamo, come il detentore di ogni valore morale), uccide molto più di una morale, perché ciò che uccide è l’idea stessa di “oltre”, di trascendenza. Pertanto, va sottolineato che il nichilismo di Stirner non conclude mai nella giustificazione criminale tipica del detto “Se Dio non esiste, tutto è permesso”, ma in un modo più sottile “Se Dio non esiste, qualcun altro vuole prendere il suo posto”.
L’assassinato, la possibilità logica (o meglio, conseguenza) che Camus attribuisce all’uomo nichilista, disegna in concreto un paesaggio in cui l’uomo è solo nominalmente libero, cioè nel caso in cui il nichilismo è incompleto, poiché la morte di Dio non comporta la fine di una dimensione divina. D’altra parte, Stirner contempla la morte di Dio come un atto di liberazione individuale, e un atto che non è mai letargico, consapevole che, secondo un popolare detto italiano, “Morto un papa se ne fa un altro”, perché i sostituti di Dio sono potenzialmente infiniti e persino più pericolosi del culto di un dio-asino che è quello del Dio-Uomo.
È proprio per questo che Stirner non considera la morte di Dio come l’ultimo stadio della liberazione individuale (e collettiva), ma come una di molte altre: la morte dell’oggetto Dio non implica necessariamente la morte del divino, o quel luogo vuoto che non appartiene necessariamente e esclusivamente a Dio, essendo questa solo una parziale incarnazione, circoscritta e limitata nel tempo del divino.
È proprio per questo che Stirner non considera la morte di Dio come l’ultimo stadio della liberazione individuale (e collettiva), ma come una di molte altre: la morte dell’oggetto Dio non implica necessariamente la morte del divino, o quel luogo vuoto che non appartiene necessariamente e esclusivamente a Dio, essendo questa solo una parziale incarnazione, circoscritta e limitata nel tempo del divino.
Heidegger, commentando Nietzsche in “Sentieri interrotti” nota che:
“Se Dio ha lasciato il suo posto nel mondo sovrasensibile, questo luogo, rimane sebbene sia vuoto. La regione vacante del mondo sovrasensibile e il mondo ideale possono essere mantenuti. Il luogo vuoto, in un certo modo, chiede addirittura di essere occupato di nuovo, e ha sostituito il Dio scomparso per qualcos’altro. “
Il divino è quindi un attributo che è fatto per guidare qualsiasi soggetto, in un insieme di qualità che danno significato all’entità Dio o, in altre parole, ciò che dà vita all’ontologia che, quindi, non risiede in un Soggetto, ma in caratteristiche che possono fuggire da esso e aderire ad un altro Soggetto. L’ateo rischia di essere ancora più fanatico di un credente se non coglie, insieme a Dio, la divinità come una reversibilità residua dell’entità. Se nella storia nietzscheana l’asino assume le qualità che un tempo adornavano Dio, quando nel 1844 uscì la prima edizione de L’Unico e la sua Proprietà, Stirner ha potuto già vedere chiaramente il nuovo Dio-asino dei sedicenti atei: l’Uomo. In questo senso, la polemica contro Feuerbach dimostra una impressionante attualità e illumina con nuova luce l’idea della ribellione.
Antitetica rispetto a Feuerbach è l’idea di alienazione in Stirner (pietra angolare di tutta la lite tra i due filosofi), secondo la quale la disalienazione , significa accumulare il nulla, basare la giusta causa “nel nulla” (espressione stirneriana), indipendentemente dalle forme classiche della disalienazione (come la feuerbachiana) con cui liberarsi significa recuperare la propria essenza umana, dove rimane l’idea di un Dio che ci avrebbe espropriati; per Stirner, disealinearsi è piuttosto liberarsi delle essenze. La disalienazione come una negazione delle essenze allora e non come la guarigione: disealienarsi è tendere verso il nulla, verso il vuoto della propria identità, facendo sì che qualsiasi essenza crolli, ogni verità stabile considerata tale, cioè demolendo il carattere sacro dell’oggetto. Quale oggetto? Qualunque.
Qualsiasi “idea fissa” o “fantasma” che configura una dimensione trascendente all’uomo, considerata al di fuori di un sé oggettivo, come una realtà staccata dall’unica realtà autentica che è l’individuo stesso. Un oggetto considerato ontologicamente autosufficiente avrebbe infatti una trascendenza sul soggetto, che sarebbe sottomesso e dipendente e, quindi, non libero. Questo approccio diventa evidente, come abbiamo delineato prima, quando l’autore si occupa dell’idea dell’uomo: “sebbene l’individuo non sia l’uomo, egli, d’altra parte, è presente nell’individuo e ha, come tutti gli spettri e tutto il divino, in esso la propria esistenza ».
Al che non è l’Uomo che si manifesta nell’individuo, ma l’individuo che dà il fondamento all’uomo, quindi il soggetto stirneriano è irriducibile a un principio universale, e nemmeno a quello dell’Uomo. La polemica con Feuerbach non è altro che l’altro lato del nichilismo di Stirner: qualificare il presunto ateismo di Feuerbach come una forma di teismo ancora più pericoloso della metafisica; l’autore sostiene che questa nuova religione si limita a sostituire un Dio trascendente in un dio immanente, l’Uomo, e come tale è ancora più difficile da sradicare.
Se il soggetto viene rifiutato, in questo caso Dio, Feuerbach lascia intatto il predicato, cioè la dimensione divina ed è per questo che la “liberazione” della teologia proclamata da Feuerbach è, a sua volta, una liberazione teologica. È chiaro quindi che, secondo Stirner, la liberazione di Feuerbach non solo non modifica il rapporto di dipendenza del soggetto rispetto all’oggetto, ma continua ad alienare il soggetto creativo dall’oggetto creato, che continua a rimanere in un “oltre” per essere conseguito, e l’unico cambiamento che Feuerbach pone, è quello di trasmetterlo all’interno del soggetto, che ora non sarà più chiamato Dio, ma Uomo, mentre l’oggetto, l’idea del sacro (lo spazio vuoto di cui parlava Heidegger) continua tranquillamente ad esercitare la propria dittatura.
La religione umana inaugurata da Feuerbach con la rivoluzione antropologica è per Stirner un aspetto ancora più pericoloso della vecchia religione divina, in quanto ora non ci inginocchiamo più davanti a Dio, ma davanti all’Uomo e alle sue leggi razionali:
Feuerbach […] pensa che se umanizza il divino, ha trovato la verità. No, se Dio ci ha tormentato, l ‘”Uomo” è in grado di opprimerci in un modo ancora più crudele. Affermando schematicamente che siamo uomini, nominiamo il più insignificante in noi stessi e conta solo in quanto è uno dei nostri attributi, cioè, la nostra proprietà.
Il sacro, secondo Stirner, non è quindi un oggetto (sacro), ma la natura della relazione di dipendenza tra soggetto e oggetto che il mutamento antropologico di Feuerbach lascia invariato: il soggetto (I) rimane soggetto all’oggetto (Uomo) ciò conferisce una certezza ontologica, cioè, riempie il vuoto e l’assurdità in cui il soggetto sarebbe senza l’universale (davanti a Dio, ora, l’uomo) per sostenerlo. Al contrario, la dimensione dell’autenticità corrisponde a quella della proprietà, per cui “la verità è ciò che è mio, falso ciò a cui appartengo”.
Qui emerge la conseguenza che si stabilisce tra la morte di Dio e quella dell’Uomo, essendo i due prodotti della dimensione non autentica del sé, cioè dello spirito: l’Uomo non deve diventare il sostituto di Dio e conquistare il suo regno, “Prendi posto”, nella misura in cui questo cambiamento lascerebbe intatto il predicato, cioè la sfera divina e sacra:
Che cosa otteniamo quando, per un cambiamento, spostiamo il divino al di fuori di noi stessi al nostro interno? Siamo ciò che è in noi? No, proprio come noi non siamo ciò che è fuori di noi […] proprio perché non siamo lo spirito che vive in noi, proprio per questo abbiamo dovuto spostarlo fuori da noi stessi: non era “noi”, non coincideva con noi ed è per questo che non potevamo pensarlo come esistente se non era fuori di noi, al di là di noi, nell’aldilà […] Io non sono né Dio, né Uomo, né l’essere supremo, né la Mia essenza, e quindi non importa se principalmente penso all’essenza in me o fuori di me.
È proprio questa banalizzazione dell’oggetto che fonda la ribellione: il requisito esistenziale dell’autenticità implica la soppressione del carattere sacro dell’oggetto da parte del soggetto: l’Unico stirneriano, essendo se stesso, cioè soggetto non alienato da essenze trascendenti in esso, si estende da un principio dinamico “interiore” a esso, questo significa la ribellione perpetua intesa come superamento dell’oggetto, quindi restituisce la misura dell’autenticità del soggetto per essere la parte più propria e intima.
Lo scopo dell’uomo ribelle è, secondo Stirner, rompere non solo l’idea stessa di Dio, ma ogni dimensione trascendente che è configurata come una realtà ontologicamente indipendente del soggetto: non è raro, quindi, che anche lo stesso soggetto possa diventare la stessa idea fissa, il nucleo duro dell’ontologia, il «fantasma». Questo è inteso, antitetico alla proposta camusiana, dove il nichilismo dell’Unico, non lo porta a voler diventare Dio stesso: la sua perenne ribellione, concentrata nel rovesciamento di qualsiasi oggetto, di qualsiasi “fantasma”, di Dio e dei suoi sostituti. impedisce ad esso (il soggetto scoraggiato) di riconoscere qualsiasi autonomia ontologica nella sfera del sacro. L’Unico non è per niente soddisfatto nel vuoto lasciato da questi morti.
Camus vide chiaramente le implicazioni di cosa comportava la rottura tra soggetto e oggetto nella filosofia di Stirner, cioè la mancanza di qualsiasi ordine stabile o valore morale, ma si sbagliava riguardo alle conseguenze che questo implicava: non il crimine, il “massacro” del mondo (metaforicamente e pragmaticamente) per mano dell’Unico, ma il continuo “massacro” dei succedanei. L’errore di Camus, come abbiamo sottolineato, nasce proprio dall’ignoranza della dimensione di questa “realtà interiore” che l’individuo crede indipendente dalla sua volontà e quindi dotata di autosufficienza.
Ma se la ribellione di Stirner consiste nel superare questa dimensione sacra, subordinando il “Dio interiore” piuttosto che uccidere il “Dio esteriore”, questo atto implica, naturalmente, una diversa concezione della morale dell’individuo che uccide Dio, configurandolo come novità assoluta.
domenica 7 aprile 2019
NIETZSCHE E LA CRITICA ALLO SCIENTISMO NELL’ATTUALITÀ
Traduzione a cura di Mortui Mundi
REVISTA REGRESIÓN No 4
La Natura
L’universo, la natura, è esistita per milioni di secoli, i cambiamenti che si sono verificati nell’ignoto possono essere misurati in proporzioni mostruosamente gigantesche o in maniera particolarmente piccola. In questo processo di cambiamento o trasformazione non è affatto incluso l’essere umano razionale, che con la sua arrogante intelligenza crede di essere il centro dell’Universo, è questo è il grande errore, così orribile e penoso!
Nietzsche, nel suo testo “Sulla verità e la menzogna in senso extra morale”, espone punti interessanti riguardo alle costruzioni concettuali generate dall’impulso della verità antropomorfica, ma non solo, l’autore fa vedere l’intelletto umano come inutile ed effimero prima della Natura.
Nietzsche fa vedere la Natura come una realtà totale, la vera Verità, l’incognito non conosciuto dall’essere umano, e getta nella spazzatura tutto l’idealismo e la menzogna creati dall’uomo e dai suoi concetti razionali.
“La Natura non conosce forme o concetti, né (…) di specie, ma solo una X inaccessibile e indefinibile per l’uomo”
È così che l’autore del testo descrive e promuove la struttura che rappresenta il mito della Scienza.
La Natura stessa, è sempre in costante cambiamento, è in costante movimento, tuttavia, l’uomo razionale, quello moderno, crea una strutturazione concettuale dalla sua stessa coscienza antropomorfica e vuole avere una spiegazione articolata in modo complesso.
In questa era moderna, infine stiamo assistendo, come sopra scritto, un aspetto che ora vado a prendere come esempio: il progetto del Grande Collisore di Adroni, uno degli esperimenti più grandi e più ambiziosi che si possano ricordare, che (menzionando solo uno dei suoi progetti scientifici), per mezzo di macchine trasformano gli atomi in energia sotto delle reazioni imposte. I ricercatori cercano di simulare un piccolo “Big Bang”, per spiegare come da questa grande esplosione vari parti abbiano lasciato il posto alla galassia, alla terra e ad altri oggetti e alle manifestazioni che esistono nell’universo.
E, prima di tutto, affermo chiarire, che per questa asserzione non mi affido alla teoria del Big Bang riversata dai centri di ricerca in cui sciamano gli scienziati, no, chiunque conosca la visione del mondo dei vari gruppi umani antichi (che siano del tipo cacciatore-raccoglitore o delle civilizzazioni “primitive”), può vedere che nella stragrande maggioranza di questi, si parla di creazione per mezzo di una cosa che assomiglia a una grande esplosione, a un’enorme scia di luce accecante, ecc.
Ritornando al tema.
In questo caso, gli scienziati pensano erroneamente che come esseri umani siamo il centro dell’Universo, hanno sentito il bisogno di provare nel creare una dimostrazione, che solo la Natura è stata in grado di realizzare, secondo le proprie linee guida, con il suo modo unico e sconosciuto di muoversi.
Detto questo potremmo affermare che, come diceva anche Nietzsche, la causa della ricerca di risposte per gli schiavi dello scientismo è di soddisfare la loro salute mentale, perché le presunte risposte che incontreranno, non sono che semplici invenzioni della conoscenza limitata che l’umano possiede.
Per rispondere ambiguamente alle domande che vengono a pesare sulle nostre teste, l’umano razionale usa il proprio intelletto.
Secondo l’autore del testo, l’intelletto “non è altro che una risorsa degli esseri più infelici, più delicati, più effimeri”.
Questa facoltà umana è preceduta dall’arte di fingere; finzione che è come uno scudo degli uomini deboli, dei meno preparati a sopravvivere, è coperta dal “inganno, dall’adulazione, dalle menzogne e dal raggiro, come l’ipocrisia, la simulazione , vivendo come in un effetto alieno, nel mascherarsi, nel convenzionalismo fallace, portando avanti la commedia avanti, per sé e per gli altri, in una sola parola: nel costante volteggiare della cosiddetta “Vanità”.
Questa distinta vanità di cui gli scienziati del suddetto progetto, e altri, dimostrano, è che è molto evidente il credere di essere la Natura stessa e nel cercare di realizzare una delle manifestazioni più importanti da cui hanno origine le cose come le conosciamo.
Concetti antropomorfici
L’essere umano moderno è obbligato a vivere nella società, ad essere spalla a spalla, avendo a che fare con le persone della stessa specie, è così che per mezzo del linguaggio sono dettate le leggi della validità delle cose, così che l’uomo possa vivere in pace all’interno della società senza entrare in conflitto costante con gli altri, deve adattarsi a quel bisogno di coesistenza con certi concetti, come “verità” e “menzogna”. Ha inventato queste parole così preziose per l’umano razionale e le ha dotate di certezza convalidante, dando luogo a valide designazioni, una delle tante fantasmagorie antropomorfiche.
L’uomo ha sempre desiderato conoscere la verità, dagli antichi pensatori, allo studioso più incallito di qualsiasi materia, religione o disciplina; questo è occultato dalla Natura, che la nasconde e di fronte a questo nascondiglio, viene ulteriormente oscurato dai concetti del intelletto dell’uomo.
Si può intravedere l’attacco arbitrario dell’uomo razionale contro il Vero, nella sua falsa capacità di catalogare la verità con la menzogna. Oggi, come ai tempi di Nietzsche, ciò che è vero risulta essere falso e viceversa. È chiaro che le opinioni espresse su questo argomento possono assumere connotazioni molto diverse da un individuo all’altro, ma seguendo il contesto di questo saggio, ciò che realmente è il Vero è ciò che la Natura mantiene, ciò che l’Universo nasconde di “grezzo” ma allo stesso tempo nel limitato intellettualismo umano. Per esempio, dire che il cielo è blu è una metafora, perché non è una verità, la metafora del cielo azzurro l’abbiamo creato noi, con le nostre capacità cognitive elementari: individuali e collettive. Ma una cosa è catalogare qualcosa di vero che è piuttosto una metafora, e un altro è sapere veramente perché il cielo è di quel colore. Abbiamo dato anche il genere alle cose, il cielo blu, il genere maschile, perché il cielo è maschile? Non è una verità, è una metafora, possiamo davvero catalogare l’essenza delle cose mettendo nomi, colori, generi e così via? No, ciò che creiamo sono più che fantasmi, qualcosa che non esiste nel piano della Natura, concetti supportati dal linguaggio che si perpetua sotto regole di delimitazioni costruite dalla conoscenza umana.
“Pensiamo di conoscere qualcosa delle stesse cose quando parliamo di alberi, colori, neve e fiori: tuttavia, abbiamo solo metafore di cose che non corrispondono affatto alle entità reali. Allo stesso modo in cui il rumore viene presentato come una configurazione della sabbia, la misteriosa X delle cose viene presentata come uno stimolo nervoso, quindi come un’immagine e infine come suono. La verità è, allora, che la genesi del linguaggio non presiede alla logica e che tutto il materiale con cui l’uomo lavora e costruisce in seguito, è dedicato alla verità; il ricercatore, il filosofo, viene, se non viene dal regno dell’Utopia, in tutto i casi non arriva dall’essenza delle cose. “
L’uomo razionale
La società è piena di umani razionali (poiché non include solo scienziati). Sono coloro che vogliono che tutto sia pianificato, si nascondono dietro il falso manto della sicurezza, pensano che se avanzeranno nel loro pensiero totale, avranno il risultato desiderato di quello che hanno pianificato. È così che l’umano razionale si è sviluppato fin dall’infanzia, sotto i falsi concetti usati nella società e nel nucleo familiare. Poiché possiamo solo aspirare ad ammirare la superficie delle cose, il significato non conduce alla Verità, non conduce a nulla, perché la “verità” come la conosciamo è solo un’espressione adeguata dalle norme stabilite dall’umano.
È qui che la Scienza si predispone alle banali domande senza risposta e fa sì che la sua luce accechi completamente l’umano razionale, unendolo in una falsa sicurezza sotto false concettualizzazioni in una realtà falsa, creata e superficiale.
Il razionale è convinto che la sua conoscenza vada oltre, che il suo intelletto lo abbia portato a posizionarsi come il centro dell’Universo, per quanto prudente come quanto infelice!
Il razionale teme l’ignoto, scrive Nietzsche, poiché previene sempre tutto, indicando che se qualcosa va al di là del suo controllo e della sua cura, dovrà essere scagliato nell’abisso che la Natura ha preparato per esso. Per il razionale, il cambiamento è un cammino spaventoso con lacune sconosciute che lo portano in un luogo al di fuori della sua visione prevedibile. E poiché questo essere effimero cerca sempre di razionalizzare tutto, non ama la vita come è, ha sempre delle linee guida e dei limiti imposti per se stesso, in una parola, è infelice.
L’era moderna
Nietzsche chiede, Che sa l’uomo, in definitiva, di se stesso? Il campo scientifico ha un grande panorama che copre molti argomenti, dalle scienze alla medicina, alla fisica, alla chimica, alla biologia, all’ingegneria genetica, alle nanotecnologie, alla neurologia, alla geo-ingegneria, ecc. Tutte e ciascuno di queste materie ha una genealogia che fino ad ora ha voluto rispondere a molte delle domande mai risposte prima. In ognuno di esse vengono trattati i tecnicismi, che sono quei falsi concetti di cui ho parlato, dati dall’uomo, che cercano di dare un nome a qualcosa di sconosciuto all’essere umano.
Nel corso del XXI secolo, la Scienza ha avuto una svolta significativa nei suoi vari rami, tali progressi frenetici hanno lasciato sbalordita la società dei razionali.
Oggi, è diventato generalizzante credere tutto della Scienza, di ciò che chiacchiera, e stupirci delle innovazioni quotidiane e dei loro studi dettati dal vile intelletto umano, siamo caduti in una realtà ancora più falsa e atroce di cui Nietzsche ha scritto nel 1873 (anno in cui fu pubblicato il testo di riferimento).
Ecco perché la sua critica allo scientismo ha una validità enorme e solida in questa epoca moderna.
Che cosa sa allora l’uomo di se stesso? Attraverso la Scienza si può conoscere solo ciò che si vuol sentire, vaga concettualizzazione illusoria di ciò che siamo realmente, niente di più, perché su un piano più reale, non sappiamo nulla, solo ciò che inventiamo e percepiamo come il “reale”.
La Natura è sempre stata e sarà lontana dalle leggi governate dalla matematica e dalla fisica, perché queste due cose sono solo invenzioni umane entro i parametri della realtà artificiale.
La medicina, ad esempio, sa, per quanto possibile, che i vasi sanguigni, devono essere dilatati in modo che il sangue raggiunga il cuore e il cuore possa pomparlo in modo che le funzioni corporee abbiano un vantaggio generale, ma che cos’è questo? Forse è qualcosa di reale? È reale nella conoscenza della Scienza, perché per la Natura non significa niente.
L’astrofisica ha battezzato come “materia oscura” quella materia invisibile che non emette abbastanza radiazioni nell’universo, gli astrofisici hanno basato ipotesi e costruito teorie sulle possibili cause della loro origine, che è solo un esempio dei concetti che l’umano razionale ha inventato per cercare di trovare la risposta a questo enigma, i suoi occhi sono accecati dall’egocentrismo e la Natura giustamente occulta la verità.
L’ingegneria genetica è andata oltre, ha proposto la crio-conservazione come metodo per rianimare una persona dopo la morte congelandola con elio liquido, ridandogli nuovamente vita. Questa è la paura che invade l’umano razionale di cui Nietzsche ha parlato, poiché non può controllare la sua morte, si avventura sperando che la Scienza possa rianimarlo dopo un periodo di tempo, è così che vuole essere prevedibile con la sua vita e persino con la sua morte.
Le statistiche sono una delle scienze che vengono utilizzate come strumento per l’umano razionale, cercando di allontanare la propria vita il più lontano possibile dal pericolo, dalle situazioni dannose e controproducenti, basate su vari studi, che generano diverse raccomandazioni guidate, a causa del falso senso di sicurezza. Tutto questo è riprodotto dai mass media che li trasmettono al ricevente, l’umano razionale, colui che vuole evitare a tutti i costi l’ignoto, colui che rifiuta i cambiamenti, che pensa di proteggersi con la sua prudenza di ciò che gli sfugge dalle proprie mani.
Gli esperti in sismologia, quotidianamente innovano macchine, che prevengono scosse e terremoti in aree specifiche, con un tempo infinito, lavorano su progetti sufficientemente precisi per evitare possibili tragedie umane. La Scienza ha lasciato il posto a nuove tecnologie che mirano a una possibile costruzione di una macchina come quella a cui anelano i sismologi, ma ciò che gli sfugge dalle mani, è che la Natura non è prevedibile: quando si manifesta essi non sentiranno neanche un leggero movimento, gli aghi delle macchine non misureranno nulla, perché la forza della Natura finisce sempre per cadere su cosiffatte previsioni umane.
Con questi esempi attuali, intendo porre una domanda a coloro che negano stupidamente l’evidenza, per cui, la critica di Nietzsche allo scientismo è valida oggi?
L’uomo intuitivo
Mentre l’umano razionale è seduto sul cardine della sua conoscenza, razionalizzando e temendo il cambiamento che lo porta in luoghi sconosciuti, e fuori dalla sua lungimiranza. L’uomo intuitivo attraversa le montagne con ciò che è necessario per vivere, ha capito che la Natura e l’Universo sono in continua evoluzione, sono irregolari e imprevedibili. Ha capito che se razionalizza ogni aspetto del suo muoversi, diventa schiavo della monotonia di routine dell’uomo razionale. Lascia dietro questi legami e accetta ciò che è il presente. La felicità lo accompagna, ma il dolore lo travolge più dell’uomo razionale, perché essendo irrazionale, non sa come apprendere dalle lezioni, né le prende come esperienza.
Anche così, l’uomo intuitivo è posizionato sopra il razionale, e anche di molto:
“L’uomo intuitivo, che si sviluppa nel mezzo di una cultura, deriva dalle sue stesse istituzioni, a parte la difesa con la propria colpa, un flusso costante di chiarezza, cielo sereno e redenzione”.
“Non presenta un volto umano mutevole, e rabbrividisce, ma, in un certo senso, è una maschera degna immutabile; non grida, nemmeno la sua voce è alterata; quando una cupa nube tempestosa cade su di esso, si avvolge nel suo mantello e si allontana con un passo lento “.
È l’uomo intuitivo su cui Nietzsche si basa, per l’elaborazione del suo termine di Oltreuomo, colui che non teme ciò che la Natura gli consegnerà nell’ignoto, che accetta i cambiamenti della vita e si affida alla felicità in senso extra-morale.
“Durante tutta la sua vita, l’uomo di notte è ingannato nei sogni, senza che mai il sentimento morale sia riuscito a impedirlo, quando, dicono, ci sono persone che per forza di volontà sono riuscite a smettere di russare”
Chikomoztoc, Autunno 2015
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