martedì 10 luglio 2012

ESISTE LA GIUSTIZIA?

ESISTE LA GIUSTIZIA?

Il professore Decio Conti (qual’ è la posizione intellettuale e politica di costui?) crede nell’esistenza della Giustizia. E quando l’ho pregato di spiegarmi questa cos’è, ha risposto: «La Giustizia è un’idea che gli uomini hanno accettato dai tempi più lontani, ch’è stata trasmessa di generazione in generazione e si è fissata nella mente umana, esercitando la sua influenza sul nostro pensiero e sulla nostra condotta ».


Benissimo! Conti ha ragione. Tutti, o quasi tutti gli uomini, hanno accettato, dalle epoche più remote, l’idea della Giustizia. Però ciascuno l’ha sempre interpretata a modo proprio. Ogni popolo e ogni classe, ogni gruppo e ogni individuo, ha avuto una propria concezione della Giustizia diversa da quella che avevano altri popoli e altre classi, altri gruppi e altri individui.


I romani pretendevano ch’era giusto conquistare le terre dei barbari ed imporre, a questi, con la forza, la loro civiltà. I barbari ritenevano ch’era giusto respingere l’invasore, conservare la libertà e rinunziare alla civiltà. I crociati credevano servire la Giustizia, liberando il Santo Sepolcro e cacciando i turchi da Gerusalemme. I turchi sostenevano che la Giustizia era dalla loro parte perché essi difendevano la vera fede e resistevano all’aggressione degli occidentali. I socialisti moderni si dichiarano soli campioni dell’equità, mirando alla distruzione delle frontiere e all’affratellamento dei popoli nell’umanità unificata. I nazionalisti asseriscono ch’è equo il loro ideale (che propugna l’indipendenza per ogni popolo ed il suo diritto a primeggiare, con ogni mezzo, sugli altri. L’austero padre di famiglia afferma che la Giustizia lo ispira quando cerca impedire alla giovane ed inesperta figliuola di cedere alle lusinghe del seduttore e alla perdizione che la insidia. La figlia pensa ch’è giusto ch’essa possa disporre del suo corpo come vuole e darlo all’uomo amato, contravvenendo al divieto paterno. Appare dunque chiaramente che non v’è una sola Giustizia, eterna ed universale, ma vi sono tante giustizie, diverse ed opposte.


Quale, fra queste, sarà la vera?
Se ci fesse l’Iperurania platonica e gli uomini potessero fissare i loro occhi in essa e vedere l’idea trascendente di Giustizia, il modello assoluto e perfetto, allora sarebbe facile constatare che fra le varie concezioni umane della Giustizia la vera è quella che somiglia al modello. Ma siccome l’Iperurania non c’è, il modello manca, la conseguenza è che tutte le diverse ed opposte idee di Giustizia sono tutte vere o tutte false, o sono tutte né vere né false. Quindi tutte si equivalgono.


Però, pur essendo differenti, queste varie concezioni hanno in comune la pretesa d’esigere il sacrificio da parte dell’individuo. Ogni giustizia vuole che l’io si strazi sul suo altare.


Il romano deve sopportare le fatiche ed i pericoli della guerra e correre il rischio di finire nella selva di Teutoburgo, sotto le lance dei primitivi. Il barbaro è costretto ad esporsi alle rappresaglie dei conquistatori ed alla sorte di Vercingetorige. Il crociato ha l’obbligo di abbandonare patria, famiglia ed interessi per andare incontro all’insidia tesa da Saladino. Il turco devo affrontare l’ira di Riccardo Cuor di Leone e dei suoi spietati guerrieri. Il socialista sfida la galera, la miseria e le persecuzioni della società capitalista. Il nazionalista offre la propria vita nella lotta contro lo straniero e sa che finirà in carcere se il socialismo trionferà. Il pater familias, per evitare la corruzione della figlia, si tormenta l’anima e s’impone gravi sacrifici finanziari per mantenerla in collegio o pagare servi che la sorveglino. La figlia corre l’alea di finire sul lastrico o nell’alcova di un bordello dove raccoglierà sifilide, disprezzo e miseria.


Ogni concezione della Giustizia richiede, dunque, dall’individuo che l’accetta, la sottomissione ad un Dovere che sacrifica l’uomo. Ma cosa dà, in cambio, la Giustizia al sacrificato?
Una ricompensa: la soddisfazione d’avere agito moralmente, d’avere evitato la pena dei rimorsi, o d’aver conquistato la stima altrui e d’essersi reso gradito a Dio o all’umanità.


Quindi la Giustizia pretende dall’individuo un sacrificio che paga con il risarcimento di una ricompensa.
Ma così, nello stesso modo, si comporta anche l’interesse. Esso mi dice: se vuoi avere la gioia d’arricchire, devi esporti allo strapazzo del lavoro o ai pericoli del furto. Se vuoi possedere una bella donna devi rovinarti finanziariamente per lei o andare incontro alla pistola del marito geloso. Se desideri la conquista della gloria devi ottenerla consumando la tua salute sui libri e resistendo alle calunnie e alle perfidie degl’invidiosi. Se aspiri a coronare la tua ambizione con il potere dittatoriale, rassegnati a sopportare lotte, contrarietà, rischi, patema d’animo.


Quindi l’interesse, come la Giustizia, condiziona la ricompensa che ci promette con il sacrificio che esige. Ma allora se interesse e Giustizia pretendono entrambi un mio dolore per retribuirlo con un piacere (spirituale o materiale) io debbo considerarli equivalenti e non trovo nessuna ragione per stimare la Giustizia superiore all’interesse.


Si dirà: se non servo la Giustizia, se non mi sottometto al Dovere, sarò esposto al tormento dei rimorsi che lancinano l’anima. Ma ugualmente se trascuro l’interesse, se non bado al tornaconto, posso subire, in seguito, lo spasimo di dolori morali, per nulla inferiori alle pene che straziano l’uomo onesto che ha peccato.
« Se il sentimento del dovere — scrive Ferrari — fa vergognare quelli che gli resistono, se rode col rimorso, anche l’interesse trae al suo seguito una legione di pentimenti e di dolori; anch’esso ci punisce col suo rimorso, e si vale della vergogna per farsi obbedire. Guardate ai fatti: quella fanciulla geme, le pesa la sua verginità; quel re è afflitto, ha commesso l’errore d’esser giusto; quel generale è dolente perché non fu perfido; quel ministro è infelice, vorrebbe aver violato la fede. Tito era mesto il giorno in cui non era stato benefico; il condottiero Gabrino Fondulo moriva disperato per non avere ucciso il papa e l’imperatore quando li aveva ospitati a Cremona. Dobbiamo imitare Tito o il condottiero? La logica ci vieta di rispondere. Al cospetto della logica i caratteri del dovere e quelli dell’interesse sono figliali. Come il dovere, l’interesse cambia, cede all’abitudine, all’educazione, alle circostanze; varia coi costumi, col clima, con l’incivilimento. Qualche volta l’interesse è dubbio, incerto, riflette; sono gli stessi fenomeni del dovere; nel medio evo esso invocava la casuistica della chiesa e quella della cavalleria; esso reclama dovunque lo studio della giurisprudenza e le decisioni dei tribunali. L’interesse può scomparire almeno parzialmente: possiamo diventare insensibili ai piaceri più attraenti, possiamo privarcene lietamente; nell’amore, un essere vive nell’altro, e l’interesse sospende il regno dell’interesse. Lo stesso fenomeno si riproduce nel dovere: il rimorso scompare con l’abitudine del delitto; intere nazioni possono disconoscere i primi principi dell’umanità; nell’antichità tutto il genere umano ha consacrato l’ingiustizia della schiavitù; la stessa ingiustizia trovasi ancora consacrata nelle più vaste regioni del globo. Ivi l’uomo è una macchina; viene Flagellato, ferito, ucciso; le leggi del giusto restano sospese nel santuario stesso della coscienza: quelle del pudore son vane; lo schiavo non ha sesso per sedurre la donna libera, né per farla vergognare. In qual modo obbligheremo noi l’uomo pervertito a seguire un sentimento che non ha?


I due istitì dell’interesse e del dovere si riducono a due impulsi, a due forze; se manca il motivo per preferire l’una all’altra, la scelta sarà dettata dall’intensità delle forze. La logica darà ragione alla meccanica. Dunque l’impulsione più forte avrà il diritto di trarci seco; dunque l’azione, risultato necessario del più forte impulso, sarà sempre giusta: dunque sarà giusto essere ingiusto, quando la fatalità dell’egoismo prepondera sulla forza del dovere. Non si chieda se devesi onorare il virtuoso o l’iniquo, se vuolsi imitare Seneca o Nerone. La questione non ha più senso; siate ciò che siete, stimate ciò che riesce: il fatto è il diritto»
Noi non abbiamo, dunque, un motivo valido per considerare la Giustizia superiore all’interesse e per preferire, nella scelta, la prima al secondo. Come l’interesse, la Giustizia pagana e quella cristiana, la Giustizia socialista e, la Giustizia nazionalista, pretendono dall’individuo un sacrificio che pagano con una ricompensa, e sanzionano per il disertore il tormento dei rimorsi. Dunque, tutte le giustizie hanno gli stessi caratteri dell’utile. Perché quindi dovrei stimarle migliori di questo utile?


Ma la Giustizia di Kant esige il sacrificio al quale non offre nessuna ricompensa. Io debbo fare il bene per il bene, non debbo avere altro fine che la Giustizia. Se io invece facessi il bene per ottenere un vantaggio, per avere una soddisfazione intima, o per evitare la pena dei rimorsi, o per rendermi meritevole del paradiso nell’altra vita, o per conquistare la stima degli uomini, o per procurarmi un piacere sentimentale o materiale, allora la mia azione sarebbe egoistica, avrebbe per fine me stesso, non la Giustizia, ed io non avrei agito moralmente. Invece debbo agire disinteressatamente, contro gl’impulsi del sentimento e dell’egoismo, per conformarmi alla legge morale che trovo nella mia ragione e che impone alla volontà un romando che la ragione riconosce universale e incondizionato.
«Tu devi, dunque puoi» dice Kant. Quindi posso andare contro i miei interessi e le mie tendenze solo perché la legge morale stabilisce che debbo fare così.


Ma, contrariamente a quanto afferma Kant, in tutte le ragioni degli uomini non si trova la stessa legge morale che tutte le ragioni riconoscono necessaria e giusta. Invece ogni ragione si crea una sua morale ch’è in contrasto con le morali che altre ragioni creano. E ogni ragione genera la propria etica sotto l’influenza dei sentimenti e dei bisogni, degli interessi e delle passioni che predominano nell’individuo. Quindi l’azione disinteressata, il bene per il bene, il dovere per il dovere, non s’incontrano mai nella condotta umana.
Secondo Kant la ragione non può mai dimostrare a nessun uomo ch’è razionale offendere la Giustizia, violare la libertà degli altri uomini. Ma perché non lo potrebbe? Per la necessità, risponde Kant, di rispettare la libertà degli altri. «Ma perché — chiede Ferrari — devo io rispettare là persona, la libertà dei miei simili? La mia libertà è il mio interesse, quella degli altri lo limita; rispettando la mia libertà sono felice, rispettando quella dei miei simili sono sacrificato; faro adunque ciò che mi piace e tanto peggio per chi ne soffre, io non conosco che me e il contrasto della mia libertà con quella dei miei simili riproduce, senza scioglierlo, il dilemma del bene e del male. Kant pretende di costringermi al dovere per la necessità di essere coerente; mi domanda se voglio vilipendere la libertà che reclamo, se voglio rifiutare agli altri ciò che domando per me. Sì, certo; se la mia libertà è un principio, io voglio essere assolutamente libero, e non posso essere accusato di contraddizione rifiutando di rispettare negli altri la libertà che esigo rispettata in me. La contraddizione si verificherebbe se cadesse su di un identico oggetto, se nemico di me stesso fossi deliberato a reclamare e a respingere la mia propria libertà, allora soltanto, per esser logico, sarei costretto a scegliere d’esser libero o schiavo, persecutore o vittima. Ma, violando la giustizia, io demando per me la libertà, per altri la servitù; e messo da parte il dovere, rimango logicamente fedele al principio della mia propria indipendenza Nulla v’ha di più naturale».


Ferrari ci dimostra così l’impossibilità della Giustizia basata sulla logica. Però finisce anch’egli col riconoscere la Giustizia fondata sulla natura umana.


Per lui il Dovere è determinato dall’utile perché c’è in noi un impulso, inesplicabile ma reale, che ci spinge a sacrificare certi interessi particolari all’interesse naturale e generale nel quale si realizza, veramente e completamente, l’interesse personale. Quest’impulso, svolgendosi, varia all’infinito, crea le più diverse morali, spinge Cristo ad immolarsi per la redenzione di tutti gli uomini, ed Achille a combattere e a soffrire per ottenere il trionfo dei greci sui troiani. Si rivela nell’’uomo onesto che lavora per la collettività, nell’idealista che lotta e pena per la liberazione del popolo, nel malfattore che si lascia gettare in galera per non tradire i suoi compagni o pure che a tutto rinunzia per consumare il delitto. L’interesse generale implica l’abnegazione dell’individuo che ne partecipa e quest’abnegazione giunge fino alla santa contraddizione del sacrificio intero dell’interesse.


La morale di Ferrari non è altro che la morale utilitarista di Bentham, riveduta e corretta. Esiste veramente in tutti gli uomini l’impulso al sacrificio? Non vi sono forse molti uomini che non sono portati a sacrificarsi per gli altri e nemmeno per loro stessi, contentandosi del poco anziché tendere al molto che non potrebbero conquistare se non mediante rinunzie e pericoli? E fra coloro che invece sono disposti al sacrificio questa tendenza non si rivela talvolta conciliantesi con l’interesse generale, ma tal’altra volta contrastante con l’interesse dei propri simili?


In natura v’è un istinto che ci spinge al mutuo appoggio e che Kropotkin ha tanto bene studiato, ma v’è anche un’inclinazione che ci sprona alla guerra, alla lotta per l’esistenza. Vero è che Darwin ha dimostrato che tale lotta è più severa fra specie diverse che non fra individui appartenenti alla stessa specie. Però esiste anche nella medesima specie e noi sentiamo che in certi casi possiamo realizzare il nostro interesse personale nell’interesse generale, ma in certi altri casi avvertiamo che l’interesse dell’io non può essere appagato se non mediante il danno altrui.


Noi siamo, contemporaneamente, sociali ed antisociali, generosi e perversi. Come si può dunque pretendere che la tendenza naturale più forte sia quella che ci spinge a sentire il nostro utile individuale nell’utile di tutti? Il delinquente che si sacrifica per non denunziare i compagni, cerca, in un altro momento, defraudarli dei prodotti del furto consumato insieme. Si espone alla loro vendetta, corre il rischio di dare e ricevere coltellate, ma tutto ciò lo fa per, per un interesse che contrasta con quello altrui. L’onesto lavoratore che suda sul campo o nella fabbrica, se riesce ad acquistare una piccola proprietà, sfrutta i suoi operai come il padrone sfruttava lui. L’idealista che ha sofferto per tanti anni per liberare l’umanità, può infine, quando ha raggiunto lo scopo, diventare un tiranno ed opprimere quella stessa umanità che aveva voluto prima affrancare.


Non è quindi possibile fondare la Giustizia sulle tendenze naturali che sono varie e contraddittorie.
La conclusione è perciò che la Giustizia, unica ed universale, non c’è. Le diverse ed opposte giustizie hanno gli stessi caratteri dell’interesse e manca un motivo logico per preferirle a questo. Una giustizia del disinteresse non può esistere come non può esistere nemmeno una giustizia creata dalla spontaneità naturale.
Dunque la Giustizia non esiste.

enzo martucci

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