mercoledì 11 luglio 2012

NEMO ME IMPUNE LACESSIT

NEMO ME IMPUNE LACESSIT

La prova dell’esistenza dell’io non ci è data dal pensiero. Il cogito, ergo sum cartesiano non dimostra proprio nulla. Infatti il giudizio «io penso, dunque seno» non è che un pensiero come tutti gli altri pensieri: esso non è identico all’oggetto al quale si riferisce. Inutile dire che il pensiero è una qualità che presuppone la sostanza: ma una cosa è la qualità, una cosa la sostanza. Per la logica la sostanza non può essere meno della qualità, ma è sempre più di questa, ha sempre qualche altra cosa oltre questa qualità. Quindi se la qualità è il pensiero che è un’attività e, come tale, è, la sostanza potrebb’essere ciò che non è, o potrebbe possedere, accanto a quello che è, anche quello che non è. Perciò si rimane incerti se dire: io penso, dunque sono; o pure, io penso, dunque non sono; o pure, io penso, dunque sono e non sono.
Vanamente si obbietta: non è possibile supporre la sostanza identificata col non-essere. Perché il non-essere è ciò che non è, è il nulla. E il nulla produce nulla, non può produrre una qualità che è, che è attiva, che è il pensiero.
Ma qui si risponde: il non-essere è ciò che non è. Ma ciò che non è, è già per se stesso, qualche cosa: è il non-essere. Ora noi possiamo affacciare l’ipotesi che esso non sia il nulla assoluto, ma bensì il non-essere dell’essere, ossia una realtà che esiste in modo opposto alla realtà dell’essere, e riceve da quest’ultimo, unendosi ad esso od incontrandosi con esso, la qualità del pensiero.
L’esistenza dell’io, però, se non è provata dal pensiero, è provata dall’apparenza. Io esisto perché appaio a me stesso, sia pure in modo diverso dalla mia reale esistenza. Se io non esistessi non potrei apparirmi. La mancanza del rappresentante determinerebbe la mancanza della rappresentazione; non vi sarebbe che l’assoluto nulla. Quindi se la rappresentazione si presenta, significa che il rappresentante esiste o come essere, o come non-essere, o come unione di essere e di non-essere.
Dunque io esisto se mi rappresento me stesso ed un mondo che a me appare esteriore, ma che tanto può esistere oggettivamente, al di fuori di me, quanto può essere proiettato, al di fuori, da me che pur rimango in me medesimo.
L’io, quindi, esiste. Ma esiste come appare a me?
No, perché mi appare nel modo che comporta la conformazione dei miei sensi e del mio intelletto, ossia in un modo che non rispecchia la realtà in sé. La mia apparenza non è che un segno, non una copia della realtà. La coscienza del mio io è formata dalla mia apparenza. Essa mi rende consapevole di un io che non è il mio vero io. Pure questo vero io si rivela, raramente e incompletamente, a sprazzi, prorompendo dai sotterranei e tenebrosi abissi del subcosciente e dandomi l’impressione, vaga e confusa, che non sono quello che a me sembra, ma bensì qualche cosa di misterioso e diverso.
L’io vero, l’io reale, non si trova che nell’inconscio. Ed è lì che è necessario cercarlo e comprenderlo, per quanto è possibile. Cioè in minima, infinitesima parte.
Il surrealismo vuole sprofondarsi nei meandri più oscuri della psiche e, ritornando alla superficie, crede di avere intravvisto un io alogico in cui è cancellato il principio di non contraddizione ed essere e non-essere si uniscono, si confondono, si amalgamano.
«La surrealtà — scrive Bretón — è un certo punto dello spirito in cui la vita e la morte, il reale e il fantastico, il passato e il futuro, il comunicabile e l’incomunicabile, l’alto e il basso cessano di essere percepiti contraddittoriamente ».
Gli uomini non sono mai riusciti a fare a meno del principio di non-contraddizione grazie al quale sanno che il pane non è la carne e la carne non è il pane, che se si è grandi non si è piccoli e se si è piccoli non si è grandi, che non si cammina sull’acqua e che andare avanti o indietro non è la stessa cosa. Ma i surrealisti sperano di riuscire e si tuffano come palombari nel baratro del subcosciente nel cui fondo la logica non opera. Essi cercano impadronirsi del segreto dell’io vero che non riusciranno mai a carpire, anche se qualche vago barlume potrà tenuamente, approssimarli alla realtà.
Prima ancora del surrealismo altre filosofie irra-zionaliste, l’esistenzialismo, il freudismo, ecc., hanno tentato — se pur con scarsi risultati che, probabilmente, rimarranno sempre tali — di superare la conoscenza fenomenica per giungere fino al cuore del noumeno, alla scoperta dell’io in se.
Ma il precursore di tutti è stato Fëdor Dostoevskij, il gigante russo, l’eroe che è disceso nelle abissali profondità dello spirito umano e, nelle tenebre cupe che avvolgono i tortuosi meandri, ha intravvisto appena — o ha intuito credendo intravvedere — un àpeiron psicologico, un impasto di contraddizioni, un miscuglio, strano ed indefinibile, di bene e di male tanto stretti insieme fino a confondersi e a compenetrarsi.
E questo miscuglio è, per lui, l’io vero, quello che è nel fondo di ciascuno di noi, a nostra insaputa, e si cela sotto la fragile costruzione dell’io che conosciamo e che è un prodotto non solo della nostra conformazione sensoriale e intellettuale (che può falsare la realtà noumenica soltanto in parte), ma anche e soprattutto dell’educazione ricevuta, delle abitudini acquisite, delle influenze dell’ambiente e delle convenzioni sociali (che finiscono con l’ingannarci del tutto).
Per esempio se, come sostiene kant, spazio e tempo non esistono in sé ma sono forme, a priori, della nostra sensibilità che noi, percependoli, applichiamo agli oggetti che l’esperienza ci offre: se quantità, qualità, relazione e modo non sono che forme, a priori, dell’intelletto che condizionano, oggetti percepiti; allora noi non conosciamo noi stessi quali siamo realmente, ma ci conosciamo fittiziamente come esistenti nello spazio, succedenti nel tempo e aventi qualità, quantità, relazione e modo.
Però in quest’io fenomenico si rivelano, accanto a quelle transitorie dettate dall’apparenza, anche certe tendenze profonde, costanti, irriducibili, che ci accompagnano fino alla morte e che non possono che provenire dall’io noumenico, dalla realtà in sé. L’egoismo è una di queste tendenze.
L’edonismo n’è un’altra. Noi siamo portati a godere e a preferirci ad ogni altro essere e ad ogni altra cosa, anche al di fuori delle condizioni di tempo, spazio, materia, ecc. Quindi queste sono tendenze essenziali, eterne dell’io, se l’io è immortale; o pure tendenze che si spengono solo con la distruzione dell’io, se questo è perituro.
L’educazione sociale, le abitudini gregarie imposte dall’ambiente, la suggestione della condanna religiosa o morale, il timore della galera o della miseria, e tante altre forze di ugual genere, ci costringono a soffocare, in tutto o in parte, tali tendenze fondamentali. Ed allora si forma un io fittizio che si stende, come una crosta, sulla superficie della nostra anima. Ed è l’io di cui siamo coscienti. Ma sotto rugge, ignorato, l’io vero. Quando — e qui ritorno a Dostoevskij — una violenta passione ci sconvolge o una malattia inesorabile ci conduce lentamente alla tomba; quando la vita non tollera più nessun freno e nessuna menzogna perché deve difendere se stessa; nei momenti in cui si è, faccia a faccia, col pericolo incombente e la morte che vuol ghermirci; allora l’io vero prorompe, spezza la crosta, e si mostra, sia pure per un istante. Noi non possiamo vederlo bene; non possiamo scorgerne le forme, i lineamenti, i particolari; ma nella visione, fulminea e indefinita, cogliamo qualche cosa che ci permette sollevare sia pure un solo lembo del velo del mistero.
Ecco perché Dostoevskij ha studiato gli anormali, i tormentati, i passionali, gli ammalati e li ha descritti nei suoi libri. Perché in essi la realtà più facilmente erompe.
Io sono relativista. So che posso conoscere soltanto l’apparenza. So che la conoscenza fenomenica è l’unica possibile per l’uomo. Ma ammetto che, oltre tale conoscenza, l’uomo — o almeno certi uomini privilegiati dalla natura — possono avere delle intuizioni che ad essi permettono cogliere, sia pure in minima parte, l’io vero, l’io che è assoluto o che, pur non essendo assoluto, costituisce però la nostra intima essenza, e che, ignorato e sepolto negli abissi della psiche, balza fuori solo quando la tragedia ci sprona.
Dostoevskij è stato uno dei pochi privilegiati ed è sceso più in fondo degli altri nel pozzo del mistero. Seguendo la sua massima «sempre e ovunque io vado fino all’ultimo confine», egli si è lanciato nei baratri insondabili per esplorare l’inconscio, il pauroso, l’inconcepibile. E risalendo dai sotterranei, ritornando alla luce solare, ha dichiarato: «L’uomo non cerca che la libertà a qualunque costo ».
Sì, l’uomo vuol essere libero. Quello strano miscuglio di contraddizioni, quel tenebroso ed indefinibile impasto di passioni, di sentimenti e di tendenze opposte ch’è l’io, avverte l’imperioso bisogno di soddisfare i suoi diversi impulsi man mano che dal suo seno si sprigionano. Esso cerca fare tutto ciò che gli pare e piace, ora in un modo, ora in un altro. Non si preoccupa delle conseguenze, non si lascia dirigere dalla ragione, o dall’interesse, o dal calcolo, ossia da un solo principio che regola le sue azioni, le ordina coerentemente e le sospinge verso un fine che assicura il bene concreto, duraturo dell’ego. Invece esso segue la spontaneità, vive nell’attimo fuggente, appaga la passione che, in questo istante, predomina e, subito dopo, appaga la passione contraria divenuta, a sua volta, vincitrice nella lotta fra le opposte inclinazioni. Trova il suo vero profitto nel soddisfare la sua volontà, i suoi istinti, i suoi capricci più folli. E quindi fa il bene e il male, indifferentemente. Ma quando l’uomo fa il male ottiene, come conseguenza il dolore.
Qui l’anarchismo di Dostoevskij sfocia nel cristianesimo. Dio, mio creatore, mi lascia libero di scegliere fra il bene e il male; ma quando scelgo quest’ultimo mi punisce; la sofferenza lancina l’anima mia. Ed allora sono indotto a pentirmi, a ritornare al bene, a cercare la pace e il conforto nel grembo di Cristo. Cosi in «Delitto e castigo» lo studente Raskolnikoff, dopo avere ideato ed attuato l’assassinio, a scopo di furto, di una vecchia usuraia, è torturato dai rimorsi finché, vinto, va a denunziarsi.
Così ne «I fratelli Karamazov» Ivan, l’intellettuale raffinato e cinico che ha preparato moralmente il delitto, è poi spinto, dallo strazio della propria anima, a confessare la sua colpa al tribunale che sta giudicando il fratello. Dunque il crimine porta con sé, fatalmente, la pena.
A questo punto mi permetto obbiettare al pensiero del gigante Dostoevskij: è possibile che il mio vero io sia assoluto per me, ma relativo rispetto ad un altro assoluto, ancor più assoluto, che potrebbe trovarsi dietro di esso. In questo caso avremmo: l’io fenomenico; l’io individuale, assoluto come tale; l’io sovra individuale assoluto, ossia Dio.
Ora, il mio io che cosa è: un’emanazione di Dio nel quale tutti gl’io individuali si unificano? In tale caso Dio non può punirmi qualunque sia la cosa che faccio, perché, punendo me, punirebbe se stesso. Infatti io, come emanazione di Dio, sono una parte di Lui, sono consubstanziale e coeterno con Lui, ho m me i sentimenti, la volontà l’intelligenza di Dio. Quindi quello che ho sentito, voluto e pensato io, l’ha sentito, voluto, pensato Dio. E quello che io ho fatto, l’ha fatto Dio insieme a me.
Invece, il mio io, il mio spirito, è una creazione della divinità? In questa ipotesi Dio mi ha creato con una sostanza spirituale simile alla propria, ma che non è la propria. Mi ha dato la sua perfezione, ma non me l’ha data tutta, altrimenti io sarei stato uguale a Lui e non sarebbe più esistita distinzione fra creatura e creatore. E allora io risulto assoluto come spirito umano, come uomo, come la realtà che Dio ha voluto creare; ma relativo, imperfetto, incompleto rispetto a Dio al quale somiglio solo debolmente.
Ora il male che penso e compio non è che la conseguenza della mia imperfezione: come il bene è il prodotto della perfezione ch’è in me. Quando scelgo il male, l’imperfezione soverchia la perfezione, non sono libero ma determinato perché una passione più forte trionfa, in quell’istante, sulle passioni apposte e la volontà non riesce a frenarla. Se dunque Dio stesso mi ha creato imperfetto, negandomi tutta quanta la sua perfezione e concedendomene solo una parte; se mi ha composto con un’unione di essere e di non-essere ed ha permesso che, in certi momenti, il non-essere, l’imperfezione, potesse trionfare e trascinarmi al male, con quale giustizia, poi, mi punisce quando questo male compio? Con quale diritto infierisce sull’effetto del quale Egli ha preparato la causa?
Delle due, l’una: o Dio mi creava, come sé, assolutamente perfetto, e allora non avrei mai fatto il male, sarei stato anch’io Dio come Lui. O mi creava come mi ha creato e, in tal caso, non doveva punirmi per qualunque cosa da me fatta.
Inutile dire: con la volontà posso frenare i sentimenti cattivi, posso trattenermi; se non mi trattengo è perché non voglio. Ma appunto perché sono imperfetto la mia volontà non può essere sempre la più forte, non può riuscire ad imbrigliare sempre le passioni, anzi, spesso, subisce l’influenza di queste ultime e vuole come le passioni vogliono.
Dunque la scelta è dettata dall’intensità delle forze contrastanti in me e l’impulso più potente mi trascina seco. La mia libertà consiste nel seguire tale impulso e nel godere, appagandolo. Se Dio mi nega questa libertà, se mi castiga quando compio il male, Dio è un tiranno. Ed io non debbo pentirmi, non debbo sottomettermi alla volontà divina e fare solo il bene che a Dio piace. Non debbo seguire questo insegnamento di Dostoevskij, ma ribellarmi al despota, ricavandone, sia pur fra gl’infiniti tormenti ch’ Egli, per vendetta, m’infliggerà, la suprema soddisfazione di non essermi piegato, di aver difeso la mia libertà, di aver conservato la mia indipendenza.
Del resto potrebbe anche darsi che non vi fosse né il Dio trascendente dei cristiani, né il Dio immanente dei panteisti, ma sola la materia retta da leggi meccaniche, come pretendono i materialisti. In questo caso un meccanismo universale incosciente determinerebbe tutte le mie azioni, buone e cattive, e non vi sarebbe castigo né premio. Il noumeno, da noi appena intuito dietro la conoscenza fenomenica e fenomenicamente distinto in mondo interno e mondo esterno, s’identificherebbe con la materia unica e muoventesi. I rimorsi non sarebbero che il prodotto dell’educazione etico - sociale e della suggestione che questa esercita su noi. I tipi più forti che reagiscono a tale suggestione, non avvertono rimorsi per qualunque cosa facciano.
La vita dev’essere vissuta soddisfacendo tutti gli istinti, al di là del bene e del male. E solo così godiamo intensamente. Solo così acquistiamo l’intera gioia.
Dostoevskij, cristiano, crede nella punizione divina. Ma Nietzsche, pagano ed ateo, la nega e canta la canzone della bellezza e della forza.
Il bene e il male, come principa oggettivi ed eterni, non esistono. Noi non li troviamo in alcun luogo. Non li troviamo nella realtà fenomenica. Se questa la osserviamo nel mondo esteriore, vediamo che nella natura apparente tutte le manifestazioni vitali si equivalgono perché sono tutte necessarie alla natura stessa. Se la studiamo nell’anima umana notiamo che ad essa sono indispensabili tutti i sentimenti che possiede e che quello che, in un certo momento, ci fa del male, in un altro momento ci arreca bene. Dunque nella realtà fenomenica — esterna ed interna — manca una gerarchia qualitativa fra le diverse espressioni di vita.
Il bene ed il male non riusciamo ad intenderli nemmeno nell’assoluto che intuiamo dietro il mondo dei fenomeni. Infatti se tale assoluto lo concepiamo come l’infinita ed eterna materia dotata di movimenti meccanici, allora alla materia tutti i movimenti sono ugualmente necessari ed hanno, quindi, lo stesso valore per essa.
Se l’assoluto lo supponiamo come il Dio immanente dei panteisti, a questo Dio, che muove dal di dentro tutte le Cose e gli esseri per sviluppare un’armonia sempre maggiore, tutti i pensieri e le azioni più opposte occorrono e perciò le determina, in quanto tutte contribuiscono al raggiungimento del suo fine. Quindi il demiurgo non può elogiare una parte della sua opera e considerarla superiore, e condannare un’altra parte e reputarla inferiore perché l’opera è ugualmente in ognuna delle sue parti e se ne mancasse una sola, non sarebbe più quell’opera.
Se infine l’assoluto l’immaginiamo come il Dio trascendente dei cristiani, tale Dio non può stimare un male l’imperfezione ch’esso lascia nell’uomo e nel mondo, e un bene la sua perfezione. Infatti, a Dio, l’esistenza dell’imperfezione è tanto necessaria quanto l’esistenza della perfezione. Se l’imperfezione non vi fosse, se tutto esistesse perfetto, il mondo e l’uomo s’identificherebbero con Dio e Dio si confonderebbe con la sua creazione. Quindi perfezione e imperfezione condizionano, nella stessa misura, la realtà del creatore che si distingue dalle cose create, dalle quali vuole rimanere distinto. Ergo: perfezione e imperfezione sono ugualmente necessarie a Dio che deve considerarle alla stessa stregua, anche se punisce l’imperfezione dell’uomo.
Il pensiero umano non riesce a trovare il bene e il male né nel mondo dell’apparenza, né nell’assoluto che cerca rendere intelligibile. In tale assoluto bene e male potrebbero esistere in modo inintelligibile, ma siccome noi non conosceremmo mai questo modo, per noi sarebbe come se non vi fosse. Quindi al pensiero non resta che ridurre a puro soggettivismo i principi ai quali aveva prima conferito un carattere di oggettività.
Pensare che il bene e il male non esistono in se stessi, che non v’è che il mio bene e il mio male; quello che a me piace ed è utile, in questo momento e potrebbe non piacermi e non essermi utile, in seguito; e quell’altro che a me non piace e non è utile nel presente e potrebbe piacermi e riuscire utile in avvenire. La morale varia da uomo ad uomo, ed anche nello stesso individuo. Una morale oggettiva non è che un’assurdità sognata da dogmatici. Oggettivamente Francesco d’Assisi
vale quanto Cesare Borgia.
Dostoevskij non accetta però questa concezione amorale e rimane ancorato alla favola cristiana. Ma, malgrado questo, egli continua a considerare la libertà come l’esigenza fondamentale dell’uomo. Anche se ci trascina al peccato, anche se ci porta ad incorrere nel castigo di Dio, noi vogliamo la libertà, vogliamo fare a modo nostro, passare dal bene al male e viceversa, tendere «verso l’ideale di Sodoma e l’ideale della Madonna che sono entrambi nella nostra anima».
La libertà è l’espansione della vita. Chi comprime la libertà, soffoca la vita. Dostoevskij insorge perciò contro coloro che, in nome della felicità universale, cercano trasformare l’uomo in uno schiavo e il mondo in una prigione.
Ne «I demoni» egli condanna il movimento nichilista che, attraverso una fitta rete di delitti, legava tra loro i congiurati. Prevede che questi fanatici se riusciranno a conquistare il potere, diverranno feroci tiranni e opprimeranno crudelmente gli uomini per renderli tutti uguali, tutti docili, tutti ubbidienti, pecore soddisfatte del gregge universale. Profetizza mirabilmente ciò che il bolscevismo ha poi realizzato in Russia e, leggendo i fogli del processo di Netchaiev, impara a conoscere l’anima spietata che rivive oggi in Stalin.
Ma c’è un altro e più antico nemico della libertà che il cristiano eretico Dostoevskij detesta: ed è il cattolicesimo. Ne «I fratelli Karamazov» il grande pensatore pone chiaramente i termini della questione. Nel capitolo intitolato «Il grande inquisitore» egli immagina che Ivan Karamazov, l’intellettuale ipocrita e sottile, racconti al giovane fratello Alioscia la trama di un suo poema.
L’azione si svolge in Spagna, a Siviglia, nei tempi più terribili dell’inquisizione. Cristo ritorna sulla terra proprio nel luogo dove ardono i roghi degli eretici, e il popolo lo riconosce e l’acclama. Ma il Grande Inquisitore appena vede Gesù, lo fa arrestare; e la notte stessa recatosi a trovarlo nel carcere, gli’ tiene, in sintesi questo discorso: «A che t’è servito soffrire tanto per dare agli uomini la libertà. Tu hai rifiutato le tentazioni del Maligno di convertire le pietre in pane, di gettarti dal più alto pinnacolo del tempio e cadere incolume, d’impugnare la spada di Cesare, perché volevi che il popolo fosse libero di amarti per te stesso e non per i tuoi miracoli. Ma non sai che l’uomo appena ottenuta la libertà non ha altra preoccupazione che quella di prosternarsi, di adorare qualcuno, che gli promette non il pane celeste, ma il pane terrestre con cui sfamarsi?
«Tu, in nome della libertà, non hai voluto fare miracoli; ma l’uomo non può restare senza miracoli e se ne creerà egli stesso di propri, e si prosternerà davanti ad un mago, ad una fattucchiera, foss’egli anche cento volte ribelle, eretico e ateo. Così noi abbiamo corretto l’opera tua, piena d’eroismo, e l’abbiamo fondata sul mistero sul miracolo e sull’autorità. Se tu avessi agito altrimenti, accettando i consigli del Maligno, l’uomo avrebbe trovato l’essere cui affidare la propria coscienza, e il modo, infine, di riunirsi tutti in un formicaio indiscutibilmente comune e concorde. Poiché in tutti i tempi, l’umanità ha sempre teso ad un’organizzazione universale. Ma non hai voluto, sempre in omaggio alla sua libera bandiera.
«Noi invece sapremo persuadere l’umanità che essa diverrà veramente libera solo quando rinuncerà alla sua libertà e si assoggetterà a noi. Sì, noi la obbligheremo a lavorare, ma nelle ore libere organizzeremo la sua vita come un giuoco infantile, con canti, cori e balli innocenti. Noi giudicheremo tutto, i più tormentosi segreti della coscienza degli uomini; ed essi si sottometteranno al nostro giudizio con piacere, perché ciò toglierà loro tante preoccupazioni e tutte le torture che costa la decisione personale e libera. Per avere dato la libertà agli uomini, hai meritato il rogo più di chiunque altro. Domani sarai bruciato. Dixi ».
Secondo me Dostoevskij ha ragione quando insorge contro il formicaio che i cattolici vogliono realizzare in nome della chiesa e i bolscevichi in nome dello Stato. Ma ha torto quando vede in Cristo il campione della libertà umana. Perché se Cristo non ci ha obbligato a compiere il bene, con la minaccia dei roghi e delle galere, come hanno fatto i cattolici e i bolscevichi; se ci ha lasciato liberi di scegliere fra il bene e il male e ci ha riconosciuto il diritto di amarlo o di non amarlo a piacere nostro ha però confermato che chi farà il bene sarà premiato, chi farà il male punito, e coloro che lo ameranno e metteranno in pratica i suoi insegnamenti, andranno, dopo morti, in paradiso, e quegli altri che non lo ameranno e non seguiranno la sua morale finiranno nell’inferno.
Ma qui mi domando: che razza di libertà è quella che ci riconosce Gesù?
La scelta non è libera, su essa pesano la paura del castigo e l’allettamento della ricompensa. Io non posso scegliere come voglio, come mi piace, perché so che se la scelta cadesse spontaneamente sul male, sarei ferocemente torturato; mentre se essa cadrà sul bene riceverò, in seguito, un ricco premio. E allora io scelgo il bene anche se preferisco il male.
Mi trovo nella condizione di un uomo rinchiuso in una cella che ha due porte: l’una, quella di destra, mette in un giardino; l’altra, di sinistra, porta in un letamaio. Si presenta il carceriere e dice al recluso:
«tu sei libero. Scegli la porta per la quale vuoi uscire. Però ti avverto che se uscirai per la porta di destra, troverai fuori un mio collega che ti spezzerà le reni a bastonate; se uscirai per la porta di sinistra incontrerai un altro collega che ti consegnerà una borsa piena di monete d’oro».
Il recluso avrebbe voluto andare a destra per aspirare il profumo dei fiori nel giardino; ma la paura delle percosse e l’avidità del danaro lo spingono invece ad uscire per l’uscio di sinistra e a sopportare il fetore nauseante del letamaio.
Qualcuno potrà obbiettare: mi è possibile scegliere il male, pur sapendo che sarò castigato, perché il dolore futuro viene compensato dalla gioia immediata che ottengo facendo a modo mio, soddisfacendo le mie passioni. Ma l’obbiezione è vana: non c’è compenso fra una gioia transitoria ed un dolore eterno. Solo uomini eccezionali possono, coscientemente, preferire l’intensità dionisiaca del carpe diem alla perennità della sofferenza. Ma gli uomini comuni tremano davanti alla minaccia delle fiamme dell’inferno. Se fanno il male è perché dubitano della vita d’oltre tomba, della pena e della ricompensa. O pure perché, anche credendo in esse, sono trascinati irresistibilmente dalla loro natura a soddisfare gl’istinti, a seguire gl’impulsi contrari che dalle loro anime emanano. Ma se gli uomini credessero assolutamente nelle parole di Cristo e potessero sempre, con la volontà, frenare l’irruenza naturale, diverrebbero tutti santi, non per libera scelta ma per determinazione della cupidigia e della paura.
Dunque Cristo costringendoci, con il miraggio del castigo e del premio, ad optare, in ogni occasione, per il bene e a rinunziare al male, soffoca la nostra spontaneità che ci spinge, come lo stesso Dostoevskij riconosce, a vivere liberamente, ad appagare tutte le passioni, a passare dal male al bene e dal bene al male. Inoltre Gesù obbligandoci ad accettare e a rispettare la legge che colpisce il perverso e compensa il giusto, ci forza ad inchinarci dinanzi al legislatore, al padre suo, a Dio. Ecco l’autorità che balza fuori dal cristianesimo.
Dio è il creatore. Dio è il padrone. Dio può fare di me quello che vuole. Egli mi fa torturare nelle bolge infernali se agisco come mi piace. Mi permette deliziarmi nei giardini del paradiso se agisco come piace a Lui. Io debbo adorarlo, servirlo, ubbidirlo, accettare con letizia qualunque cosa mi faccia, prosternarmi ai suoi piedi. Ma allora non sono più libero; sono schiavo. E Cristo accetta tale schiavitù. Cristo dichiara: «Io non sono venuto per negare ma per confermare l’antica legge». Cristo non insorge contro l’ingiustizia che Jehovah ha commesso dannando all’eterno dolore Adamo e la sua discendenza. Ma da buon figliolo, rimane sottomesso al padre e, come osserva Ferrari, « immagina di placarlo e di soddisfarlo facendosene schiavo fino a subire l’estremo supplizio. Il padre gradisce l’offerta, lo fa crocifiggere dal popolo eletto; poi punisce Io stesso popolo per aver compiuto il voluto parricidio; ed è questo il pegno dell’era nuova: la maledizione antica deve cessare perché Jehovah ha oltrepassato la propria ingiustizia punendo il figlio innocente, quasi fosse uno dei figli innocenti di Adamo. La maledizione cessa ma negli eletti; cessa, ma la giustizia è mero favore; cessa, ma la libertà degli eletti è ordinata nel vuoto dei cieli, cessa, ma l’eletto vive di martirio sulla terra, vive nemico di sé, imitatore del supplizio di Cristo, carnefice d’ogni suo istinto; e se, per un istante, si ricorda d’essere uomo, perduto per sempre, cade vittima di Jehovah e di Cristo, unanimi nel furore e nella vendetta. Cristo diserta la causa degli oppressi nell’atto stesso che la difende: lascia la terra a Cesare, ai conquistatori, ai barbari; non offre altro al povero che la derisione del pane eucaristico; lo santifica ma lo abbandona affamato alle porte dei palazzi; gli dà a bere il proprio sangue versato dal padre, ma deve lasciar versare il suo sangue da ogni tiranno. Se egli è luce, la sua luce sorge per illuminare l’ingiustizia della terra, senza toglierla, senza alterarla... ».
Io credo dunque che Dostoevskij non dovrebbe usare la figura mistica di Cristo come simbolo di libertà. Gesù non è l’antitesi del Grande Inquisitore. E’ colui che l’ha reso possibile. Se il cristianesimo non fosse nato, non avrebbe potuto degenerare nel cattolicesimo per cui l’umanità è afflitta da una tirannia che, partendo da Jehovah, attraverso Cristo, finisce in Torquemada.
Il simbolo della libertà umana, è invece un altro personaggio mitico: Capanéo. L’eroe disteso sulla landa deserta, sotto la pioggia di fuoco, il ribelle che, non domato dai supplizi, sfida Dio eternamente.
Ed è il simbolo che gli uomini dovrebbero riconoscere per non finire nel formicaio che Dostoevskij aborriva.
Nietzische sostiene che la vita è del più forte. Ha ragione. Ma io per non farmi uccidere o assoggettare dal più forte, debbo acquistare, servendomi di qualunque mezzo, la potenza che mi manca e che mi permetterà di resistergli. Se riuscirò ad ottenerla lo arresterò con la mia difesa, e ci equilibreremo. Altrimenti cadrò con la soddisfazione di aver tentato, di non essermi rassegnato: morrò con l’arma in pugno, sputando l’ultimo fiotto di sangue sulla faccia del nemico.
Morrò come Bonnot soverchiato dalla sbirraglia. O, come Capanéo, sopporterò stoicamente il dolore che non ha fine, insegnando agli uomini che la libertà non sarà mai di colui che sposa la rinunzia degli stupidi e l’arrendevolezza dei vili, ma solo dell’audace che saprà conquistarla lottando e soffrendo per essa lanciando all’universo l’ammonimento supremo: Nemo me impune lacessit.
E. Martucci

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