Libro Secondo
IV L'eterno ritorno dell'uguale e la volontà di potenza
Se pensiamo la filosofia di Nietzsche all'interno del progetto-guida della metafisica occidentale, ne riconosciamo l'aspetto necessario e definitivo, che emerge soprattutto nella connessione della dottrina dell'eterno ritorno dell'uguale, con il pensiero fondamentale della volontà di potenza. La determinazione di tale connessione, che fa apparire questa filosofia come la posizione storica finale della metafisica, richiede la seguente articolazione:
1.
N. pensa l'essere come volontà di potenza, in unità con la determinazione dell'essere come eterno ritorno, tuttavia non teorizza esplicitamente l'unità essenziale di questi due concetti, nè li collega al progetto-guida della metafisica. Egli, al pari di tutti i filosofi prima di lui, non ha saputo ritrovare i tratti essenziali di tale progetto-guida, che consistono nella rappresentazione dell'ente in quanto tale nell'ambito della presenza e della stabilità.
Il pensiero dell'eterno ritorno, che anticipa nel contenuto quello della volontà di potenza, pensando la costante stabilizzazione del divenire, nella presenza del ripetersi dell'identico, genera l'illusione storiografica di aver riguadagnato l'inizio, quando, agli albori della metafisica, l'unità della physis fu ripartita in "essere" e "divenire". Sennonchè, la dottrina di N. non è il superamento della metafisica, poichè, lungi dal pensare l'essenza dell'ente in modo greco, la pensa nel compimento, in sè inviluppato, senza vie di uscita. L'inizio è portato così al compimento della sua fine, e conferma l'abbandono dell'essere.
2.
I due pensieri pensano, nei termini dell'età moderna (la volontà di potenza) e in quelli della storia finale (l'eterno ritorno), la stessa cosa. Lo si può vedere sia in riferimento al progetto-guida della metafisica, rispetto al quale i due pensieri rappresentano entrambi la stabilizzazione del divenire, sia nell'orizzonte stesso della metafisica e in base alle sue distinzioni. Infatti, essi sono concepiti come determinazioni fondamentali dell'ente nel suo insieme, e, precisamente, la volontà di potenza come la forma del che cosa è (Was-sein), l'eterno ritorno come quella del che è (Dass-sein). (Questa seconda via è quella seguita nei due corsi universitari "La volontà di potenza come arte" e "L'eterno ritorno dell'uguale").
La distinzione di queste due determinazioni, che regge la metafisica e la cui origine è rimasta occulta, ha il fondamento nella distinzione platonica dell' ontos on e del me on. Il primo, è l'ente essente, che è in modo vero e proprio, nella cui presenza sono uniti il che cosa un ente è e il che esso è. Il secondo, è quello apparente, che mostra il che cosa è solo in modo offuscato, e che quindi non è veramente, pur non essendo un niente. La distinzione fra il che cosa e il che è (basata su quella dell'ontos on e del me on), si presenta successivamente in forme diverse (essentia, existentia), viene infine alla luce nel compimento della metafisica, ma in modo che la distinzione in quanto tale è dimenticata.
Ma il compimento, con la filosofia di N., realizza una trasformazione nell'ultima forma possibile, superando la distinzione del mondo "vero" e del mondo "apparente", nella trasformazione del secondo, del "sensibile", nella "vita" nel senso della volontà di potenza, che assimila il "soprasensibile" come assicurazione della sussistenza. In questa ultima trasformazione, viene eliminata la distinzione: il "che cosa" (volontà di potenza) è, in quanto essenza, la condizione della vitalità della vita, ed è l'unico e autentico "che è" (eterno ritorno) del vivente.
3.
Nell'unità essenziale dei due pensieri, la metafisica dice la sua ultima parola. All'inizio della sua storia, vi era l'antitesi di essere e divenire, ripartiti in due regni separati. Nell'essere, percepito come permanenza e durata, i Greci scorgono l'essere vero e proprio, e vedono il divenire come generazione e corruzione, quindi come non ente e come ente apparente. Successivamente, il divenire entra in concorrenza con l'essere, reclamando il posto di quest'ultimo; Hegel, compiendo il primo passo in suo favore, lo concepisce a partire dal soprasensibile, dall'idea assoluta; N., attuando il rovesciamento del platonismo, elimina l'antitesi di essere e divenire, e costituisce il compimento. Ora il divenire pretende di avere assunto la preminenza sull'essere, mentre in realtà porta a compimento soltanto l'etrema conferma dell'essere nel senso della stabilizzazione e della presenza. La filosofia di N., infatti, stabilizzando il divenire, realizza la supremazia dell'iniziale verità dell'essere, rimasta ignota e infondata. La conseguenza di questo ultimo stadio della metafisica, si manifesta nella corrispettiva determinazione dell'essenza della verità. Essendo svanita anche l'ultima risonanza della alétheia, la verità diventa "giustizia", ossia suprema volontà di potenza. Tale trasformazione equivale ad un "accantonamento"; allora comincia il conferimento di senso come "trasvalutazione di tutti i valori". La verità come "giustizia", conseguenza dell'antropomorfismo incondizionato, diventa il dominio dell'uomo sulla terra.
4.
Comincia, con questo, l'epoca della compiuta mancanza di senso, che deriva dall'accantonamento della verità dell'essere, nel compimento della metafisica. Tale epoca instaura la supremazia dell'enticità in quanto fattività (Machsamkeit), che rimane sottomessa all'essere nella figura essenziale della macchinazione (Machenshaft). Con la macchinazione, che può mantenersi solo sotto il comando incondizionato di se stessa, giunge al potere la mancanza di senso.
Nondimeno, è il tempo dell'instaurazione macchinosa di "fini" e "visioni del mondo", che sostituiscono ogni domandare sulla verità dell'essere, e che non si regolano su "misure" e "ideali" in sè fondati, ma che stanno al servizio della potenza, e scaturiscono da una autoinstaurazione dell'uomo nell'ente. L'essenza dell'ente, il "che cosa è", determinato un tempo dalle "idee", è riferito ora al calcolo che inventa i "valori". La "trasvalutazione di tutti i valori" è, dunque, la forma estrema della metafisica. Questo è l'unico piano che rimane dopo il rovesciamento del platonismo e l'abolizione del mondo "vero" e del mondo "apparente", e che appare come identità di eterno ritorno e di volontà di potenza.
5.
Tale epoca attua pienamente l'essenza dell'età moderna, caratterizzata dal fatto che l'uomo, come subiectum, si instaura quale centro di riferimento dell'ente nel suo insieme, di fronte al quale l'ente diventa oggetto, determinato come "rappresentatezza" e "fabbricatezza" (Vor- und Hergestelltheit). Alla base di tali determinazioni ci sono Cartesio, con l'identificazione della verità nella certezza, e Leibniz con l'interpretazione della sostanza con il carattere fondamentale della rappresentazione. La certezza e la rappresentazione predispongono alla preminenza del calcolo e della macchinazione. La tecnica fonda il potere dell'uomo in un mondo in cui solo l'ente, e non l'essere, è essenziale. La mancanza di radura (das Lichtung-lose) dell'essere è la mancanza di senso (Sinnlosigkeit) dell'ente nel suo insieme.
6.
Con la mancanza di senso che caratterizza l'età moderna, l'essenza della metafisica raggiunge il compimento nella macchinazione, che spinge l'ente a occupare l'unico rango e fa dimenticare l'essere. Ciò che propriamente accade è che l'essere lascia l'ente a esso stesso e in questo si rifiuta. In quanto tale rifiuto (Verweigerung) viene esperito, è però già accaduta una radura dell'essere, è la prima iniziale manifestazione dell'essere nella sua problematicità. Occorre rendersi insistenti in questa radura, che avviene per opera dell'essere, e non è escogitata da noi.
Il fondamento storico del compimento è già il trapasso nell'altro inizio, che ritorna al fondamento e assume con questo un'altra stabilità. Il trapasso (Uebergang) assume su di sè tutto il già-stato e prepara il venturo, seguendo la via che dispone il pensiero dell'uomo all'ascolto della voce dell'essere e lo fa diventare disponibile alla guardia (Waechterschaft) della verità dell'essere.
V. Il nichilismo europeo
I cinque titoli capitali nel pensiero di Nietzsche
N. chiama "nichilismo" il movimento da lui riconosciuto per la prima volta nella storia occidentale, che domina già i secoli precedenti e darà l'impronta al prossimo, e di cui egli compendia l'interpretazione nella sentenza: "Dio è morto". Dio è il Dio cristiano, che è al tempo stesso la rappresentazione-guida del "soprasensibile", degli "ideali", dei "valori", e dei "fini" instaurati sopra l'ente. Venendo meno il dominio del "soprasensibile" sull'ente, l'ente stesso perde il suo "senso". Il nichilismo è, dunque, quell'evento (Ereignis) nel quale la verità sull'ente nel suo insieme muta e si spinge verso una fine da essa determinata.
Il nichilismo non è solo, tuttavia, decadenza del dominio del soprasensibile, ma esso si compie anche in vista di una nuovaposizione di valori, e in questo senso è designato da N. come il "nichilismo classico". In questa accezione, dunque, il termine "nichilismo" perde la sua connotazione meramente negativa, e significa liberazione dai valori finora validi, per unatrasvalutazione di essi.
Per quanto riguarda la "trasvalutazione", essa non è solo una "sostituzione" dei valori, ma significa propriamente che "il posto" dei valori finora validi (il "soprasensibile") scompare: la posizione stessa dei valori e la determinazione della loro essenza mutano. Per fondare una nuova posizione, tuttavia, occorre un "nuovo principio", che investa l'interpretazione dell'ente nel suo insieme, la quale, venendo meno il "soprasensibile", può avvenire soltanto partendo dall'ente stesso. Tale interpretazione, per N., consiste nella "volontà di potenza", termine che definisce sia il carattere fondamentale dell'ente, il che cosa è, sia l'essenza della potenza, che sta nel suo superpotenziamento: la potenza è tale solo in quanto e fintanto che supera e oltrepassa se stessa.
Ora, tutto l'ente, in quanto volontà di potenza, è un incessante superpotenziarsi e, quindi, un costante divenire, che, però, non va "oltre" se stesso, poichè non tollera nessun altro "fine" al di fuori di sè, ma deve ritornare continuamente a sè. Dunque, dall'essenza della volontà di potenza si coglie il carattere fondamentale dell'ente come eterno ritorno dell'uguale. E, d'altra parte, partendo dall'essenza dell'eterno ritorno si determina la necessarietà della volontà di potenza. Come il termine "volontà di potenza" definisce il che cosa l'ente è, la sua essenza, così la denominazione "eterno ritorno", dice il come l'ente deve essere.
L'eterno ritorno dell'uguale fornisce anche la più acuta interpretazione del "nichilismo classico", poichè ha incondizionatamente annientato ogni fine al di fuori e al di sopra dell'ente. Ma se si elimina il "soprasensibile", rimane soltanto la "terra"; e il nuovo ordine, quindi, consisterà in un invito illimitato all'uomo ad elevare il proprio dominio sull'orbe terrestre. Ma, dal momento che il nichilismo e la nuova concezione dell'ente, hanno reso necessaria una nuova posizione dell'essenza dell'uomo, non si tratterà dell'uomo che c'è stato finora, bensì del superuomo, che è la forma suprema della volontà di potenza e della "trasvalutazione di tutti i valori".
I cinque titoli capitali indicati: "nichilismo", "trasvalutazione", "volontà di potenza", "eterno ritorno", "superuomo", mostrano la metafisica di N. sempre sotto un unico riguardo, ma anche nella sua connessione con il tutto: solo nella loro coappartenenza originaria la rivelano in modo essenziale.
Partendo da una sufficiente comprensione del nichilismo possiamo, quindi, accedere al sapere della metafisica di N. nella sua interezza. Tale sapere, peraltro, non si identifica in una "astratta" dottrina, ma significa esperire consapevolmente la nostra posizione nella storia della metafisica dell' Occidente, pensare questa storia come il fondamento della nostra storia e delle decisioni venture.
N. non ha esposto la sua conoscenza del nichilismo nella compattezza che pure egli possedeva; il nocciolo intimo della sua dottrina non è stato reso pubblico, ma è ancora nascosto nel lascito, e solo una parte, scelta in maniera a tratti arbitrariae casuale, è raccolta nell'opera La volontà di potenza. I brani che la compongono non sono disposti secondo l'ordine cronologico, ma secondo un piano proprio dei curatori. Si può dunque affermare che ciò che è stato da loro pubblicato è stato sì stilato da N., eppure egli non lo ha mai pensato così. Il primo libro, "Il nichilismo europeo", contiene i brani numerati dall' 1 al 134.
Il nichilismo come "svalutazione dei valori supremi"
Per evitare le difficoltà interpretative, legate alle scelte dei curatori, analizzeremo singoli brani, seguendo i seguenti criteri:
1) Il brano dovrà appartenere al periodo della massima lucidità del pensiero di N., ossia agli anni 1887 e 1888;
2) Dovrà contenere il nocciolo essenziale del nichilismo ed esporlo in termini sufficientemente ampi;
3) Dovrà essere adatto a portare sul terreno adeguato il confronto con il pensiero nietzscheano del nichilismo.
Introduciamo il discorso con una annotazione - la n.2 - posta all'inizio del libro, che dice:
"Che cosa significa nichilismo? - che i valori supremi si svalutano. Manca il fine; manca la risposta al "perchè?" ".
Dal brano cogliamo ciò che è decisivo per ogni comprensione del nichilismo: esso è il processo della svalutazione dei valori supremi. Quale carattere abbia, tuttavia, tale processo, e in che misura esso sia il processo fondamentale della nostra storia, lo si può cogliere solo se prima venga chiarito il concetto di valore, che nella filosofia di N. svolge un ruolo direttivo.
La domanda del valore e della sua essenza ha il proprio fondamento nella domanda dell'essere. Valere è un modo dell'essere. L'essenza del valore è connessa a quella del fine: stimare qualcosa un valore, significa contemporaneamente indirizzarsi su di esso. Il valore si rivela, inoltre, anche fondamento di ciò che in esso viene accolto. Si può così delineare una connessione interna tra valore, fine e fondamento, non senza che si possa evitare una domanda insidiosa: qualcosa è un fine (o un fondamento) perchè è un valore, oppure è un valore perchè è posto come fine (o come fondamento)?
Sennonchè, resta non chiarita la questione del perchè l'idea di valore domini il pensiero di N. e, successivamente, quello contemporaneo.
Nichilismo, "nihil" e Niente
Il "nichilismo", che vuol dire che tutto l'ente è nihil, "niente", non sta in una connessione essenziale con l'idea del valore, che si fonda determinando prima se e come qualcosa è. Nondimeno, esso è concepito come "svalutazione dei valori supremi."
Ora, nel concetto di nichilismo si tratta dell'ente nel suo non essere, considerato come la negazione dell'ente: il "niente" è pensato di solito nella prospettiva di ciò che è di volta in volta negato. Con il concetto di "Niente", non intendiamo, invece, una particolare negazione di un singolo ente, ma la negazione incondizionata dell'ente nel suo insieme. Il Niente, in quanto negazione di ogni oggetto possibile, non è più, a sua volta, un oggetto. Pensare al Niente risulta allora un proponimento "senza oggetto" (gegenstandslos), un vuoto gioco di parole che deve, per di più, fare a pugni con se stesso: qualsiasi cosa, infatti, io stabilisca sul Niente, devo dire di esso un "è", e in tal modo gli attribuisco i caratteri dell'ente. Tali riflessioni, che liquidano il Niente come opposizione essenziale a tutto ciò che è, implicano la convinzione di essere in possesso della verità dell' "è" e dell'"essere" in modo chiaro e incontrovertibile; questa convinzione è propria di tutta la metafisica. Ma se il Niente è niente, allora non può dirsi neppure che l'ente sprofondi nel Niente, e lo stesso nichilismo è un'illusione.
Certo, l'opinione comune e la filosofia tradizionale hanno ragione a sostenere che il Niente non sia un ente, un "oggetto", ma la domanda se questo Niente, in quanto determina ciò che è essenzialmente presente, invece non "sia", non trova pace. E se l'essenza del nichilismo consistesse proprio nel non prendere sul serio la domanda del Niente? Se questo, pur non essendo un ente, non fosse nemmeno ciò che è soltanto nullo? Il nichilismo sarebbe allora quella storia della metafisica che spinge ad una posizione di fondo nella quale il Niente, non solo non può essere compreso, ma non vuole più nemmeno essere capito. Lo stesso N., che si muove nella traiettoria del pensiero occidentale, non è capace di pensare l'essenza del Niente. Egli riconosce il nichilismo poichè pensa lui stesso in modo nichilistico, concependolo soltanto in base alla svalutazione dei valori supremi. Nella metafisica, però, il concetto di valore giunge alla posizione di preminenza, poichè in esso si cela una certa interpretazione dell'essere: la sua essenza (Wesen) viene pensata sotto un riguardo determinato e necessario, cioè nella sua malaessenza (Unwesen).
Il concetto nietzscheano della cosmologia e della psicologia
Per rispondere alle domande poste dalla concezione nietzscheana di nichilismo come svalutazione dei valori supremi, scegliamo la via di una delucidazione del brano n. 12, la cui stesura è avvenuta tra il novembre 1887 e il marzo 1888. Il brano è intitolato: "Caduta dei valori cosmologici", ed è diviso in due sezioni, A e B, di ampiezza disuguale, ed è completato, inoltre, da una osservazione conclusiva. Va rilevato che N. non allude qui alla cosmologia, intesa come una branca della metafisica tradizionale; ma in questo contesto, "cosmo" significa "natura", "mondo", termini che designano, nel lessico nietzscheano, l'ente nel suo insieme. I valori "cosmologici" sono quei valori che abbracciano tutto ciò che è e diviene, sono i valori supremi; si tratta, quindi, dell'essenza del nichilismo.
La sezione A è articolata in quattro capoversi; il quarto riprende i tre precedenti nel loro contenuto essenziale. La sezione B offre un panorama delle conseguenze di questa caduta dei valori cosmologici, che non comporta una caduta del cosmo stesso. I primi tre capoversi della sezione A incominciano ogni volta nello stesso modo: "Il nichilismo come stato psicologico". Si pone così la questione di sapere che cosa intenda N. con "psicologico" e con "psicologia". Si può interpretare il concetto, come un domandare filosofico dell'essenza dell'uomo nei suoi riferimenti essenziali all'ente nel suo insieme. "Psicologia" equivale allora a "metafisica", che non comprende, tuttavia, solo l'uomo, ma tutto il vivente, determinato nel senso della "volontà di potenza".
Il fatto che la "metafisica" diventi "psicologia", ossia che l'uomo in essa abbia una preminenza speciale, ha il suo fondamento nella metafisica moderna. E' in quest'epoca, infatti, che l'uomo diventa misura e centro dell'ente; egli è ilsubiectum. Tale concezione dell'uomo, iniziata con Cartesio, è portata alle estreme conseguenze soggettivistiche da N. stesso con la dottrina del superuomo, che sancisce l' incondizionata preminenza dell'uomo nell'ente.
Se perciò il nichilismo viene concepito come "stato psicologico", significa che il nichilismo riguarda la posizione storica dell'uomo, in altri termini: il nichilismo come una forma della volontà di potenza.
La provenienza del nichilismo. Le sue tre forme
Quando si svalutano i valori supremi che conferiscono all'ente il suo valore, anche l'ente che su di esso si fonda perde il suo valore. Nasce allora il sentimento che tutto sia privo di valore. Nei primi tre capoversi del brano n. 12, sezione A, N., domandando dell'essenza del nichilismo, nomina tre condizioni della sua "provenienza". Il nichilismo subentra, scrive N., "in primo luogo, se abbiamo cercato in tutto l'accadere un "senso" che in esso non c'è: sicchè alla fine chi cerca perde il coraggio". Per "senso" si intende lo "scopo" di ogni agire. Egli ne enumera alcuni: "l'ordine morale del mondo", "l'accrescimento dell'amore", "l'avvicinamento a uno stato universale di felicità". Ma anche: "il dirigersi verso uno stato universale del nulla": il nulla è pur sempre uno scopo, volere-nulla consente ancor sempre al volere di volere. N. ha più volte sottolineato che il fatto fondamentale della volontà umana è l'orrore del vuoto del non volere, che essa preferisce essere volontà del nulla piuttosto che non volontà. Ora, però, tutti questi "scopi" nella storia dell'uomo non sono mai stati raggiunti; di qui, la perdita di valore dello "scopo", come valore supremo preposto al divenire, e la conseguente trasformazione del rapporto dell'uomo con l'ente e con se stesso.
"In secondo luogo", il nichilismo subentra "quando si è postulata una totalità, una sistematizzazione e addirittura un'organizzazione in tutto l'accadere e alla sua base", che non si realizza. Come valore supremo viene ora postulata una "unità" per l'ente nel suo insieme; l'uomo ne ha bisogno "per poter credere nel proprio valore". Se tale credenza viene delusa, matura la cognizione che con tutto l'agire non si ottiene nulla; il divenire appare senza meta e quindi irreale. Per salvare questo "irreale" e assicurare all'uomo un proprio valore, viene allora postulato, al di sopra del divenire, un "mondo vero", non toccato da nessun cambiamento e da nessuna delusione. Ciò avviene, tuttavia, a spese del mondo "sensibile", che è svalutato. Ne deriva "una terza e ultima forma di nichilismo", che nasce quando l'uomo si accorge che il "mondo vero" è stato "fabbricato solo in base a bisogni psicologici". Il nichilismo diviene ora l'esplicita "incredulità per un mondo metafisico". Il mondo del divenire si mostra, al contrario, come l'unica realtà; tuttavia, "non si sopporta questo mondo che pure non si vuole negare".
Le tre forme menzionate di nichilismo - cercare un "senso", postulare una "unità" e l'ascesa a un mondo "vero"- hanno fra loro un'intima relazione, e, insieme, costituiscono una storia.
Nella proposizione conclusiva della sezione A, N. afferma:
"Insomma: le categorie "scopo", "unità", "essere", con le quali avevamo introdotto un valore nel mondo, ne vengono da noi nuovamente estratte - e ora il mondo appare privo di valore.."
Occorre delucidare tale proposizione, e precisamente secondo due riguardi, prima di mostrare come vada intesa, in conformità con essa, l'intera sezione A.
I valori supremi come categorie
N. chiama i valori supremi "categorie", senza peraltro darne una spiegazione. Questo termine, dal greco kategorèin, ha il significato di una chiamata che rende manifesta una cosa per quello che è. L'aspetto, ciò in cui un ente si mostra per quello che è, si dice èidos, o idèa. In questa accezione, la parola kategorìa viene adoperata anche da Aristotele, che la eleva al rango di un nome filosofico, ossia più originario ed essenziale. Da Aristotele in poi, la categoria acquisisce il significato di chiamata fondamentale dell'ente in quanto tale, una chiamata tale da dire in quale carattere d'essere (la "sostanza", la "qualità", la "relazione"), l'ente nominato si mostra. Di conseguenza, le categorie sono le parole filosofiche fondamentali, che presiedono al nostro quotidiano rapportarci all'ente, del tutto essenziali, nonostante la maggioranza degli uomini e l'intelletto comune ne ignorino l'esistenza.
Le categorie sono riconosciute espressamente dal pensiero razionale, filosofico (in termini aristotelici, dal logos apofantikòs). Da Aristotele, a Kant e a Nietzsche, sia pure in forme diverse, viene colta la relazione fra la ragione giudicante e l'ente in quanto tale, che nelle categorie mostra la sua articolazione. Per quanto riguarda N., il fatto che chiami "categorie" i "valori cosmologici", ossia le supreme determinazioni dell'ente, mostra quanto decisamente egli pensi nella traiettoria della metafisica. Che poi, concependo le categorie come "valori", esca da tale traiettoria e si possa definire "antimetafisico", oppure, portando la metafisica alla sua fine definitiva, diventi l'ultimo metafisico, lo si potrà stabilire solo con il chiarimento del concetto nietzscheano di nichilismo.
La seconda cosa che si rende necessaria per delucidare la proposizione conclusiva della sezione A, è l'indicazione del mondo in cui qui N., riassumendo, chiama le tre categorie. Invece di "senso", egli dice ora "scopo"; invece di "totalità", "unità"; invece di "verità" e di "mondo vero", "essere". Che egli, di nuovo, non dia una spiegazione di ciò, non deve stupirci, poichè non ci troviamo di fronte ad un capitolo di un libro destinato al "pubblico", ma al soliloquio di un pensatore. Piuttosto, sottolineiamo il fatto che N. concepisca la "verità" come categoria di ragione, ed equipari la "verità" a "essere". In questo vi è qualcosa di essenziale per il chiarimento della sua posizione metafisica di fondo, nella quale l'esperienza del nichilismo ha la sua radice.
Il nichilismo e l'uomo della storia occidentale
Nella proposizione conclusiva della sezione A, dove si dice che i valori supremi, introdotti nel "mondo", vengono nuovamente "estratti", emerge un altro atteggiamento. Non si tratta più soltanto della genesi del nichilismo e della descrizione del suo decorso; in questa posizione e deposizione dei valori, noi, che apparteniamo alla storia dell'Occidente, siamo attivi e compartecipi. Il nichilismo, dunque, non è solo il processo di svalutazione dei valori supremi, è anche l' "estrazione" dei valori, la loro eliminazione attiva, che scaturisce dalla necessità di dare al mondo un senso e una pienezza.
Un ulteriore sguardo d'insieme alla sezione A, ci permette di cogliere, nei suoi tratti essenziali, la storia del nichilismo, che ha una qualche corrispondenza con la storia "reale". Ad esempio, nel terzo capoverso, N., parlando di un "mondo vero", si riferisce alla metafisica di Platone e al cristianesimo, interpretato come "platonismo". Nel secondo, si può cogliere il riferimento alla dottrina di Parmenide, in quanto postula una "unità" per l'ente nel suo insieme. Per la prima forma del nichilismo, quale è evocata nel primo capoverso, invece, non può essere trovata nessuna esplicita testimonianza storica, in quanto si tratta della condizione di fondo della possibilità del nichilismo, che quindi domina la sua intera storia.
La nuova posizione di valori
Ciò che nella sezione B si richiede e a cui si invita, è il tentativo esplicito e consapevole di svalutare i valori supremi e di deporli. Ora il nichilismo non è più un processo a cui assistiamo da spettatori, ma si rivela essere la storia della nostra epoca, dalla quale siamo sollecitati. Ora, poichè la svalutazione che si compie comporta un cambiamento dell'ente nel suo insieme, essa è anche il cammino verso un nuovo principio della posizione di valori, per il quale diviene necessario che si realizzino e si diffondano una nuova consapevolezza e un nuovo sapere circa l'origine e l'essenza dei valori. In tal modo il nichilismo diventa classico; la consapevolezza, il calcolo e il "ricalcolo" psicologico" lo contraddistinguono, come si evince dalla proposizione conclusiva della sezione B:
"- tutti questi valori sono, ricalcolati dal punto di vista psicologico, risultati di determinate prospettive di utilità per il mantenimento e il potenziamento di forme di dominio umane: e solo falsamente sono proiettati nell'essenza delle cose. L'iperbolica ingenuità dell'uomo è ancor sempre il postulare se stesso come seso e misura del valore delle cose..".
Con ciò è detto che i valori hanno il loro fondamento in "forme di dominio"; in altri termini, sono riferiti alla volontà di potenza, da cui traggono l'origine e l'ambito di validità.
Partendo dalla sezione conclusiva del brano n. 12, la prima parte di esso, ove si delinea una "storia" del nichilismo, ci appare ora come la fase preliminare di una "nuova" posizione di valori, in modo tale da esperire il nichilismo più estremo non come declino (Niedergang), ma come trapasso (Uebergang) a nuove condizioni di esistenza. Questa visione del nichilismo è stata fissata da N., all'epoca della stesura del brano n. 12, anche in un altra annotazione:
"In determinate circostanze sarebbe segno di crescita incisiva ed essenzialissima, di trapasso a nuove condizioni di esistenza, il fatto che venisse al mondo la forma estrema di pessimismo, il vero e proprio nichilismo". (La volontà di potenza, n. 112).
Il nichilismo come storia
La riflessione sul concetto nietzscheano del nichilismo, fin qui svolta, può essere fissata nelle due tesi seguenti:
1) Il nichilismo è la storia della svalutazione dei valori supremi finora validi come trapasso alla loro trasvalutazione;
2) L'essenza del nichilismo è concepita unicamente in base al principio del valore. E poichè la posizione di valori è fondata sulla volontà di potenza, il superamento del nichilismo si sviluppa in una interpretazione dell'ente nel suo insieme come volontà di potenza.
La nuova metafisica di N. è, dunque, metafisica della volontà di potenza, in un duplice senso. Da un lato, la volontà di potenza costituisce l' "oggetto" proprio di tale metafisica; dall'altro, determinando essa il carattere complessivo dell'ente, ne è anche il fondamento e quindi il "soggetto". Pertanto, la volontà di potenza è il soggetto e l'oggetto della metafisica dominata dal pensiero del valore.
Il nichilismo, per N., non solo "ha" una storia, ma "è" storia, poichè contribuisce a formare l'essenza della storia occidentale, determinandone la logica interna, la "legalità" delle posizioni metafisiche di fondo. La visione del nichilismo non consiste perciò nella conoscenza dei fenomeni storiograficamente presentabili, ma nel capire i passi e i gradi intermedi dell'incipiente svalutazione sino alla necessaria trasvalutazione.
N. ha descritto una pienezza essenziale del nichilismo, articolata in una molteplicità di forme. Una forma preliminare di nichilismo è data dal pessimismo, che consiste nella credenza che si sia nel peggiore dei mondi, e che la vita non valga la pena di essere vissuta. Tale pessimismo è ambiguo: da una parte esso è espressione della forza, guarda lucidamente all' origine dei giudizi di valore e indaga sulla fonte dei nuovi giudizi; dall'altra parte, deriva dalla debolezza, vede ovunque il lato tetro e il decadimento, che cerca di "comprendere" in termini storiografici: per tutto ciò che accade trova una corrispondenza già accaduta.
Da questo pessimismo, che cerca di sostituire i vecchi valori con altri, quali il "socialismo", la "musica wagneriana", o forme non dogmatiche di cristianesimo, senza peraltro modificarne il "posto" - il soprasensibile -, deriva il nichilismo "incompleto", che è, in realtà, come scrive N., un tentativo "di sfuggire al nichilismo senza trasvalutare quei valori" (La volontà di potenza, n. 28).
Da questo stato intermedio, nasce il "nichilismo estremo", che enuncia che non c'è alcuna verità in sè. Anch'esso, è caratterizzato dall'ambiguità:
"A) Nichilismo come segno della cresciuta potenza dello spirito: il nichilismo attivo.
B) Nichilismo come declino e regresso della potenza dello spirito: il nichilismo passivo" (Ibidem, n. 22).
Il nichilismo attivo riconosce la verità come una forma della volontà di potenza, e si trasforma, quindi, nel nichilismo classico. E poichè riconosce la volontà di potenza come carattere fondamentale dell'ente, non è mera "contemplatività", ma il no dell'azione: il nichilismo classico è perciò anche l' "ideale della suprema possanza" [VII, II, 15].
Ora, la suprema possanza del nichilismo sgombera lo spazio (rauemt...aus), e, al tempo stesso, concede spazio (rauemt...ein) a nuove possibilità, aprendo la strada a un nuovo ordine. N. lo definisce "nichilismo estatico" e afferma che, in quanto esso non riconosce niente all'infuori e al di sopra di sè, potrebbe "essere un modo di pensare divino" (Ibidem, n. 15).
Posizione di valori e volontà di potenza
Il nichilismo come storia delle posizioni di valori può essere capito soltanto se la posizione di valori è riconosciuta nella sua necessarietà metafisica. Pertanto, il peso maggiore delle nostre riflessioni si sposta ora sulla seconda tesi, che consiste nel concepire il nichilismo in base al pensiero del valore. Tale pensiero è una componente fondamentale della metafisica della volontà di potenza, che si afferma soltanto con la filosofia di N., e che rappresenta una svolta decisiva della metafisica.
Data la necessarietà di questa svolta, la domanda della provenienza del pensiero del valore diventa la domanda dell'essenza del valore e, a pari titolo, dell'essenza della metafisica. N. stesso ha formulato questa domanda, e le ha dato anche risposta. Nella sezione conclusiva del brano n. 12, egli enuncia, infatti, la connessione tra posizione di valori e volontà di potenza, ribadita anche nel brano n.14: "I valori e la loro trasformazione stanno in rapporto con la crescita di potenza di chi pone i valori".
Nel brano 715, N. definisce, inoltre, che cosa intenda per "valore":
"Il punto di vista del "valore" è il punto di vista di condizioni di conservazione, di potenziamento rispetto a forme complesse di relativa durata di vita entro il divenire".
La risposta di N. è, dunque: i valori sono posti dalla volontà di potenza; il "valore" è un "punto di vista" e, in quanto tale, non è qualcosa che vale in sè, ma è posto da un mirare a qualcosa che soltanto mediante questo mirare riceve il carattere di valore. Ma N. afferma anche che i valori sono le condizioni di "conservazione" e di "potenziamento" poste dalla volontà di potenza. Per il reale che ha il carattere della volontà di potenza, infatti, c'è bisogno di quei valori che assicurino la sussistenza nella sua stabilità, e, al tempo stesso, delle condizioni che garantiscano un "oltre sè", un potenziamento.
La volontà di potenza è, in questo senso, un guardare "mirando a" e un "guardare oltre" (aus- und hinausblicken), di qui il suo carattere "prospettico". E poichè essa, con il necessario intreccio di conservazione e di potenziamento, determina l'ente in quanto tale, quest'ultimo risulta a sua volta un intreccio di prospettive e di posizioni di valori, al tempo stesso stabile e instabile. In tal senso, N. parla, nel brano n.715, di "forme complesse di relativa durata di vita entro il divenire".
I valori, dunque, sono "punti di vista", "quanti" di potenza, solo entro il divenire; il divenire stesso, vale a dire il reale nel suo insieme, è al di fuori di qualsiasi valutazione, per questo "non ha alcun valore". "Il valore complessivo del mondo non è valutabile, e quindi il pessimismo cosmologico rientra tra le cose comiche", scrive N. nel brano n. 708. Questa tesi è pensata coerentemente nel senso della metafisica della volontà di potenza, che esclude che i valori siano qualcosa di valido in sè, al di sopra dell'ente nel suo insieme.
Con ciò, tuttavia, non si è ancora chiarita la questione dell'origine del pensiero del valore, e del perchè tale pensiero diventi dominante nella metafisica.
La soggettività nell'interpretazione nietzscheana della storia
Con la filosofia di N., che porta in primo piano il pensiero del valore, si afferma parimenti la convinzione che anche tutta la metafisica precedente sia dominata da questo pensiero, e quindi sia storia delle posizioni di valori. Ma quando N. parla delle categorie di ragione come fossero i valori supremi, interpreta le determinazioni dell'ente nell'orizzonte della volontà di potenza, ossia della sua metafisica, e, quindi, va facilmente incontro all'obiezione di soggettività e unilateralità. Tuttavia, va detto che ogni considerazione della storia è sempre determinata dal presente, e quindi non è mai "assoluta" ed "oggettiva". Inoltre, tale obiezione ha bisogno di essere fondata su di un piano non meramente storiografico. Occorre mostrare che il pensiero del valore doveva rimanere estraneo alla metafisica precedente, poichè quest'ultima non poteva ancora concepire l'ente come volontà di potenza. In tal modo, dobbiamo imbatterci nella domanda sulla più profonda origine del pensiero del valore, a cui N. non dà ancora, nè può dare, una risposta.
N. afferma solo che i valori sono condizioni della volontà di potenza, ma non si chiede dove scaturisce il progetto dell'ente nel suo insieme che fa vedere quest'ultimo come volontà di potenza. Solo con questa domanda pensiamo alla radice dell'origine della posizione di valori entro la metafisica.
Cerchiamo di dimostrare che prima di N. il pensiero del valore era, e non poteva non essere, estraneo alla metafisica, ma che tuttavia fu preparato attraverso la metafisica nelle epoche prima di N.. Dobbiamo prima, però, raffigurarci l'interpretazione nietzscheana della storia della metafisica, e domandare quale forma di volontà di potenza era all'opera per la prima postulazione dei valori finora supremi.
L'interpretazione "morale" della metafisica in Nietzsche
N. pensa la morale in riferimento all'ente nel suo insieme, e, quindi, in termini metafisici. Da un lato, però, intende per morale ogni sistema di giudizi di valori e di "rapporti di potere" sotto i quali, come scrive in Al di là del bene e del male, "prende origine il fenomeno "vita" " (af. n. 19); dall'altro, "morale" significa invece quel sistema di valori che si identifica nel platonismo e nel cristianesimo. In questo senso, la morale è quella dell' "uomo buono", la cui volontà si assoggetta al mondo soprasensibile e ad ideali che sussistono in sè.
Questa forma di volontà, che si configura come una sorta di impotenza dell'uomo ad avere potenza, è, tuttavia, soltanto un caso speciale della volontà di potenza. L' "uomo buono" non sa che quei valori, ai quali si sottomette, non sono che le condizioni della volontà di potenza poste dalla volontà di potenza stessa. In ciò consiste la sua "ingenuità iperbolica", cui si accenna nella conclusione del brano n. 12:
"L'iperbolica ingenuità dell'uomo è ancor sempre il postulare se stesso come senso e misura del valore delle cose".
L'"ingenuità" non sta nel fatto che l'uomo ponga i valori e postuli se stesso come misura e senso, e quindi antropomorfizzi l''ente, bensì nel non sapere che è lui a farlo. Di tale ingenuità l'uomo rimane prigioniero, fintanto che non acquista coscienza della antropomorfizzazione, e non la mette in atto consapevolmente. In ciò consiste la trasvalutazione, che deriva dalla cognizione dell'origine dei valori. In un brano della Volontà di potenza, che risale al 1888, N. ha così riassunto il nuovo compito dell'uomo:
"Tutta la bellezza e la sublimità da noi prestata alle cose reali e immaginarie voglio rivendicarla come proprietà e prodotto dell'uomo: come la sua più bella apologia. L'uomo come poeta, come pensatore, come Dio, come amore, come potenza: oh, dimentico della regale generosità con cui ha donato alle cose, per impoverirsi e per sentirsi miserabile! E' stato questo finora il suo più grande disinteresse, di aver ammirato e adorato e saputo nascondersi di essere stato lui a creare ciò che ha ammirato".
L'uomo che deve reclamare tutto per sè come proprio, è l'uomo che sa di essere volontà di potenza, e, in tale consapevolezza si erge dinanzi all'ente nel suo insieme fino all'incondizionato dominio. L'uomo di questo dominio è il superuomo (Ueber-Mensch), ossia l'uomo che si dispone come il centro dell'ente. Nella metafisica, così come N. la interpreta, è quindi decisiva l'antropomorfizzazione dell'ente; questa metafisica, come nessuna precedente, spinge l'uomo nel ruolo di misura unica e incondizionata di tutte le cose.
Metafisica e antropomorfismo
Il richiamo alla soggettività dell'uomo non è proprio solo della metafisica di N., ma è il tratto distintivo della metafisica dell'età moderna. Con il cogito cartesiano, infatti, la coscienza delle cose e dell'ente nel suo insieme viene ricondotta all'autocoscienza del soggetto umano, quale fondamento di ogni certezza. Ma il ruolo determinante dell'uomo è evidenziato anche nella filosofia antica, dal momento che già Protagora insegna che l'uomo è la misura di tutte le cose. Questi riferimenti, tuttavia, non autorizzano a ritenere che tutta la storia della metafisica affermi senza riserve il dominio incondizionato dell'uomo. Per chiarire questo punto, occorrerà pensare a fondo le dottrine di Protagora e di Descartes.
In Descartes, nel contesto di una liberazione dell'uomo dai vincoli della tradizione cristiana, la questione del "metodo", ossia la ricerca della via per la determinazione della verità, è riferita esclusivamente all'uomo e alle sue sole forze. (Prima di lui, con il cristianesimo, la verità aveva, invece, il carattere vincolante della "dottrina" della Chiesa). Nell'affermazione ego cogito, ergo sum, si esprime un primato dell'io umano: l'uomo diventa la misura e il fondamento, da lui stesso posti, di ogni certezza e verità.
Ora, solo nella sua forma generale questa tesi è analoga al detto di Protagora, che, in realtà, dice qualcosa di ben diverso. Solo la diversità delle concezioni dei due filosofi ci permette di penetrare con lo sguardo lo Stesso che è da loro detto, e di arrivare a capire l'origine della metafisica nietzscheana e del pensiero del valore.
La tesi di Protagora
Secondo la traduzione corrente il detto di Protagora significa: "Di tutte le cose misura è l'uomo, di quelle che sono, del fatto che sono, di quelle che non sono, del fatto che non sono". Verrebbe da credere che qui stia parlando Descartes, e che vi si affermi che l'uomo, concepito con i caratteri dell' "io", determini l'ente in quanto tale. Cadremmo nondimeno in una illusione, se supponessimo una omogeneità delle posizioni metafisiche di fondo in base a una certa uguaglianza delle parole e dei concetti.
Per distinguere il detto di Protagora dalla tesi di Descartes, evidenzieremo quattro riguardi,mediante i quali si definisce l'essenza di una posizione metafisica di fondo:
1) l'essere-sè (Selbstheit) dell'uomo; 2) il concetto dell'essere; 3) l'essenza della verità; 4) il modo della "misura". Nessuno di questi momenti può essere concepito separatamente dagli altri, ma ciascuno, rispettivamente sotto un riguardo, connota già l'insieme.
Ora, la tesi di Protagora si riferisce all' "io" dell'uomo nel contesto di un pensiero che concepisce ciò che è presente come ciò che permane nella svelatezza dell'ente. Ciò implica, al tempo stesso, il riconoscimento di una velatezza e l'ammissione di una indecidibilità in merito all'aspetto dell'ente puro e semplice. (Per questo Protagora diceva: "Molte sono infatti le cose che impediscono di percepire l'ente in quanto tale; sia la non evidenza [cioè velatezza] dell' ente, sia la brevità della storia dell'uomo"). L' uomo, dunque, diventa "io" mediante la limitazione allo svelato circostante, non mediante uno svincolo dai limiti tale che diventi, come nel caso del soggetto cartesiano, centro e misura di tutto il rappresentabile. Egli è misura (Mass), in quanto fa sì che la moderazione (Maessigung), che si attiene alla cerchia dello svelato, diventi il tratto fondamentale della sua essenza.
Quindi, se pensiamo ai quattro riguardi che determinano l'essenza della metafisica, si può ora affermare che, per Protagora:
1) L' "io" è determinato dalla limitata appartenenza alla regione dello svelato; 2) l'essere ha il carattere della presenza; 3) la verità è esperita come svelatezza; 4) la "misura" ha il senso della moderazione della svelatezza.
Il dominio del soggetto nell'età moderna
Come si arriva alla postulazione del dominio del "soggetto" propria dell'età moderna? La determinazione dell'uomo come "soggetto", in effetti, non è così univoca come l'impiego corrente di questo concetto vorrebbe farci credere. Fino alla metafisica di Descartes, e ancora in seno ad essa, il termine sub-iectum, traduzione latina del greco upo-keìmenon, significa ciò che in un senso eminente sta già sempre dinanzi ed è in tal modo fondamento, e non include necessariamente l'uomo.
All'inizio della metafisica moderna, la tradizionale domanda-guida della filosofia che chiede che cosa è l'ente, si trasforma nella domanda del metodo, della via per la quale, da parte dell'uomo e per l'uomo, viene cercato qualcosa di assolutamente certo. Ciò avviene nel contesto della "liberazione" dalla verità rivelata biblico-cristiana; l'uomo mette ora, al posto della certezza della salvezza, la certezza di se stesso. Ogni liberazione genuina non è, però, soltanto uno spezzare le catene, ma è, prima ancora, una nuova determinazione dell'essenza della libertà. La liberazione dalla fede nella rivelazione reclama ora qualcosa di necessario, e lo reclama in modo tale che l'uomo, da sè, pone di volta in volta questo qualcosa di necessario e di vincolante. A questa nuova libertà da parte dell'uomo appartiene il farsi signore, e per questo la potenza, intesa come volontà di potenza, diventa metafisicamente possibile. Dunque, solo nell'età moderna (nell'età cioè che è stata indirettamente preparata dall'uomo cristiano orientato alla certezza della salvezza), l'uomo tenta di porsi come centro e misura in posizione dominante; a tal fine è necessario che egli si assicuri sempre più delle proprie capacità e dei suoi mezzi di dominio. Tale età trova nella metafisica di Descartes, che ha fondato la libertà dell'uomo quale autolegislazione di se stessa, l'inizio decisivo.
Il "cogito" di Descartes come "cogito me cogitare"
Con Descartes la determinazione della verità diviene "certezza", la cui essenza si fa trasparente con la tesi-guida: ego cogito (ergo) sum. Tale tesi-guida, tuttavia, non può essere interpretata secondo rappresentazioni qualsiasi, ma pone essa stessa le condizioni della sua comprensione. Partendo da essa tentiamo una meditazione sulla metafisica che si avvia con Descartes, e che N. pensa nel compimento storico essenziale.
Con Descartes la determinazione della verità diviene "certezza", la cui essenza si fa trasparente con la tesi-guida: ego cogito (ergo) sum. Tale tesi-guida, tuttavia, non può essere interpretata secondo rappresentazioni qualsiasi, ma pone essa stessa le condizioni della sua comprensione. Partendo da essa tentiamo una meditazione sulla metafisica che si avvia con Descartes, e che N. pensa nel compimento storico essenziale.
Ego cogito (ergo) sum. Generalmente traduciamo cogitare con "pensare", ma al fine di comprendere adeguatamente questo concetto, va osservato che Descartes, in passi importanti, adopera al posto di cogitare la parola percipere (per-capio), ossia prendere possesso di qualcosa, nel senso del fornirsi (Sich-zu-stellen) che ha il carattere del porsi-dinanzi (Vor-sich-stellen), del rap-presentare (Vor-stellen). In ciò è insito il concetto che il rappresentato è fornito per l'uomo in modo tale che è posto al sicuro, senza ripensamenti nè dubbi.
In ogni cogitatio, ciò che è rappresentato, è, dunque, fissato e posto al sicuro da colui che rappresenta. Per questo Descartes dice che ogni ego cogito è cogito me cogitare: ogni rappresentare è un rappresentar-"si". Ciò significa che colui che rap-presenta, porta il rap-presentato dinanzi a sè, lo costituisce in modo essenziale entro il rap-presentare stesso.
In altri termini: la coscienza umana non si aggiunge alla coscienza delle cose, ma è, per essenza, autocoscienza, e soltanto come tale è possibile la coscienza di og-getti (Gegen-staende), di cui l'autocoscienza costituisce il fondamento. In tal senso essa è il sub-iectum.
Nella tesi di Descartes l'essenza del rap-presentare sposta il proprio peso sull'uomo che decide; ma parimenti si annuncia per che cosa il soggetto è il sub-iectum: vale a dire per i compiti primi della metafisica e per l'essenza della verità. Ciò viene enunciato nella tesi che dice: "Haec cognitio, ego cogito, ergo sum, est omnim prima et certissima, quae cuilibet ordine philosophanti occurrat". ("Questa cognizione "io rappresento, dunque sono" è di tutte la prima [per rango] e la più certa che capiti a chiunque pensi metafisicamente con ordine [in conformità con l'essenza]" ).
Il "cogito sum" di Descartes
Dopo aver delucidato l'essenza della cogitatio, tentiamo ora una interpretazione della tesi di Descartes. Il modo in cui è espressa, che la fa apparire come la conclusione di un sillogismo (ergo sum), la porta ad essere facilmente fraintesa. Ma l' "ergo" non può essere qui il connettore di due parti di un sillogismo, poichè il "sum", l' io sono, è posto dall'essenza stessa della cogitatio. Infatti, l'io sono, in quanto colui che rap-presenta, è fornito al rap-presentare in modo tale da superare la sicurezza di qualsiasi sillogismo. L' "ergo", quindi, esprime una implicazione immediata, non una conclusione. Io rappresento, "e ciò implica" l'io in quanto essente: è la coappartenenza di ciò che, per essenza, è coappartenente e posto al sicuro nella sua coappartenenza. La tesi, allora, espressa nel modo più rigoroso, suona: cogito sum.
In questa forma, essa esprime una connessione tra cogito e sum, dice che io sono in quanto colui che rappresenta, e che non soltanto il mio essere è deciso da questo rappresentare, ma anche l' essere di ciò che è rappresentato. Il rap-presentare, che per essenza è rap-presentato a se stesso, pone dunque l'essere come rappresentatezza e la verità come certezza. Ciò a cui tutto viene riportato come al fondamento incontrovertibile è il soggetto, l'autentico subiectum, fornito nell'ambito della cogitatio e per mezzo di essa.
In questo senso, Descartes dà alla sua tesi anche la formulazione: sum res cogitans, la cui corretta interpretazione non vuol dire: sono una cosa dotata della proprietà del pensiero, ma: sono un ente il cui modo di essere consiste nel rappresentare, cosicchè questo rap-presentare pone nella rappresentatezza anche colui che rap-presenta.
Poichè, come si è visto, la tesi di Descartes afferma l'essere come rappresentatezza, e il soggetto dell'uomo come misura del rappresentato, con tale tesi è avviato il primo passo con il quale diventano metafisicamente possibili la tecnica dell'età moderna e, con essa, una nuova umanità. C'è infatti bisogno di un'umanità che sia adeguata all'essenza della tecnica moderna e che si lasci dominare interamente da essa, per l'instaurazione del dominio incondizionato sulla terra. Il superuomo nietzscheano rappresenta questo nuovo tipo di umanità.
Le posizioni metafisiche di fondo di Descartes e di Protagora
Possiamo ormai distinguere la posizione metafisica di fondo di Descartes rispetto a quella di Protagora secondo i quattro riguardi-guida summenzionati.
1) Per Descartes l'uomo è determinato nel suo essere come fondamento di ogni rap-presentare; in questo senso eminente è subiectum, di fronte al quale e per il quale tutto ciò che non è umano diviene l' oggetto. Per Protagora, invece, l'uomo di determina come sè mediante l'appartenenza a una cerchia dello svelato.
2) Per Descartes l'enticità dell'ente si identifica nella rap-presentatezza posta al sicuro nel rap-presentare del soggetto; l'enticità è l'essere rappresentato mediante e per il soggetto. Per Protagora è, invece, il presentarsi nello svelato.
3) Per Descartes la verità significa certezza del rappresentare che si rap-presenta e si assicura. In questa concezione il metodo acquisisce una particolare valenza metafisica: è il pro-cedere che pone al sicuro l'ente come oggetto per il soggetto. Per Protagora, verità è la svelatezza di ciò che è presente.
4) Per Descartes l'uomo è la misura (Mass) di tutte le cose nel senso dell'arroganza (Anmassung) del toglimento di ogni limite del rappresentare, che sottopone tutto ciò che è essente al calcolo del rap-presentare. Per Protagora l'uomo è la misura di tutte le cose nel senso della limitazione moderatrice alla cerchia dello svelato.
L'intento di questa contrapposizione è quello di rendere visibile, nella disuguaglianza apparentemente totale delle due posizioni, l'essenza unitaria e celata della metafisica per ricavarne un concetto più originario. Prima di fare questo, dobbiamo rammentare di nuovo la posizione metafisica di fondo di N.; lo faremo mediante una discussione della presa di posizione di N. nei confronti di Descartes.
La presa di posizione di Nietzsche nei confronti di Descartes
Le annotazioni più importanti in cui N. si occupa della tesi-guida di Descartes, fanno parte dei lavori preliminari alla Volontà di potenza, non essendo state incluse in essa dai curatori. Il rapporto di N. con Descartes, benchè avvenga sulla base di interpretazioni erronee da parte di N., è essenziale, poichè in relazione ad esso si determinano i presupposti metafisici della volontà di potenza. Benchè N. rifiuti il cogito cartesiano, sta sul fondamento della metafisica posta da Descartes.
In un primo momento, N., concordando con l'interpretazione corrente della tesi che la considera un sillogismo, obietta che essa farebbe uso di presupposti indimostrati, quali "essere", "certezza", "pensiero". Ora, questa obiezione non coglie nel segno, poichè, come si è visto, la tesi cartesiana non può essere presa per un sillogismo, ma la sua essenza, in quanto "principio" è tale che enuncia e determina subito i riferimenti interni di essere, certezza e pensiero.
N. avanza anche un'altra perplessità che sembra essere più essenziale. Egli, muovendo dalle posizioni "psicologiche" dell'empirismo inglese, secondo cui i concetti fondamentali scaturiscono da associazioni e abitudini mentali, ritiene che il pensiero debba essere la condizione dei concetti di "soggetto", "oggetto", "sostanza", mentre il filosofo francese, secondo N., sosterrebbe il movimento inverso: che l'"io" e il "soggetto" siano posti e assicurati come condizioni del "pensiero". Anche questa obiezione non coglie nel segno, perchè è proprio la tesi decisiva di Descartes che le "categorie" scaturiscano dall'essenza del pensiero in quanto cogito me cogitare. Di ciò il filosofo francese, anzi, dà una fondazione metafisica, laddove N., invece, si limita ad una spiegazione psicologica. N., senza accorgersene appieno, è d'accordo con Descartes nel pensare che "essere" voglia dire "fissatezza nel pensiero" e che "verità" significhi "certezza". Ma contesta che la tesi cartesiana sia una certezza immediata, ritenendo che la ricerca cartesiana di una certezza sia una "volontà di verità", del tipo: "non voglio essere ingannato", oppure "non voglio ingannare", oppure "voglio convincermi e rendermi saldo", come forme della volontà di potenza. E' che l'interpretazione cartesiana viene assunta da N. sul fondamento della sua dottrina della volontà di potenza. Il pensiero, di conseguenza, è visto in termini "economici": ciò che pensiamo è "vero" soltanto nella misura in cui serve alla conservazione della volontà di potenza. La tesi ego cogito, ergo sum è, allora, solo una "ipotesi" che fu assunta da Descartes perchè gli dava "più di tutte il sentimento della potenza e della sicurezza" (La volontà di potenza, n. 533).
Ciò non significa, tuttavia, che N. abbandoni i presupposti della metafisica cartesiana, tanto è vero che egli equipara "essere" a "rappresentatezza" e quest'ultima a "verità", termini che significano: "ciò che è fissato nel rappresentare e nel porre al sicuro". Ma egli nega che ciò che nel rap-presentare è rappresentato mostri qualcosa del reale stesso, in quanto il reale è divenire. Per N. la verità, in quanto fissa e impedisce il divenire, è un "errore necessario"; lo stesso concetto di "io", e quindi di "soggetto", è un'invenzione della "logica", e la logica è una forma di comando della volontà di potenza. Sennonchè, la contestazione del soggetto, nel senso dell'egoità della coscienza che pensa, è compatibile, nel suo pensiero, con l'incondizionata assunzione della soggettività, nel senso metafisico del subiectum, senso da lui ignorato.
Per N., infatti, ciò che sta a fondamento non è l' "io", bensì il "corpo": "Il fenomeno del corpo è il fenomeno più ricco, più chiaro, più comprensibile: da anteporre metodicamente, senza stabilire nulla sul suo significato ultimo" (La volontà di potenza, n. 489). Ma che la metafisica di N. si dispieghi come il compimento di quella di Descartes, solo che tutto viene spostato dalla regione della coscienza a quella degli istinti, si rivela in quell' "anteporre metodicamente": ciò significa che noi dobbiamo pensare in modo più chiaro e più concreto di Descartes, ma in tutto e per tutto solo nel suo senso.
La connessione interna delle posizioni di fondo di Descartes e di Nietzsche
La presa di posizione di N. nei confronti di Descartes ha mostrato che il primo misconosce la connessione interna tra la propria metafisica e quella di Descartes. La ragione della necessità di tale misconoscimento sta nella metafisica della volontà di potenza, come emergerà dall'osservazione comparativa delle tre menzionate posizioni metafisiche di fondo. Ma per comprendere lo Stesso che in esse domina, è bene ora distinguere la posizione di N. da quella di Descartes secondo i quattro riguardi-guida.
1) Per Descartes l'uomo è soggetto nel senso dell'egoità che rappresenta. Per N, è soggetto nel senso degli istinti e del corpo, inteso come filo conduttore metafisico.
2) Per Descartes l'essere è la rappresentatezza posta al sicuro nel soggetto. Anche per N. essere è rappresentatezza, ma l' "essere", in quanto è ciò che è fisso, non coglie l'ente vero e proprio, cioè il divenire. L'autentico carattere d'essere del reale è la volontà di potenza.
3) Per Descartes la verità è la fornitura sicura del rap-presentato entro il rap-presentare; essa è la certezza. Per N. la verità equivale al tenere-per-vero, di cui ha bisogno il vivente per la sua sussistenza.
4) Per Descartes l'uomo è la misura di tutto ciò che è nel senso dell'arroganza dello scioglimento del rap-presentare da tutti i limiti fino alla certezza che assicura se stessa. Per N. non solo il rap-presentato, ma ogni creare e formare, di qualunque specie, è prodotto e proprietà dell'uomo quale assoluto signore.
La metafisica moderna, che si basa sulla soggettività, induce facilmente all'erronea opinione che l'essenza della verità si determini per opera dell'uomo, e che il mutare delle posizioni metafisiche di fondo, dipenda dal mutamento dell' autocomprensione dell'uomo. Perciò a questo punto bisogna accennare al fondamento essenziale della storicità della storia della metafisica, che è una storia della verità dell'essere.
La determinazione dell'essenza dell'uomo e l'essenza della verità
La metafisica ha il fondamento nell'essenza della verità e nell'interpretazione dell'essere dell'ente; da ciò dipende anche l' interpretazione dell'uomo. La stessa soggettività, che caratterizza la metafisica moderna, si determina partendo dall'essenza della verità come "certezza", e dall'essere come rappresentatezza. (Nel trattato Essere e Tempo si è compiuto il tentativo di determinare l'essenza dell'uomo partendo dal suo riferimento all'essere, ed essa viene definita esser-ci [Da-sein] ).
Ma per determinare l'essenza dell'uomo è decisiva non solo la verità, ma anche la non-verità. Si prenda la filosofia di Descartes, in cui l'errore parla a vantaggio della soggettività. Infatti, la possibilità che l'uomo erri, significa certo una sua limitazione, ma è al tempo stesso la testimonianza del fatto che esso è libero, che è un essere che poggia solo su di sè.
In Hegel, nell'ulteriore sviluppo della metafisica, la non verità diventa uno stadio della verità, una unilateralità superata nell'incondizionato del sapere assoluto.
Per N. la verità è, nella sua essenza, errore. Ogni distinzione tra verità e non verità viene a cadere sotto la parola sovrana della volontà di potenza. Ciò che decide del vero e del falso, infatti, non è un qualcosa sussistente in sè, ma la "giustizia", che stabilisce unicamente in forza della propria potenza. In conformità con l'essenza della verità come "giustizia", la soggettività è davvero incondizionata, poichè dispone in modo incondizionato del vero e del falso.
Attraverso il mutamento dell'essere-uomo in soggetto, l'umanità moderna non riceve soltanto nuovi "contenuti", ma il corso stesso della storia diventa un altro.
La fine della metafisica
Sia per Hegel che per N. possiamo parlare di una "metafisica della soggettività incondizionata". Ma in Hegel essa è la metafisica della volontà che sa se stessa, cioè dello spirito come unità di sapere e volontà. Per N. la soggettività è in modo incondizionato in quanto soggettività del corpo e delle passioni, ossia della volontà di potenza. In ognuna di queste due figure rientra, in un ruolo rispettivamente diverso, l'essenza dell'uomo, che è definita tradizionalmente come "animale razionale". Nella metafisica di Hegel è la rationalitas che diventa determinante per la soggettività, in quella di N., invece, è l'animalitas. Alla fine della metafisica, dunque, troviamo la nietzscheana "bestia bionda", che non è una esagerazione occasionale, ma il termine distintivo di un contesto storico.
Parlare della fine della metafisica significa fare riferimento ad un attimo storico nel quale sono esaurite le possibilità essenziali della metafisica. A partire da quel momento, la storia trascorsa delle posizioni di fondo fornirà solo materiali da costruzione con i quali verrà costruito di nuovo il mondo del "sapere".
L'ultima delle possibilità della metafisica deve essere quella forma nella quale la sua essenza viene rovesciata. Questo rovesciamento viene attuato consapevolmente da Hegel e da N.. Il primo dice, infatti, che pensare nel senso del suo sistema significa fare il tentativo di camminare a testa in giù. Il secondo designa la sua filosofia come rovesciamento del "platonismo".
Parlare della fine della metafisica è però una decisione storica, in prossimità della quale ci conduce la meditazione sull'essenza più originaria della metafisica stessa. Questa meditazione è equivalente all'intellezione dell'essenza del nichilismo europeo, secondo la storia dell'essere.
Il rapporto con l'ente e il riferimento all'essere. La differenza ontologica
La comparazione delle tre posizioni metafisiche di fondo di Protagora, Descartes e N., ci ha preparati a domandare dello Stesso che le regge e le orienta. Questo Stesso è già stato messo in evidenza nominando i quattro riguardi che guidavano le comparazioni, miranti a: 1) alla maniera in cui l'uomo è se stesso; 2) al progetto dell'essere dell'ente; 3) all'essenza della verità dell'ente; 4) al modo in cui l'uomo prende e dà la misura per la verità dell'ente.
Ora, questi quattro riguardi stanno fra loro in una connessione interna, tale da delineare una struttura circoscritta, per cui ponendone uno, sono sempre già posti anche gli altri. Infatti: nell'essere se stesso dell'uomo è implicito che esso stia in una verità dell'ente, e precisamente l'ente che egli stesso è e quello che non è; ma tale verità deve svelare e presentare questo ente in ciò che è come ente, cioè nel suo essere, e quindi contenere un progetto dell'essere; e in quanto l'uomo si mantiene nel progetto dell'essere e sta nella verità dell'ente, deve o prendere la verità sull'ente come misura del suo essere sè, oppure, partendo dal suo essere sè, dare la misura per la verità dell'ente.
Domandiamo ora: che ne è di questa struttura rispetto al rapporto dell'uomo con l'ente? Tale rapporto, nel quale noi cerchiamo l'essenza più profonda della metafisica, non può risolversi nella relazione dell'uomo come soggetto all'ente come oggetto, relazione che è limitata alla storia moderna della metafisica.
La metafisica parla dell'ente in quanto tale, dunque dell'essere; vige perciò in essa un riferimento dell'uomo all'essere: tale riferimento è quello Stesso che è già esperito, quantunque in modo inespresso, nei quattro riguardi summenzionati. Nondimeno, la domanda se, e come, l'uomo si rapporti, non solo all'ente, ma all'essere dell'ente, rimane non domandata; come rimane non domandata la questione della relazione dell'uomo con la verità.
Noi stiamo in rapporto con l'ente, ma per esperire l'ente come ente ci appoggiamo necessariamente all'essere; in questa distinzione di ente e essere consiste la nostra essenza. E tuttavia essa è caratterizzata da una grande oscurità: la metafisica stessa scaturisce da tale distinzione, a cui però sfugge subito, lasciandola fuori dal suo ambito.
La distinzione tra ente ed essere si potrebbe chiamare più adeguatamente differenza (Differenz), per indicare che ente ed essere sono divergenti ma tuttavia riferiti l'uno all'altro. Chiamiamo onto-logia - guardando al significato greco della parola - la disciplina che nomina l'ente in quanto tale (tò on) nel logos; l' esperire e il concepire l'ente in quanto tale è reso possibile dalla "differenza ontologica" di essere e ente. Tale differenza è il fondamento ignoto, eppure reclamato, dell'ontologia e quindi di ogni metafisica.
Guardiamo ora alle diverse interpretazioni mediante le quali la metafisica pensa l'essere, per cercare di cogliere la provenienza della differenza ontologica. Già il nome con cui Platone indica l'essere, ci rivela come l'essere venga pensato in modo divergente rispetto all'ente. L'essere da Platone è chiamato ousìa, che vuol dire enticità, (Seiendheit), e significa quindi l'universale rispetto all'ente, che è il "particolare". In questa definizione nulla è detto dell'essenza dell'essere, si rende solo noto in che modo l'essere viene distinto dall'ente, ossia per astrazione da tutte le particolarizzazioni dell'ente. Ed essendo il concetto più astratto e generale, come tale non è ulteriormente definibile: infatti, un eventuale predicato dell'essere dovrebbe essere ancora più universale, il che sarebbe contraddittorio.
Nondimeno, la differenza ontologica viene alla luce all'interno della metafisica, in un tratto essenziale che domina tutte le posizioni di fondo. L'essere viene pensato come l' "a priori", il "prius", ossia il precedente. Il termine prius è la traduzione del greco pròteron; di tale pròteron trattano esplicitamente Platone e Aristotele.
L' essere come "a priori"
La distinzione di essere ed ente forma l'impalcatura della metafisica. Nell'interpretazione dell'essere come l' a priori, e nelle differenti versioni dell' apriorità, conseguite nelle singole posizioni metafisiche di fondo, è insito un filo conduttore per definire più precisamente il ruolo che svolge tale distinzione.
Ci avvicineremo alla questione con un esempio. Se, comparando due cose uguali, ne constatiamo l'uguaglianza, quale risposta daremo alla seguente domanda: l' uguaglianza deve essere nota in precedenza, deve venire prima delle cose uguali, affinchè noi le possiamo percepire come tali, oppure, viceversa, l'uguaglianza è costatata dopo, viene "astratta" dalle cose uguali precedentemente percepite? Dai Greci ci viene una chiara risposta: le cose uguali sono precedenti all'uguaglianza, pròteron pròs emàs, ossia in riferimento a noi e al nostro percepire. Nella successione del nostro conoscere, quindi, gli enti vengono prima dell'essere. Ma l'essere, in quanto è determinato da esso stesso, e non è visto in riferimento a noi, (essere che i Greci hanno concepito come physis, ossia lo schiudersi-da-sè, il porsi-nella-schiusura) è il pròteron rispetto all'ente.
Il pròteron ha dunque un senso duplice: 1) pròs emàs - secondo l'ordine della successione cronologica nella quale noi cogliamo l'essere e l'ente; 2) tè physis - secondo l'ordine in cui l'essere e l'ente sono.
Platone e Aristotele interpretano la physis come ousia: presenza dello stabile nello svelato. L'essere, in quanto presenza nello svelato, "è" prima che noi, nella nostra percezione, osserviamo e pensiamo gli enti. L'essere è ciò che è per essenza in vista, e in modo tale da concedere la visibilità (Sichtbarkeit) agli enti. Per questo Platone dice che l'essere è idèa, cioè visività (Sichtigkeit). L'idèa è ciò che conferisce l'essere ai rispettivi enti, perciò è l'ente vero e proprio, l'òntos ov; le singole cose sono invece il mè on, l'ente al quale è negata la piena caratterizzazione di ente. Le "idee" sono proteròn tè physis, ciò che per prima viene alla luce, ed è pre-cedente (Vor-herige) in quanto essere presente.
Platone, mediante questa intepretazione, ha contraddistinto per la prima volta l'essere con il carattere dell' a priori; con lui comincia la metafisica, e il platonismo che caratterizza l'essenza della filosofia occidentale, anche là dove si fanno valere rovesciamenti e contromovimenti. Il pensiero di N. può essere considerato un unico e sovente discorde diverbio (Zwiesprache) con Platone. La stessa interpretazione nietzscheana dell'essere come valore è prefigurata da Platone, che concepisce l' idea somma come agathòn. Da tale concezione prende avvio la storia della metafisica.
L'essere come 'idèa', come 'agathòv', come condizione
Verso la fine del sesto libro della Repubblica, Platone tenta di chiarire il problema del conoscere ricorrendo all' "idea del bene". Quest'ultima, che trova la sua immagine corrispondente nel sole, dona la "visibilità" e la svelatezza, e costituisce l'essenza stessa dell'enticità, rendendo possibile l'ente in quanto tale. Mediante tale interpretazione platonica, pertanto, l'essere diventa ciò che rende idoneo l'ente a essere ente: l'essere si mostra nel carattere del rendere possibile, dell'essere condizione. Ora, anche N., concependo i valori come condizioni della possibilità della volontà di potenza, pensa l'enticità dell'ente come condizione, come agathòv, quindi in modo platonico. Ciò non significa che Platone pensi le "idee" come valori, ma che il pensare in valori, che si realizza nel compimento della metafisica, sia prefigurato al suo inizio.
L'interpretazione dell'essere come 'idèa' e il pensiero del valore
Con la concezione platonica dell'idea suprema come agathòv, si insinua nell'interpretazione dell'essere una peculiare ambiguità. Da una parte l'essere è stabilità, presenza e visività, dall'altra, è la condizione di possibilità dell'ente. Quindi, non appena si fa avanti l'ente stesso, reclamando a sè ogni comportamento dell'uomo, l'essere, pur conservando il carattere di apriorità rispetto all'ente, deve retrocedere. Inoltre, l'interpretazione dell'essere come idèa, contiene un riferimento al "vedere", ossia al conoscere dell'uomo. E' qui prefigurato il decisivo mutamento dell' idèa nella perceptio, vale a dire nel rap-presentare dell'uomo quale soggetto, che rende possibile il rap-presentato. L'essere diviene la condizione della possibilità del rap-presentato in quanto oggetto in vista di un soggetto. In questo passaggio, che avviene con Descartes e Kant, si attua la metafisica moderna. Il principio che l'essere sia rap-presentatezza dell'oggetto, ossia condizione della sua possibilità, è affermato esplicitamente da Kant, nell'orizzonte dell' ego cogito cartesiano. In tal modo è spianata la via affinchè si sviluppi, nella metafisica di N., il pensare per valori.
Va tuttavia chiarito quest'ultimo passaggio, vale a dire come l'essere, divenuto "condizione della possibilità", giunga ad avere il carattere di valore. Certo, N. pensa l'essenza del valore come "condizione", ma nel concetto di valore non c'è soltanto questo. Nel "valore" sono pensati come tali ciò che è stimato (das Ge-schaetze) e il risultato della stima (das Er-schaetze). Lo stimare (Ab-schaetzen) implica il "contare" e del "calcolare", nel senso fondamentale del porre condizioni che determinino l'essere dell'ente, che ne rap-presentino la condizione della possibilità. In tal senso, il risultato dello stimare e la cosa stimata, in quanto condizione, hanno il carattere del "valore". Ciò avviene quando il contare e lo stimare si basano incondizionatamente su se stessi, quando il carattere fondamentale dell'ente è diventato di una essenza tale da esigere un siffatto contare incondizionato, ossia quando diviene manifesto il carattere essenziale dell'ente in quanto volontà di potenza.
Il progetto dell'essere in quanto volontà di potenza
La volontà di potenza non entra nella metafisica di colpo, sebbene non ve ne sia traccia nell' "idea" platonica, o nella perceptio cartesiana, o nella soggettività trascendentale kantiana. La provenienza storica va individuata nella metafisica della soggettività. E' in Leibniz che si apre una connessione tra l'enticità come soggettività e l'enticità come volontà di potenza, in quanto la soggettività diviene il fondamento dell'ente come oggettività (Objektivitaet, Gegegenstaendlichkeit), ma al tempo stesso anche dell'ente nella sua realtà effettiva (Wirklichkeit). Soltanto se pensiamo l'enticità come Wirklichkeit, si apre una connessione con Wirken (effettuare, operare) ed Erwinken (ottenere come effetto). Leibniz interpreta il subiectum, visto come vis primitiva activa, quale unità di perceptio e appetitus e mette in relazione tale vis primitiva activa con il concetto aristotelico di enèrgheia.
Con Leibniz l'ente diviene "soggettivo", nel senso di "rappresentante-appetente", e quindi efficace (wirk-sam). La sua filosofia ha influenzato l'idealismo tedesco, nonchè Schopenhauer, nella cui metafisica il giovane N. ha trovato i suoi primi sostegni. Ma che l'essere dell'ente diventi volontà di potenza non è la conseguenza del pensiero di N., ma proviene dalla verità dell'essere, dal rilucere della sua essenza che esige di attuarsi.
Dobbiamo tener presente anche come l'essere, in quanto volontà di potenza, scaturisca dalla determinatezza dell' "idea" e porti quindi in sè la distinzione di essere e ente, la quale, non domandata, forma l'orditura fondamentale della metafisica.
La distinzione di essere ed ente e la naura dell'uomo
In ogni nostro comportamento in rapporto all'ente noi stiamo sul sentiero di questa distinzione che ci porta dall'ente all'essere e dall'essere all'ente. E poichè Kant parla di "una disposizione naturale" dell'uomo alla metafisica, si potrebbe concludere che anche tale distinzione appartenga alla natura umana, poichè è da essa che scaturisce ogni metafisica. Sennonchè, in che consiste la "natura" dell'uomo? Potremo mai definirla senza considerare senza considerare la distinzione di essere e ente? E questa distinzione risulta dalla natura dell'uomo, oppure è la natura dell'uomo che si fonda su di essa? In questo secondo caso la distinzione non sarebbe collocabile in una "facoltà umana", secondo i canoni dell'antropomorfismo e del "biologismo" moderni. Quest' ultima è comunque la domanda decisiva, dalla quale dipende un concetto più originario della metafisica, e che rinvia al rapporto dell'uomo con l'essere. Ma per domandare rettamente tale domanda decisiva, dovremo prima esperire più chiaramente ciò che è chiamato "distinzione di essere ed ente".
L'essere come vuoto e come ricchezza
Una mentalità inveterata pensa l' "essere" come la più vuota e universale determinazione di tutte le cose. Ma noi lo pensiamo, nello stesso tempo, anche caratterizzato da una ricchezza ed una pienezza, in base alla quale tutto l'ente viene dotato del suo rispettivo essere.
L'essere ci si svela in una molteplicità di significati e aspetti contrapposti, la cui enumerazione allude alla loro connessione interna: l'essere è insieme ciò che è più vuoto e ciò che è più ricco, più universale e più unico, più comprensibile e che più si oppone a ogni concetto, più usato eppure ancora da venire, più affidabile e meno fondativo, più dimenticato e più rammemorante, più detto e più tacito.
Pensare l'essere in questo modo, ci conduce forse più facilmente sulla traccia della sua essenza. E tuttavia, queste opposizioni appartengono davvero all'essenza dell'essere, o non sono piuttosto proprie del modo in cui noi ci rapportiamo ad esso? Ci domandiamo inoltre se sia discorde anche il nostro rapporto con l'ente. Ma a quest'ultima domanda dobbiamo rispondere di no: per noi l'essere rimane qualcosa di indifferente, di inesperito, non prestiamo attenzione nemmeno alla distinzione di essere ed ente, che pure regge il nostro rapporto con l'ente. Questa indifferenza rispetto all'essere, in mezzo alla suprema passione per l'ente, è il contrassegno della nostra epoca, nella quale, con l'inizio del compimento della metafisica, può dispiegarsi, in modo incondizionato, il dominio sull'ente.
VI. La metafisica di Nietzsche
Introduzione
La metafisica è la verità dell'ente in quanto tale. Ciò che l'ente è in quanto tale (l'essentia, l'enticità); il fatto che esso è, il modo in cui è (l'existentia); la specie essenziale di verità e la sua storia - la verità, infatti, è storica -; l'umanità a cui la verità è affidata per la sua custodia; questi cinque caratteri definiscono l'essenza unitaria della metafisica.
La metafisica non è mai la veduta dei singoli pensatori, che sono chiamati alla salvaguardia della verità dell'essere. Essi sono i custodi della verità, definendo le loro posizioni metafisiche di fondo, assegnano a una umanità il suo posto nella storia della verità. Nella storia della metafisica l'essere è stato sì pensato fin dall'inizio, ma la sua verità è rimasta impensata, e il pensiero occidentale cela l'accadimento di questo rifiuto.
Con Aurora (1881), il cammino metafisico di N. si fa chiaro. A partire da questo momento vengono elaborati tutti i temi fondamentali del suo pensiero. "La volontà di potenza", "il nichilismo", "l'eterno ritorno", "il superuomo", "la giustizia" sono le cinque parole fondamentali della sua metafisica, ciascuna delle quali nomina contemporaneamente quello che dicono le rimanenti.
"La volontà di potenza" indica l'essere dell'ente in quanto tale, l'essentia. "Il nichilismo" nomina la storia della verità dell'ente così determinato. "Eterno ritorno dell'uguale" si chiama il modo in cui l'ente nel suo insieme è, l' existentia. "Il superuomo" designa l'umanità che viene richiesta. "Giustizia" è l'essenza della verità dell'ente come verità di potenza.
La seguente interpretazione della filosofia di N. deve innanzitutto ripensarne le concezioni in base ai tratti fondamentali della storia della metafisica. Essa mira a un fine prossimo e ad uno remoto. Il primo è la conoscenza dell'unità interna della metafisica di N.; il secondo, a cui sottostà il primo, consiste nel preparare il confronto reciproco della potenza dell'ente e della verità dell'essere, che caratterizza il compimento della metafisica.
La volontà di potenza
La volontà di potenza, per N., è il carattere fondamentale dell'ente in quanto tale. Ciò significa che la sua essenza può essere definita soltanto in termini metafisici, non psicologici. E che la stessa psicologia deve essere postulata in conformità con la volontà di potenza.
Nella seconda parte di Così parlò Zarathustra, nel brano intitolato "Del superamento di se stessi", N. scrive: "Ogni volta che ho trovato un essere vivente, ho trovato volontà di potenza; e anche nella volontà di colui che serve ho trovato la volontà di essere padrone".
"Essere vivente", "vita", sono termini per dire essere. Volere, afferma N., è voler-essere-signore. La volontà è appunto comando, ossia disporre delle possibilità dei modi e dei mezzi del produrre effetti. Chi comanda obbedisce a questo disporre, e obbedisce quindi a se stesso. Comandare è superamento-di-sè.
La potenza non è il fine della volontà, nel senso di qualcosa di esterno a essa. La volontà è già potenza. Potenza e volontà non sono due entità separate e solo successivamente composte; ma nemmeno equiparate semplicemente l'una all'altra. "Volontà di potenza" indica l'inseparabile semplicità di un'essenza unica e articolata. All'essenza della potenza appartiene il superpotenziamento di se stessa: la potenza è tale, infatti, solo se rimane potenziamento della potenza e si comanda il più di potenza.
Allora volontà di potenza non significa altro che potenza di potenza, o anche volontà di volontà: in questi termini è contenuto sia il comandare, che l'obbedire a se stessi; sia il superpotenziamento che la conservazione (infatti ogni grado di potenza raggiunto deve poter essere fissato e assicurato).
Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, la potenza stessa pone le condizioni del potenziamento e della conservazione sotto forma di valori. A questo proposito N. scrive: "Il punto di vista del 'valore' è il punto di vista di condizioni di conservazione, di potenziamento rispetto a forme complesse di relativa durata di vita entro il divenire". (La volontà di potenza n. 715).
I valori sono le condizioni, punti di vista (Augenpunkte) su un divenire che coincide con il superpotenziamento stesso, con la motilità della volontà di potenza. In questo senso, la volontà di potenza è "prospettica": essa è legata ad un vedere "calcolante", che tiene conto dei valori, li riconduce ad una scala numerica di misura della forza.
La volontà di potenza, in quanto è un prospettico tener conto delle condizioni della sua possibilità, è in sè ponente-valori. Non appena è riconosciuto nella volontà di potenza il carattere dell'ente in quanto tale, il pensare a fondo l'ente nella sua verità diventa inevitabilmente un pensare secondo valori. La metafisica della volontà di potenza interpreta, alla luce del pensiero del valore, tutte le posizioni di fondo che la precedono.
Il nichilismo
Con N. il pensiero del valore diventa il filo conduttore per interpretare la storia occidentale, e la metafisica della volontà di potenza diviene il principio di una nuova posizione di valori, e precisamente "una trasvalutazione dei valori". Questa trasvalutazione costituisce l'essenza compiuta e affermativa del nichilismo. Il termine non ha, infatti, solo un significato negativo, non significa la dissoluzione di tutto nel mero niente.
N. ha pensato a fondo tutti i modi e i gradi del nichilismo, e li ha esposti in pensieri di diversa ampiezza e incisività. In primo luogo, esso è visto come il processo della svalutazione dei valori supremi, che viene espresso con la sentenza: "Dio è morto". La frase indica la perdita di forza del mondo vero soprasensibile. Ma la svalutazione dei valori, pur caratterizzando l'accadere fondamentale della nostra storia, non esaurisce l'essenza del nichilismo. La svalutazione, infatti, facendo apparire il mondo privo di valore, induce la necessità di erigere nuovi valori. Si ingenera uno stato intermedio che la storia presente sta attraversando, nella quale si spera ancora nel ritorno dei vecchi valori e nel contempo si riconosce già la presenza di un nuovo mondo. In tale fase i popoli debbono decidere del loro tramonto o del loro nuovo inizio.
Nel concetto del nichilismo vi è qualcosa di estremo e incondizionato che respinge ogni mediazione: ciò implica il crollo completo dei valori finora in vigore; tutto ciò che è deve essere posto nel suo insieme in modo diverso.
Il nichilismo non è soltanto il tratto fondamentale della storia occidentale, ma ne è la "legalità", la sua "logica", e in quanto tale, sviluppa una successione di fasi e forme diverse, oscillando tra una molteplicità di significati. La svalutazione dei valori supremi, rendendoli irraggiungibili, determina il pessimismo quale forma preliminare del nichilismo. Il pessimismo nega il mondo esistente, ma, da una parte, può volere semplicemente il declino e il nulla, dall'altra, rifiutando l'ordine esistente, apre la strada per una nuova configurazione del mondo. In questo secondo caso si esplica come "forza" ed è connotato dall'"analitica", la fredda esposizione e l'indicazione delle ragioni per le quali l'ente è così com'è. Nel primo caso, invece, proviene dalla "debolezza" ed è caratterizzato dallo "storicismo". Da questa ambivalenza si sviluppano un "nichilismo incompleto" e un "nichilismo estremo". Il primo nega i valori supremi, ma non ne elimina il "posto", il soprasensibile; limitandosi a porre nuovi ideali al posto dei vecchi, ne ritarda la destituzione. Il secondo sa che non c'è alcun soprasensibile, alcuna verità in sè; tuttavia, fintanto che fa da spettatore alla decadenza dei valori, rimane "passivo". Il nichilismo diviene "attivo", quando interviene, infondendo a ciò che vuole perire "il desiderio della fine" (La volontà di potenza, n. 1055). N. definisce anche questa forma di nichilismo, che esce allo scoperto e crea spazio per una nuova posizione di valori, "nichilismo estatico". In esso viene esplicitamente concepita e assunta come fondamento la volontà di potenza, quale principio di ogni posizione di valori. In tal modo il nichilismo perviene alla sua essenza affermativa e diviene "nichilismo classico"; esso "potrebbe essere un modo di pensare divino" (La volontà di potenza, n.15).
Il nichilismo, così, è giunto alla pienezza del suo concetto quando viene riconosciuta consapevolmente la volontà di potenza come principio della posizione dei valori. In questo contesto, la trasvalutazione significa che i valori sono posti come tali nel loro fondamento essenziale, e che l'ente in quanto tale è ri-pensato in relazione ad essi. Pensato in questo modo il nichilismo è allora la denominazione dell'essenza storica della metafisica, in quanto la verità sull'ente si compie nella metafisica della volontà di potenza.
L'eterno ritorno dell' uguale
Quando N. afferma che il mondo "non ha nessun valore" (La volontà di potenza, n. 708), non vuol dire che l'ente nel suo insieme sia nullo, ma denota bensì qualcosa di affermativo: l'ente, che ha il carattere fondamentale della volontà di potenza, può essere soltanto, nel suo insieme, eterno ritorno dell'uguale. Cercare un valore complessivo del mondo è impossibile. La potenza, infatti, non conosce fini "in sè", ai quali giungere per fermarvisi; essa, in quanto superpotenziamento, può solo ritornare in se stessa, senza che il movimento del mondo sfoci in qualche stato finale, sussistente in sè. E poichè l'attuarsi perenne e senza-fini della volontà è finito nelle sue posizioni e nelle sue forme, l'ente nel suo insieme deve far ritornare l'uguale e tale ritorno deve essere eterno.
La volontà di potenza e l'eterno ritorno sono caratteri fondamentali dell'essere. Il termine "volontà di potenza" indica che cosa l'ente è in quanto tale, nella sua costituzione; "eterno ritorno" dice invece come l'ente è nel suo insieme.
L'eterno ritorno, nondimeno, nomina un divenire, poichè ciò che ritorna ha una sussistenza solo relativa. Tuttavia, in quanto è portare sempre qualcosa a sussistere, esso è la più stabile stabilizzazione dell'instabile. Essere e divenire, pertanto, entrano solo apparentemente in contrasto. N. può scrivere:
"Imprimere al divenire il carattere dell'essere - è questa la suprema volontà di potenza" (La volontà di potenza, n. 617).
In rapporto al progetto metafisico che pensa l'ente come volontà di potenza ed eterno ritorno dell'uguale, l'uomo conquista la sua essenza e si espone alla storia, affinchè sia portata a compimento.
Il superuomo
La verità sull'ente in quanto tale è ogni volta assunta e preservata da un' umanità. Il tipo d'uomo che si rapporta all'ente che, in quanto tale, è volontà di potenza e, nel suo insieme, eterno ritorno dell'uguale, è il superuomo. Il "super" significa sorpassare, andare oltre l'uomo finora esistito, che è identificato nell'uomo platonico-cristiano, in tutte le sue varianti palesi e occulte.
Il nunzio della dottrina del superuomo è Zarathustra, che, nel suo "Prologo", dice: "Ecco io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra!" (Così parlò Zarathustra, Prologo).
Il superuomo è la negazione incondizionata dell'essenza tradizionale dell'uomo come animale razionale, che sorregge tutta la storia occidentale. L'uomo, infatti, non è più concepito come pensiero separato dalla sensibilità, ma è interpretato come corpo vivente, nell'unità degli istinti e delle passioni, che include la stessa ragione, e, così inteso, è volontà di potenza.
Ma la metafisica non definisce l'uomo nel medesimo senso in tutte le epoche. Solo nell'età moderna si svela l'origine metafisica del superuomo. In quest'epoca l'essenza della verità diventa la certezza, che assicura l'ente rappresentato nel rappresentare stesso. Quest'ultimo diviene il tribunale che decide dell'enticità dell'ente. Nasce in tal modo la metafisica della soggettività: il "soggetto" è ora l'uomo, ossia il rappresentare che si rappresenta. Con Leibniz il rappresentare si determina come appetizione, e con Kant diventa autolegislazione incondizionata.
Con Hegel, infine, la ragione si dispiega come soggettività incondizionata e autoconsapevolezza volitiva, ossia spirito assoluto, assoluta realtà. Solo a questo punto, il rovesciamento nichilistico del primato della ragione nel primato della volontà in quanto volontà di potenza, può affermare il ruolo incondizionato del corpo, quale luogo cui mette capo ogni interpretazione del mondo. Per questo N. afferma: "Essenziale: muovere dal corpo e utilizzarlo come filo conduttore" (La volontà di potenza, n. 532).
La volontà di potenza sottomette a sè la ragione, finora al servizio del rappresentare, e, divenendo la pura autolegislazione di se stessa, consegue l'incondizionato dominio nell'essenza della soggettività. In questo rovesciamento dell'incondizionato rappresentare nella soggettività della volontà di potenza, si esaurisce l'ultima possibilità dell'essere in quanto soggettività: è questa l'origine metafisica del superuomo. Esso non è un ideale soprasensibile, ma il puro attuarsi del potere del soggetto umano elevato al suo massimo, dopo la scomparsa di Dio e del mondo soprasensibile.
Ma il fatto che la soggettività, nel compimento della propria essenza, voglia assolutamente se stessa come potenza, non comporta una antropomorfizzazione dell'ente? Il mondo non viene "soggettivizzato"? Al proposito, N. scrive: ""Antropomorfizzare" il mondo, cioè sentirci sempre più in esso come signori -" (La volontà di potenza, n. 614). Certo, tutto è soggettivo, ma nel senso della volontà di potenza, che dà all'ente il potere di essere tale. Diventare signore non significa violentare le cose a piacimento, ma sottomettere se stessi al comando, per conferire il potere dell'essenza della potenza.
Il superuomo è il rovesciamento nichilistico dell'uomo tradizionale, che esprime la compiuta incondizionatezza della volontà di una umanità che vuole se stessa come signora della terra. Tale dominio si realizza attraverso la meccanizzazione delle cose e l'allevamento dell'uomo. Il modo in cui avviene è "il grande stile", la cui grandezza scaturisce dalla semplificazione dell'ente in base alla originaria semplicità dell'essenza della potenza.
Nel grande stile l'uomo testimonia la sua determinazione nel padroneggiamento dell'ente, senza alcun fine nell' insieme, essendo ogni fine determinato condizione e mezzo del conferimento del potere incondizionato della volontà di potenza. Il superuomo, in quanto legislatore, è colui che pone le condizioni di tale potere senza esserne determinato.
Nel superuomo vi è "una propria giurisdizione, che non ha nessuna istanza sopra di sè" (La volontà di potenza, n. 962).
La giustizia
Per N. la verità è la condizione della conservazione della volontà di potenza. Ma la conservazione rimane essenzialmente al servizio del potenziamento, che va oltre il conservato e, aprendo nuove possibilità della potenza, la sprona a essere superpotenziamento di se stessa. L'essenza così concepita del potenziamento è l'arte; solo essa determina il carattere metafisico dell'ente che, in quanto tale, è volontà di potenza. Per questo il carattere del valore è più appropriato all'arte che alla verità: come N. afferma, "l'arte vale più della verità" (La volontà di potenza, n. 853).
Tuttavia, sia l'arte che la verità, quali valori essenziali, hanno un riferimento reciproco: l'essenza dell'arte rimanda a quella della verità, e viceversa. Tale connessione si manifesta nella parvenza (Schein), intesa nel senso sia del risplendere sia del mero apparire. Infatti, l'arte, come volontà di parvenza, si ricollega alla verità, in quanto essa è "errore necessario" all'assicurazione della sussistenza, ossia mera parvenza.
In questi concetti vi è l'eco mai spenta, ma inascoltata, dell'essenza metafisica della verità. Infatti, interpretare la verità come "errore", presuppone la concezione tradizionale di verità come adeguazione all'ente. Parimenti, l'arte come parvenza trasfigurante reclama, senza saperlo, come determinazione direttrice, lo svelamento. Questo aspetto della verità come apertura e svelamento, presente all'inizio della metafisica, è destinato a sprofondare nella dimenticanza rispetto alla determinazione della verità come adeguazione, senza però mai scomparire del tutto. Nel pensiero moderno tale essenza dimenticata della verità non può essere reintrodotta, ma mutata e deformata, continua a dominare, e porta la metafisica della soggettività incondizionata a porsi nell'estrema opposizione essenziale alla determinazione iniziale della verità.
Nell'epoca moderna l'uomo, come soggetto, diviene il fondamento e la misura della verità sull'ente in quanto tale. Questo fatto è la conseguenza di un mutamento dell'essenza della verità: essa è diventata la certezza con cui l'uomo pone al sicuro tutto l'ente per instaurarvisi sovrano. Da ciò scaturisce una nuova libertà dell'uomo, nel senso di una autolegislazione dell'umanità. (Inizialmente, tale libertà è, in negativo, liberazione dalla certezza della salvezza cristiano-sovrasensibile).
Con la metafisica della volontà di potenza, la soggettività si dispiega illimitata ed eleva la sua piena essenza a legge di una nuova legalità, il cui fondamento è una nuova giustizia. In una annotazione del 1884, intitolata "Le vie della libertà", Nietzsche scrive:
"Giustizia come modo di pensare costruttivo, esclusivo, distruttivo, che muove dai giudizi di valore: sommo rappresentante della vita stessa". [VII, II, 125-26].
La giustizia, per N., è il pensiero nel senso della volontà di potenza, ossia l'atto stesso del giudicare che pone e fissa i valori. Tale "modo di pensare" è "costruttivo" (bauend), poichè costruisce ed erige ciò che ancora non è presente; è "esclusivo" (ausscheidend), ossia respinge ciò che mette in pericolo la costruzione, assicurando il fondamento; è "distruttivo" (vernichtend), poichè in ogni costruire è implicato il distruggere. La giustizia è dunque questo elevarsi in alto del pensiero, che diviene signore di se stesso. Essa è il "sommo rappresentante" della volontà di potenza, nel senso del "rap-presentare" (Vor-stellen), che si porta dinanzi a se stesso, nell'aperto da lui stesso formato e misurato. Ma il fare apparire ciò che è velato, ossia la svelatezza, è l'essenza della verità. In tal modo, la giustizia è l'autentico fondamento della verità, nell' epoca della metafisica dell'incondizionata e compiuta soggettività.
In un'altra annotazione, quasi contemporanea alla prima, N. afferma:
"Giustizia, in quanto funzione di una potenza che guarda lontano intorno a sè, che vede al di là delle prospettive piccine del bene e del male, che ha dunque un più ampio orizzonte del vantaggio - l'intenzione di conservare qualcosa che è più di questa e quella persona". [VII, II, 171].
La potenza che guarda lontano intorno a sè, sorpassa tutte le prospettive finora esistenti. Essa ha "un più ampio orizzonte del vantaggio" (Vorteil). Il significato genuino del termine Vor-teil, indica ciò che in una partizione (Teilung) è già dall'inizio impartito (zugeiteilt), prima della sua attuazione. E dunque, la giustizia è l'impartizione, precedente ogni pensiero e ogni azione, di ciò a cui essa indirizza l'intenzione. (Intenzione "che è più di quella o questa persona", ossia che va oltre, a quell'umanità che deve essere scolpita e allevata, fino a diventare quel tipo che possiede la proprietà di instaurare l'incondizionato dominio sulla terra).
Le cinque parole fondamentali: "volontà di potenza", "nichilismo", "eterno ritorno dell'uguale", "superuomo" e "giustizia" corrispondono dunque all'essenza della metafisica di N., la cui unità rimane tuttavia nascosta al suo interno, senza che nessuna di esse abbia la preminenza sulle altre.
Definire metafisica della volontà di potenza la filosofia di N., dà comunque una indicazione su tale unità nascosta. Posto infatti che la volontà di potenza sia concepita come soggettività incondizionata, la definizione indica che la verità dell'ente in quanto tale viene decisa partendo dal carattere fondamentale dell'ente mediante la volontà di potenza come forma suprema. La metafisica di N. è, secondo la sua essenza storica, il tratto fondamentale dell'epoca che, in base al suo compimento, dà inizio all'età moderna.
VII. La determinazione del nichilismo secondo la storia dell'essere
Il riconoscimento dell'ente come dato di fatto, l'interpretazione dell'essere come "valore", non consentono a N. di porre la domanda dell'essere in quanto tale. Con questo rilievo non intendiamo sottolineare una insufficienza della sua filosofia, ma portarci in prossimità della sua metafisica, che per la prima volta pensa il nichilismo in quanto tale, per domandare se lo abbia veramente superato, e se, nel superamento, si mostri l'essenza propria del nichilismo. Quest'ultimo esige di pensare nella parola "nichilismo" il niente, congiuntamente al fatto che nell'ente in quanto tale succede qualcosa.
L'essenza del nichilismo è appunto la storia nella quale dell'essere stesso non ne è niente. Ma N. non supera il nichilismo: la sua filosofia è, anzi, l'ultimo irretimento, tale che il nichilismo finisce completamente di essere ciò che è. Il nichilismo così completamente finito, perfetto, è il compimento del nichilismo autentico. Pensando infatti il superamento come trasvalutazione di tutti i valori, nell'atto stesso in cui crede di superarlo, nella posizione di nuovi valori secondo la volontà di potenza, N si preclude la possibilità di scorgere l'essere in quanto essere, e quindi la stessa essenza del nichilismo.
Prima di ogni superamento, c'è bisogno di portare alla luce l'essenza del nichilismo. Posto che in questo confronto, che riguarda l'essere, rimanga assegnata una parte anche al pensiero dell'uomo, questo pensiero, a sua volta, dovrà essere riconsiderato dall'essenza del nichilismo. Per questo ci chiediamo quale sia il fondamento del nichilismo autentico che comincia ad apparire e ci riguarda direttamente. La metafisica di N., in quanto metafisica della volontà di potenza, è il compimento del nichilismo autentico, ma non può essere il fondamento del nichilismo autentico in quanto tale. Tale fondamento è la metafisica stessa.
La metafisica è in quanto metafisica il nichilismo autentico
Sennonchè l'essenza del nichilismo autentico riguarda ancora troppo poco il nostro pensiero: la metafisica non è capace di cogliere la propria essenza, le sue rappresentazioni rimangono arretrate rispetto ad essa. Ma qual è l'essenza della metafisica, intendendo per "essenza" ciò che è durevolmente presente, ciò che permane (das Wesende)? E come vi regna il riferimento all'essere?
La domanda della metafisica, che Aristotele ha enunciato come la perenne domanda del pensiero, chiede: che cosa è l'ente? In essa si domanda dell'essere: l'ente in quanto ente è tale, grazie all'essere. Il "che cosa" dell'ente, lo si chiama anche das Wesen, l'essenza. Ciò comporta che l'essere dell'ente sia pensato partendo dal "che cosa": l'essenza è l'essenza dell'ente; l'essere dell'ente è ottenuto con il domandare, partendo dall'ente, come ciò che è pensato andando all'ente. Essendo inoltre esperito come ciò che in generale è, l'ente viene pensato, oltre che rispetto all'essentia, anche rispetto alla existentia. In tal modo esso viene determinato in "che cosa è", e nel "fatto che è".
Ne consegue che la metafisica non pensa l'essere in quanto essere: essa lo pensa, in virtù della sua stessa domanda, partendo dall'ente e arrivando all'ente. Certo, essa riconosce che l'ente non è senza l'essere, ma nello stesso tempo traspone l'essere in un ente, sia esso l'ente sommo nel senso della causa suprema, o invece l'ente nel senso del soggetto quale condizione dell'oggettività, o nel senso della soggettività incondizionata. L'essere viene dunque fondato su quello che tra gli enti è più ente.
In quanto la metafisica concepisce l'essere nel senso del fondamento che sommamente è, essa è in sè teologia. Ma è anche ontologia, poichè determina l'ente in quanto tale rispetto alla sua essentia. Essa è dunque onto-teologia: nella sua essenza vi è una coappartenenza di teologia e di ontologia, che si manifesta in particolare nel concetto di trascendenza. Tale parola, infatti, da un lato, rinvia al trascendimento dell'ente verso la sua essentia, e in tal caso è il trascendentale; dall'altro, al fondamento primo esistente, ed è il trascendente. L'ontologia rappresenta la trascendenza come il trascendentale; la teologia come il trascendente. Tale significato duplice ma unitario, è fondato nella distinzione di essentia ed existentia.
L'esperienza ora indicata dell'essenza nichilistica della metafisica non basta ancora per pensarne l'essenza autentica. Ciò richiede che noi partiamo dall'essere stesso. Ma occorre anzitutto sapere che la metafisica, pensando l'ente in quanto tale, sfiora l'essere, per poi subito passare oltre in favore dell'ente. Perciò in essa l'essere rimane impensato. Ma anche la svelatezza dell'ente rimane impensata, poichè la metafisica pensa, sì, l'ente in quanto tale, ma non l' "in quanto tale" stesso. L'"in quanto tale" nomina la svelatezza dell'ente, ossia l'essenza della verità. Ora è tempo di domandare di questo "impensato" stesso, nominando il quale ci avviciniamo all'essenza del nichilismo autentico.
Ora, che l'essere rimanga impensato non dipende da una mancanza del pensiero, ma dall'essere stesso che rimane assente. L'essere è essenzialmente (west), in quanto è la svelatezza nella quale l'ente è presente (anwest). La svelatezza stessa, tuttavia, rimane celata. Si rimane alla velatezza dell'essere, in modo tale che essa si cela in se stessa. Dunque l'essere è essenzialmente nel rimanere assente, ed è tale sempre in riferimento all'ente. Ma nel sottrarsi, in quanto essere dell'ente, esso rimane contemporaneamente in vista.
La metafisica è appunto la storia del sottrarsi dell'essere e del conseguente abbandono dell'ente che giunge nello svelato; tale storia è l'essenza del nichilismo autentico e, benchè il pensiero non sia la causa del rimanere assente dell'essere, non gli è neppure estraneo, poichè tale assenza avviene in riferimento ad un luogo rispetto al quale l'essere è essenzialmente presente: questo luogo è l'uomo, che, mediante il suo pensiero, da sempre sta in rapporto sia con l'essere sia con l'ente in quanto tale. L'uomo sta nella svelatezza dell'ente, nell' aperto della località dell'essere: è l'esser-ci che appartiene all'essere stesso, in cui riposa l'essenza del pensiero, che sottraendosi, si mostra nell'ente in quanto ente.
Il pensiero che porta l'essere al linguaggio è il pensiero metafisico, il quale, però, non si attiene alla sottrazione dell'essere, ma dissimula il rimanere assente in modo che questa stessa dissimulazione non si conosca come tale. Quanto più la metafisica, infatti, si assicura dell'ente in quanto tale, tanto più si allontana e ne suggella il nulla, interpretando nietzscheanamente l'essere come valore.
Poichè, tuttavia, nella metafisica, tale rimanere assente non viene ammesso come carattere autentico del nichilismo, storicamente esso si compie in modo inautentico: la metafisica si sbarra da sè la via per esperire l'essenza del nichilismo. Ma questo momento inautentico non cade al di fuori dell' essenza del nichilismo, proprio nella misura in cui porta a compimento il momento autentico.
Se pensiamo il nichilismo partendo dall'essere stesso, esso non mostra quei tratti negativi che lo connotano abitualmente e che pure non devono essere trascurati: positivo e negativo condividono il medesimo ambito che riguarda l'essere stesso e la storia in cui di se medesimo non ne è niente.
In questo contesto, il superamento del nichilismo viene a cadere perchè significherebbe, da parte dell'uomo, andare contro il rimanere assente dell'essere, pena lo scardinamento dell'essenza dell'uomo e la ricaduta nel momento inautentico del nichilismo. Senza contare che, poichè è l'essere che contribuisce a determinare che il suo essere lasciato fuori accada nel pensiero, anche un superamento di questo lasciare fuori avverrebbe solo indirettamente ad opera dell'uomo.
In luogo del superamento, occorre invece che il pensiero pensi prima andando incontro all'essere nel suo rimanere assente in quanto tale, impari a pensarlo, seguendolo nel suo sottrarsi, in modo tale da rimanere a sua volta indietro: a differenza del pensiero metafisico, compie un decisivo passo indietro, abbandonando "l'interpretazione metafisica della metafisica."
Essendo l'essere la svelatezza dell'ente, esso si è già annunciato nell'essenza dell'uomo. L'essere che rivolge così la sua parola, ma che nel rimanere assente si tiene in serbo, è la promessa (Versprechen) di se stesso. Dunque, andare incontro all'essere stesso nel suo rimanere assente, significa accorgersi di questa promessa: ma di lui non ne è niente: è questa storia (Geschichte) l'essenza del nichilismo, il destino (Geschick) dell'essere stesso.
Allora, però, il momento inautentico dell'essenza del nichilismo non è nulla di negativo, in quanto il lasciare fuori il rimanere assente non è altro che la salvaguardia della promessa che rimane celata a se stessa.
La metafisica è la storia del mistero della promessa dell'essere. L' essere è il mistero (Geheimnis) che nella sua essenza si cela salvaguardando e, nondimeno, in qualche modo appare.
Anche il nichilismo è la storia di quella promessa, nelle cui fattezze l'essere si risparmia nel suo mistero; ma in esso risuona la nota stridente del nichilismo reale che si insinua ovunque, diffondendo scompiglio e dissesto con la sua violenza. Esso, tuttavia, non è separato dal nichilismo pensato secondo la storia dell'essere, ma è essente soltanto in base a questo. N, nella sua metafisica, concependo il nichilismo come svalutazione dei valori supremi, ha presente l'essenza del nichilismo conforme alla storia dell'essere, interpreta l'essere come valore e pensa la volontà di potenza come principio di una nuova posizione di valori come superamento del nichilismo. Ma esprime piuttosto l'estremo impigliarsi della metafisica nel momento inautentico del nichilismo, che instaura il dominio dell'incondizionato lasciare fuori il rimanere assente dell'essere in favore dell'ente, con il carattere di volontà di potenza che pone valori. In tale estremo sembra che dell'essere stesso non ne sia niente.
In questa situazione, l'uomo, rappresentando l'essere nel senso dell'ente in quanto tale, decade sull'ente e, nell'esclusivo volersi della sua volontà, attua la sua essenza nella soggettività, instaurando sè e il suo mondo entro la relazione soggetto-oggetto. La metafisica della soggettività fa dell'essere l'oggetto del rap-presentare (Vor-stellen) e del pre-porre (Vor-setzen). La preposizione dell'essere come valore posto dalla volontà di potenza è solo l'ultimo passo della metafisica moderna.
L'uomo diventa insicuro di fronte alla propria essenza, la quale rimane con l'essere stesso nella sottrazione. Per questo egli tende alla sicurezza di se stesso in mezzo all'ente, indagato al fine di stabilire quali sempre più affidabili possibilità di assicurazione offra. Ciò fa supporre che l'uomo, nel rapporto con la sua essenza, sia messo in gioco prima di ogni altra cosa: di qui la possibilità che l'ente in quanto tale sia una sorta di "gioco cosmico" (Weltspiel).
N., in una della Canzoni del principe Vogelfrei (An Goethe), aggiunte come appendice alla seconda edizione (1887) della Gaia scienza, scrive:
Welt-Spiel, das herrische,Mischt Sein und Schein:-Das Ewig-NaerrischeMischt uns - hinein! ...
L'uomo che viene mescolato "dentro", nell'insieme dell'ente diveniente, dalla forza mescolante della ruota del cosmo, è una forma della volontà di potenza, che pone, insieme all' "essere", la "parvenza" (l'arte), come condizione del suo potenziamento. Il modo in cui la volontà di potenza è, è l'eterno ritorno dell'uguale, che nella poesia viene chiamato "l'eterna demenza". E' l'unità di entrambi a determinare, nella metafisica di N., il carattere ludico del gioco cosmico.
Il fatto che l'uomo esplori tutte le vie dell'assicurazione della sua sicurezza testimonia quanto l'essere, nella storia del suo rimanere assente, ritenga in sè la sua svelatezza, quanto l'essere stesso si sottragga nel suo più remoto riserbo (Vorenthalt) e l'ente in quanto tale, apparendo come volontà di potenza, insorga in tutto il suo domino. In ciò ha il suo compimento la metafisica della soggettività, che corrisponde all'estrema sottrazione della verità dell'essere, che quanto occulta tale sottrazione fino all'irriconoscibilità. Si inizia così l'epoca della completa oggettivazione di tutto ciò che è, nella quale l'uomo stesso e tutto l'umano diventano una mera risorsa, ordinata nel processo lavorativo della volontà di potenza. La storia, occultata nella sua storicità, viene interpretata storiograficamente: la storiografia sta infatti al servizio della volontà dell'umanità di insediarsi nell'ente secondo un ordine abbracciabile. Lo scatenamento dell'ente deriva dal respingere il rimanere assente dell'essere nella dimensione più lontana - come il destino della completa velatezza dell'essere nel mezzo della completa assicurazione dell'ente.
Il rimanere assente dell'essere si dirige in modo tale all'essenza dell'uomo che questi lo schiva, intendendo l'essere in base all'ente. Ma l'uomo può pensare il rimanere assente dell'essere, quando il pensiero metafisico si destina al passo indietro, che lascia ad-venire l'essere nello spazio essenziale dell'uomo, e lo porta dinanzi all'essenza del nichilismo. Tale spazio è l'asilo di cui l'essere si dota.
Anche nel rimanere assente della sua svelatezza, l'essere non lascia mai perdere il suo asilo: ne ha bisogno, avendone necessità. L'essere, così, è necessitante in questo senso doppiamente unitario: è ciò che non-lascia-perdere (das Un-ab-laessige) e ciò che ha bisogno (das Brauchende).
Ma nella storia della metafisica, resta occultata, insieme alla verità dell'essere, anche la necessità: l'ente è e fa sembrare che l'essere sia senza necessità. In realtà, l'assenza di necessità che si instaura come dominio della metafisica porta l'essere stesso all'estremo della sua necessità. L' assenza di necessità, come velata necessità estrema dell'essere, giunge al punto che l'asilo dell'essere, ossia l'uomo, sia minacciato con l'annientamento della sua essenza.
Per l'uomo si apre qui la prospettiva di lasciarsi coinvolgere nell' estremo pericolo, nell'annientamento della sua essenza, pensando cose pericolose. Il motto di N.: "vivere pericolosamente" rientra nell'ambito della metafisica della volontà di potenza e richiede il nichilismo attivo, che ora va pensato come l'incondizionato dominio della malaessenza del nichilismo.
L'epoca della velatezza dell'essere, che ha il carattere della volontà di potenza, è l'età della compiuta indigenza dell'ente in quanto tale e della spaesatezza dell'uomo. Tanto più l'ente ha bisogno (bedarf) dell'ente, tanto meno v'è ancora fabbisogno (es darbt) dell'ente in quanto tale. Per quanto riguarda l'uomo, non soltanto egli continua a non avere familiarità con la verità dell'essere, ma ovunque emerga l' "essere", lo misconosce, lo respinge come il nullo niente. Ma al pensiero, prigioniero della metafisica, l'essere come tale deve rimanere familiare. Per il pensiero che va incontro all'estrema necessità dell'essere ciò vuol dire: pensare all'avvento del sottrarsi dell'essere, andandogli incontro. Tuttavia il dominio dell'assenza di necessità nella metafisica compiuta è che l'ente sia come se l'essere non "fosse" la necessità della verità stessa.
VIII. La metafisica come storia dell'essere
Il "che cosa è e il "che è" nell'inizio essenziale della metafisica: idèa ed enèrgheia
L' "essere" nomina la decisività dell'insorgere contro il nulla e giunge all'avvento dapprima nell'ente, che dà l'informazione sufficiente sull'essere.
Ad avere valore di "ente" è il reale, l'effettivo. Ciò significa anzitutto che l'essere dell'ente consiste nella realtà effettiva, e, inoltre, che l'ente, in quanto è il reale, è "realmente", cioè in verità, l'ente. Nella "realtà effettiva" (Wirklichkeit) si annuncia l'autentica essenza dell'essere. La "realtà effettiva" è chiamata anche "esistenza" (Dasein). Nella parola "esistenza" (Esistenz, existentia) l'essere enuncia il suo nome più comune. Nel linguaggo della metafisica, "realtà effettiva" ed "esistenza" dicono la stessa cosa. Ma ciò che questi nomi dicono non è affastto univoco. E' oscuro, ad esempio, in quale misura l'essere si determini come realtà effettiva; inoltre, nella metafisica, l'essere non è pienamente nominato nella equiparazione con l'esistenza.
Fin dall'antichità, infatti, la metafisica distingue tra il che cosa un ente è e il fatto che questo ente è oppure no. Nel linguaggio scolastico questa distinzione è nota come la distinzione tra essentia ed existentia. La essentia vuol dire la quidditas, ossia ciò che un ente è in quanto ente, in quanto avente il carattere di, a prescindere dal fatto che "esista". La essentia nomina ciò che può essere, come tale, un ente, nel caso che esista, ciò che lo rende possibile in quanto tale: la possibilità, che è distinta dalla realtà.
Con la distinzione nel "che cosa è" e nel "che è", inizia la storia dell'essere come metafisica. Tale distinzione, peraltro, è tutt'altro che ovvia. Essa rimane infatti senza fondamento; non si capisce se derivi dall'essere o dal pensiero. La metafisica, che fonda su di essa la sua essenza, non è in grado di ottenere da sola un sapere su di essa, ma si limita a demarcare i termini distinti, e a fornire una enumerazione di modi della possibilità e della realtà.
L'essere stesso si cela in questa distinzione, che non contiene soltanto una dottrina del pensiero metafisico, ma un evento nella storia dell'essere.
Da un punto di vista storiografico è facile stabilire la connessione di essentia ed existentia con il pensiero di Aristotele, che porta tale distinzione al suo fondamento essenziale. La essentia, per Aristotele, risponde alla domanda tì èstin: che cosa è (un ente)? La existentia dice di un ente òti èstin: che esso è. Viene nominato un diverso èstin. Quale essenza dell'essere si rivela qui, venendo fuori in questa distinzione?
All'inizio della sua storia l'essere si apre nella radura come schiudimento (physis) e svelamento (alètheia). Di qui giunge nella forma della presenza e della stabilità nel senso della permanenza (ousìa). Per Aristotele, ciò che è stabile e che giace dinanzi come presente, ha il carattere fondamentale del movimento o della quiete nella quale il movimento si è concluso. La presenza (ousìa) è connotata pertanto come èrgon ed enèrgheia: ciò indica l'essere presente nella svelatezza del pro-dotto posto lì ed eretto (das Her- und Hin- und Aufgestellte), non come il risultato di un effettuare (Wirken). Analogamente, l' "opera" (Werk) non è la realizzazione di un fare, ma è ciò che è esposto nello svelato e che permane. Aristotele adopera anche il termine entelècheia, per significare il puro essere presente che si è lasciato alle spalle ogni produrre.
La presenza (ousìa) viene distinta da Aristotele in modo duplice. All'inizio del quinto capitolo sulle Categorie, egli afferma che presenza in senso eminente è il permanere di qualcosa che, da sè, giace dinanzi: la ousìa del kath'èkaston: il rispettivo questo, il singolare. Ma da questo tipo di presenza viene distinta l'altra, che si identifica nei modi e dei generi a cui appartengono gli enti presenti (per esempio: quest'uomo è "uomo" e "essere vivente"). La presenza nel senso primario è il "che è", la existentia; nel senso secondario il "che cosa è", la essentia.
L'essenza dell'essere, l'essere presente, che Platone pensa come per il koinòn dell' idèa, per Aristotele riposa nell'enèrgheia del tòde ti; per questo la sua esposizione della distinzione svela una preminenza della existentia sulla essentia. Entrambi i modi dell'ousìa, l'idèa e l'enèrgheia, formano, nella reciprocità della loro distinzione, la struttura fondamentale di ogni metafisica, di ogni verità dell'ente in quanto tale. Il pro-cedere (Fort-gang) della metafisica consiste nel fatto che le prime determinazioni della presenza mutano e inglobano in questo mutamento anche la loro reciproca distinzione e, da ultimo, fanno scomparire la loro differenza.
Il mutamento della enèrgheia nella "actualitas"
Sembra che la tradizione metafisica, allontanandosi dal suo inizio, conservi e sviluppi il suo patrimonio fondamentale, e che i concetti principali, al di là delle diverse variazioni linguistiche, rimangano gli stessi. Ma in realtà, la loro essenza non è più la stessa, la actualitas non conserva più l'essenza della enèrgheia, il carattere del "che è" e del "che cosa e" è diventato un altro.
Nell'inizio, l'ente, in quanto èrgon, è ciò che è presente nel suo essere prodotto; adesso l'èrgon diviene l' opus dell' operari, il factum del facere: non è più ciò che è lasciato libero nell'aperto dell'essere presente, ma ciò che è operato nell'operare, che è fatto nel fare. L' essenza dell'opera è la "realtà effettiva" (Wirklichkeit) di un reale che è dominato nell'effettuare (Wirken).
L'essenziale impronta greca iniziale dell'essere viene definitivamente misconosciuta in base all'interpretazione romana, che si estende dalla romanità all'intera storia occidentale. Dal mutamento della enèrgheia nella actualitas, il reale è l'ente vero e proprio e, quindi, anche l'ente determinante per tutto il possibile e il necessario. Nondimeno, si mantiene la distinzione iniziale: la actualitas è distinta, in quanto existentia, dalla potentia (possibilitas) in quanto essentia. Il "che cosa è" è determinato come idèa, che ha il carattere della aitìa (causa-originaria, Ur-sache). Nell'inizio della metafisica, la preminenza della aitìa si consolida al posto della determinazione dell'essere come archè. L'essere mostra il tratto essenziale del rendere possibile la presenza; in tal modo è preparato il cambiamento nell'essere come actualitas.
Quando l'essere si è mostrato nella actualitas, l'ente è il reale effettivo, ed è determinato dall'effettuare nel senso del produrre causante. Il carattere di causa dell'essere come realtà si mostra in tutta la sua purezza in quell'ente che realizza in senso sommo l'essenza dell'essere, in quanto non può mai non essere: in termini teologici questo essere si chiama "Dio". L'ente sommo è realizzazione effettiva pura, sempre compiuta, actus purus. Non conosce la possibilità, poichè in ogni non-ancora è insito un difetto di essere. Esso è sommum bonum in quanto è la causalità propria del reale secondo il suo produrre come effetto la stabilità di tutto ciò che ha sussistenza.
Ma anche nella actualitas si mantiene l'iniziale essenza dell'enticità: la presenza. Il summum ens è contraddistinto dalla onnipresenza.
In base a questo carattere di causalità della realtà si spiega anche l'interpretazione della existentia. Il "che cosa è" passa per una realizzazione causante: l' ex-sistentia è l'actualitas nel senso della res extra causas et nihilum sistentia, ossia una efficienza (Wirkendheit) che traspone qualcosa nel "fuori" dalla causazione e dalla realizzazione nell'essere effettuato, e supera così il niente. Il reale effettivo è dunque l'esistente, vale a dire tutto ciò che è costituito extra causas.
Il mutamento della verità nella certezza
La storia occulta dell'essere, inteso come realtà effettiva, rende possibile le diverse interpretazioni metafisiche che fondano la verità dell'ente sul reale effettivo. Rimane aperto, tuttavia, il modo in cui si caratterizza la realtà effettiva, la cui determinazione è circoscritta fra questi ambiti del reale: Dio, mondo, uomo.
La rispettiva essenza della verità giunge nel frattempo nella sua essenza definitiva, che è chiamata certezza (Gewissheit). Certezza significa autoconsapevole coscienza del saputo, ossia: avere consapevolezza (Bewussthaben) come un sapere, un rappresentare che si fonda sulla coscienza (Bewusstsein), in modo tale da sapere al tempo stesso sè e il suo saputo.
In connessione con questo mutamento della verità, si mostra sia una preminenza dell'umanità nel reale, sia un ruolo corrispondente della realtà incondizionata pensata in termini teologici: Dio e l'uomo, in quanto esseri conoscenti, sono i portatori della verità. La certezza valorizza la realtà del reale, che dapprima appare come il suo rispettivo portatore. Prima è il Dio-creatore, ma l'uomo, assicurandosi della sua salvezza, giunge a determinare da sè l'essenza della certezza, e porta così l'umanità a dominare nel reale effettivo. Comincia così l'età moderna, che coincide con la "cultura" di un'umanità certa di se stessa e intenta alla sua propria autoassicurazione. Ma anche questo mutamento dell'essenza della verità è predeterminata dall'essenza dell'essere in quanto realtà effettiva (actualitas), che coincide con la causalità efficiente. La causalità somma è Dio come actus purus e sommum bonum, che stabilizza e fissa tutta la realtà nella causa originaria prima (Ur-sache). Mediante la fede l'uomo è certo della realtà del reale e della propria stabilizzazione nella beatitudine eterna. Già nella fede domina la certezza, tuttavia l'uomo non si rapporta a Dio e al mondo da lui creato solo in termini di fede, ma anche di ragione, mediante cui diviene per lui determinante una certezza che gli è propria. Tale autoassicurazione della sua stabilità, che l'uomo attua da se stesso, è la conseguenza necessaria del fatto che la verità ha il carattere della certezza della salvezza. Per questo la cultura dell'età moderna, anche là dove diventa non credente, è cristiana.
L'essenza della realtà, retta dalla verità come certezza, sta nella costanza e nella stabilità di ciò che è rappresentanto nel rappresentare certo, che è quello privo di dubbi, ossia chiaro e distinto (Descartes).
Il mutamento dell' ypokeìmenon nel "subiectum"
All'inizio della metafisica, l'ypokeìmenon è ciò che giace da sè dinanzi e permane. In corrispondenza con il mutamento dell'enèrgheia nella actualitas, l' ypokeìmenon diviene il subiectum, ma ciò oscura l'essenza dell'essere pensata in modo greco. Il subiectum assume il ruolo del fondamento e di ciò che è autenticamente costante e reale. Adesso, inoltre, il subiectum, entrando nell'orizzonte interpretativo della parola, è di supporto ad ogni affermazione e negazione. Esso, quindi, è ciò che nomina sia il soggetto della relazione soggetto-oggetto, sia il soggetto nella relazione soggetto predicato.
Quando, all'inizio della metafisica moderna, viene richiesto un fondamento assoluto che soddisfi all'essenza della verità come certezza, si chiede di un subiectum, che giaccia già rispettivamente dinanzi in ogni rap-presentare e per ogni rap-presentare. Tale subiectum è il rappresentante stesso (ego cogitans), a cui tutto il rappresentanto viene portato dinanzi. La realtà effettiva di ciò che in ogni rap-presentare viene rappresentato, ha il tratto fondamentale della rappresentatezza. Il carattere della presenza (Anwesenheit), che domina nell'essenza metafisica dell'essere, viene ora in luce come presenza (Praesenz) nel rap-presentare.
Non si è ancora compiuto, però, l'intero rivolgimento che porta alla metafisica dell'età moderna, come si vede dal fatto che la res cogitans è il soggetto eccelso, ma è contemporaneamente una substantia finita, cioè creata, nel senso della metafisica tradizionale. Tuttavia il rappresentare umano e l'uomo che rappresenta sono più costanti e più essenti di tutti gli altri enti: la mens humana reclamerà in futuro per sè il nome di "soggetto". Nella metafisica di Descartes il subiectum è l'uomo, nel senso che la actualitas di questo subiectum ha la sua essenza nell'actus del cogitare.
Leibniz: la coappartenenza di realtà effettiva e rappresentare
Il rap-presentare, pensato in modo originario, costituisce il tratto fondamentale della realtà effettiva; ciò lo si vede dal fatto che, partendo da una determinazione essenziale dell'ente, l'enticità dell'ente e il rap-presentare sono la stessa cosa. Tale determinazione è l'unità.
Per Leibniz, l'unità costituisce l'enticità dell'ente: essa consiste in un unire originario, che riposa in sè, che avviluppa (einfaltet) e sviluppa (ausfaltet). Tale unità ha il carattere del rap-presentare, che fornisce un molteplice a quell'unificante che sta in sè. La rappresentazione, che è propria della monade, per Leibniz, contribuisce a costituire la sua unità come l'enticità dell'ente, ed ha la propria essenza nell'esprimere un molteplice in uno. La monade è dunque dotata di una realtà effettiva, che ne costituisce l'actualitas. Tale molteplice è delimitato in un modo determinato, nel quale si rappresenta l'universo: ogni monade è uno specchio vivente dell'universo. In un tale rappresentare, in quanto implica sempre un punto di vista limitato, è contenuto un procedere che urge oltre se stesso, che spinge alla transizione e può essere chiamata appetizione. Perceptio e appetitus, rappresentazione e appetizione, costituiscono dunque l'essenziale unità del reale, la semplicità del veramente uno, la sua enticità. Questa unità è principium internum: Leibniz la chiama vis, la force, la forza; la sua essenza è l'essenza originaria dell'enticità dell'ente.
La forza è il subiectum e la base che soggiace e sorregge e da cui deriva la stabilità dell'ente. Ogni subiectum è determinato dal suo esse dalla vis (perceptio- appetitus).
Dall'essenza della vis, l' unità ottiene la sua forma piena. In tal modo si dispiega l'inizio della metafisica moderna.
L'essenza dell'essere è data ora dall' essere efficiente appetente-rappresentativo, che costituisce il tratto fondamentale dell' existentia che, fin dall'inizio della metafisica, ha la preminenza rispetto all'essentia. Ora tuttavia, con la nuova essenza della realtà, la distinzione esistentia-essentia si modifica anch'essa. L' essenza dell' existentia muta, proprio in seguito al concetto di vis - che indica l'essere dell'ente - connotata quasi come un ibrido di potentia e actus. Ciò porta a superare i tradizionali concetti di possibilità e di realtà. La vis ha il carattere del conatus, che significa propensione alla realizzazione, impellente tentare una possibilità.
La nuova essenza dell'existentia si irradia su tutti i tratti fondamentali dell'enticità, come si può vedere da un breve scritto di Leibniz, articolato su ventiquattro brevi paragrafi, senza titolo nè datazione. Queste Ventiquattro tesi - così saranno chiamate d'ora in avanti - verranno analizzate relativamente a tale questione.
Il "che è" (existentia) si svela come l'in-sorgere contro il nulla. Quando l'essere significa essere efficiente, in ogni ente è sedimentato qualcosa come un procedere e uno sforzo, una azione dell'actus. Rispetto al reale effettivo, il niente è qualcosa di più semplice e di più facile ("Car le rien est plus simple e plus facile que quelque chose"), poichè niente è necessario per esso. Ma in quanto l'ente è, bisogna domandare: "Perchè vi è qualche cosa e non piuttosto il nulla?" ("Pourquoi il y a plutot quelque chose que rien?" Questa domanda ha in sè una necessità soltanto se tutto, anche la preminenza del meno semplice e facile, cioè dell'ente, rispetto al niente, ha il suo fondamento, la sua ragione.
L'esistentia stessa nella sua essenza deve essere contraddistinta da una ragione, ogni ente avere il carattere di fondamento. L'essere, in quanto realtà effettiva, è un fondare, e il fondare deve avere in sè l'essenza di accordare preferenza all'essere rispetto al niente. L'essere deve avere il carattere dell'avere voglia e potere di sè nella sua essenza (sich in seinem Wesen zu moegen und zu vermoegen). Il possibile, in quanto è qualcosa che ha voglia, un tentarsi propenso, è già un esistere. Nella sesta tesi Leibniz scrive: "Itaque dici potest omne possibile Existiturire", laddove nel verbo existiturire è nominato il conatus ad Existentiam (tesi n. 5), ossia il carattere di esistenza della possibilità. E nella prima tesi si dice: "Ratio est in Natura, cur aliquid potius existat quam nihil" ("V'è una ragione nell'essenza dell'ente in quanto ente perchè qualcosa esista piuttosto -cioè più volentieri, con maggior voglia -moegender - che niente").
In questa concezione dell'essere rimane determinante la causalitas, che dall' agathòn di Platone in poi domina l'essere. Nella tesi n.2 si dice che la ratio (cur aliquid potius existat quam nihil) "debet esse in aliquo Enti reali seu causa".
L'ente reale, per Leibniz, è Dio, l'ens necessarium nel quale tutti gli enti e l'essere stesso hanno la loro causa. Tale ens necessarium viene considerato existificans. Dice appunto la quarta tesi: "Est ergo causa cur Existentia praevaleat non-Existentiae, seu ens necessarium est Existificans". Con questa tesi viene alla luce il carattere di fabbricazione dell'essere, nel senso che l'essere stesso viene fatto ed effettuato da un ente.
Ora l'essere ha il carattere della presenza nella rappresentazione, in un duplice senso: ogni monade - cioè, una sorta di ego - è in quanto rappresenta qualcosa, sia nel senso che apporta a sè qualcosa (fa avvenire un mondo dal suo rispettivo punto di vista), sia anche nel senso che presenta e rappresenta se stessa. (Un uomo "rappresenta qualcosa" significa: egli è qualcuno). In tal modo, la monade attua la propria essenza d'essere.
Soggettità e soggettività
Per realizzare il compito immediato di venire incontro alla pluralità nella quale è sfociata, in epoca moderna, l'essenza dell'essere come realtà effettiva, ci serviremo di titoli come "soggettità" (Subiectitaet) e "soggettività" (Subjektivitaet).
La soggettità - diversamente dal termine soggettività, troppo legato all'uomo e alla sua egoità - nomina la storia unitaria dell'essere; indica che l'essere è determinato sì da un subiectum, ma non necessariamente da un io; al tempo stesso contiene un rimando all'ypokeìmenon, e un preannuncio dell'egoità (Icheit) e dell'ipseità (Selbstheit) dello spirito, che caratterizzano la metafisica moderna.
La soggettività appare invece come un modo della soggettità, che si manifesta da Descartes in poi, quando l'ego diventa preminente. Ma la soggettività esprime la piena essenza dell'essere solo quando è diventato manifesto l'appetitus e il suo sviluppo nella volontà. (La quale ha un'essenza molteplice: è volontà della ragione, oppure dello spirito, la volontà dell'amore, oppure la volontà di potenza). A questo punto sorge la parvenza di una antropomorfizzazione dell'essere, che diviene tanto più richiesto e assunto quanto più la metafisica si avvicina al suo compimento.
La pluralità dell'essenza moderna si delinea già nel pieno inizio della metafisica moderna. L'essere è la realtà effettiva nel senso della rappresentatezza indubitabile; è la realtà effettiva nel senso dell'appetizione che rappresenta; è la actualitas; infine è la volontà.
Non appena l'essere ha raggiunto l'essenza della volontà, in quanto essa è l'unire che appetisce se stesso, è in se stesso sistematico ed è un sistema. Il sistema, allora, non è l'esposizione di un singolo pensatore, ma la struttura essenziale della realtà.
Leibniz, "Le ventiquattro tesi"
[Sono esposte le ventiquattro tesi di Leibniz]
IX. Schizzi per la storia dell'essere come metafisica
[A causa dell'estrema concisione di questo breve scritto, non si ritiene opportuno procedere ad una ulteriore sintesi. N. d. A.]
X. Il ricordo che entra nel cuore della metafisica
Il ricordo che entra nella storia dell'essere aiuta il pensiero che rammemora la verità dell'essere e che pensa la storia come l'avvento di una decisione (Austrag) dell'essenza della verità, nella quale l'essere stesso inizialmente avviene. Essere e verità, avviluppati l'uno all'altra, appartengono all'inizio (Anfang), che non troviamo rivolgendoci storiograficamente al passato, ma solo nel pensiero rammemorante e nel ricordo che entra nel cuore della storia dell'essere. Il ricordo dà da pensare che e come l'essere determini la verità dell'ente, che e come da tale determinazione l'essere apra un ambito progettuale per la spiegazione dell'ente, e disponga un pensiero al reclamo dell'essere, imponendo a un pensatore la necessità di dire l'essere.
Il ricordo conforme alla storia dell'essere è una pretesa (Zumutung) che dà da pensare all'animo (Gemuet) il riferimento dell'essere all'uomo, e richiede l'animo (Mut) per dare una risposta al reclamo, la quale o si espone alla dignità dell'essere o si accontenta dell'ente. Tale ricordo pretende dall'umanità storica che essa si accorga che l'essenza dell'uomo è lasciata entrare, coinvolta (eingelassen) nella verità dell'essere. A volte l'essere ha bisogno dell'uomo, pur non essendo mai dipendente dall'umanità, che custodisce l'ente come tale. Solo partendo dall'essere umano, cioè dal modo in cui l'uomo concede al reclamo dell'essere la parola della risposta, può irradiare dall'essere un riverbero della sua dignità.
Il ricordo non riferisce su opinioni e rappresentazioni passate dell'essere, non conosce il progresso e il regresso di una sequela di problemi, sebbene rimanga dapprima affidato alla parvenza che lo fa sembrare una storiografia di concetti. Tuttavia, il pensiero dei pensatori, per il ricordo conforme alla storia dell'essere, è la risposta che ascolta, che avviene su reclamo dell'essere: ogni pensatore rimane nel limite di tale reclamo: in questo rimanere fedele al suo limite interno sta la sua storicità. Ciò che è più proprio di un pensatore non è suo possesso, ma la proprietà dell'essere.
Che l'essere determini la verità dell'ente; che disponga (stimmt) un pensiero all'unicità di dire l'essere, e in base a tale disposizione (Bestimmung) richieda un pensatore nella sua determinatezza (Bestimmtheit); che faccia avvenire (ereignet) la verità di se stesso e questo sia l'evento (das Ereignis) in cui è essenzialmente presente: tutto ciò non può essere dimostrato partendo dall'ente, e si sottrae a ogni spiegazione.
Nella storia dell'essere, niente accade, se nell'accadere diamo la caccia a qualcosa che accade; l'accadere stesso è l'unico accadimento: l'evento fa avvenire (das Ereignis er-eignet). L'inizio prende congedo in sè. L'inizio che fa avvenire è la dignità come la verità stessache sporge nel suo congedo. La verità è il nobile che fa avvenire senza avere bisogno di fare effetto.
Invece, la storia dell'essere, nota storiograficamente come metafisica, è caratterizzata da un pro-cedere (Fort-gang) che se va dall'inizio, nel quale l'essere si rilascia nell'enticità che, iniziandosi come idèa, apre la preminenza dell'ente, e in tale rilasciarsi nell'ente lascia apparentemente all'ente l'apparire dell'essere. La metafisica è dunque quella storia dell'essere in cui questi se ne va nell'enticità e rifiuta la radura dell'incominciamento dell'inizio (die Lichtung der Anfaengnis des Anfangs).
Nella metafisica, l'uomo, che conosce l'ente in quanto ente e vi si rapporta, urge verso un dominio nella regione dell'ente scatenato e lasciato in balia di se stesso. (L'abbandono dell'essere scatenato nell'estrema malaessenza dell'enticità si risolve nella macchinazione). L'ente è il reale effettivo che trasferisce la sua essenza nella volontà, che effettua se stessa nell'esclusività del suo egoismo in quanto volontà di potenza. La volontà di potenza vela l'estremo scatenamento dell'essere nell'enticità, in forza del quale quest'ultima diventa la macchinazione. La preminenza del reale effettivo, quale unico ente rispetto all'essere è incondizionata, e in tale situazione viene praticata la dimenticanza dell'essere. Il conoscere si risolve nell'oggettivazione e nel calcolo, che sminuiscono il pensiero, riducendolo a logistica, ossia ad una organizzazione calcolativa che ne ignora l'essenza.
La metafisica - che corrisponde all'età dell'abbandono dell'essere - non può portare la storia dell'essere, cioè l'inizio, nella luce della sua essenza, ma in essa l'inizio si vela fino all'inaccessibilità. Tuttavia la distinzione dell'essere rispetto all'ente - non fondata e al tempo stesso celata - si salva nella forma di quella distinzione di essentia ed existentia (il "che cosa è" e il "che è") che regge tutta la metafisica.
Il "che cosa " l'ente sia è, nella prospettiva dell'ente, l'essere che per primo si cerca nel domandare, e che si arrende alla determinazione solo nella forma dell'enticità.
Tale distinzione, che non è già data, deve essere esperita nel suo inizio, affinchè la metafisica assuma il carattere di decisione e perda la forma apparente di una dottrina.
La storia dell'essere appartiene all'essere stesso, non all'uomo, il quale ne è coinvolto solo in base al reclamo dell'essere e secondo il riferimento all'essere, e non in vista del suo sussistere e operare nell'ente.
Il ricordo che entra nel cuore della storia dell'essere è un memorare (Vordenken) che entra nell'inizio ed è fatto avvenire (ereignet) dall'essere stesso, secondo una scadenza che non si può trovare in base al tempo calcolato storiograficamente, ma che si mostra soltanto a una meditazione, che è già capace di presagire la storia dell'essere, quand'anche ciò riesca solo nella forma di una essenziale necessità che scuote silenziosamente e senza conseguenze tutto il vero e tutto il reale.
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