mercoledì 18 settembre 2013

Ma è ancora possibile la propaganda anarchica?





Domanda che molti anarchici si pongono: mantiene ancora un senso parlare di propaganda anarchica in termini generali, con quell’accattivante retorica del passato con la quale si cercava di disegnare la deliziosa prospettiva di un mondo senza regole asfissianti e controlli odiosi di padroni e poliziotti?

Disegnare i dettagli di un paesaggio ideale, libero da nuvole e piovaschi minacciosi, dove un sole perenne allieta le attività umane diventate piacevoli fino alla noia, è innocente passatempo che non fa male a nessuno.

Solo che continuare a leggere oggi questi slanci lirici non solo è inutile, ma francamente interessa sempre meno.

L’utopia deve restare quel non-luogo che sta sullo sfondo, privo di dettagli e di contorni, perché se si cerca di contrassegnarlo in particolari e processi di accostamento più o meno storici, si corre il rischio di cadere nel ridicolo, mentre tutto intorno le nefandezze del potere dilagano e la rabbiosa voglia di sfruttamento cresce sempre di più.

Conclusione pessimista?

No, penso di no. Solo che bisogna spostare il proprio interesse dalle illustrazioni didascaliche di qualcosa che non c’è oggi, e che non si è nemmeno sicuri ci sarà domani, a qualcosa che oggi c’è, che sta davanti a tutti noi, che ci minaccia, e contro cui possiamo lottare.

Propaganda anarchica come suggerimento di lotta, non come parcheggio di felicità. Per conto suo, il controllo sociale stesso, nel suo tentativo costante di recupero di tutte le istanze di liberazione, fornisce sufficienti suggestioni per come riempire il proprio tempo libero e alleggerire le tensioni.

Propaganda anarchica come strumento che non cancella o alleggerisce le tensioni ma, al contrario, le sottolinea e le acuisce, le rende più facilmente individuabili, allo scopo di mettere a nudo le cause che le determinano e di suggerire i metodi e i mezzi per fare qualcosa non per alleggerirle e nemmeno per ingigantirle, che per quello che sono bastano e avanzano, ma per indicare le strade di un possibile attacco contro i responsabili delle condizioni che queste tensioni sociali producono, mantengono e quasi sempre utilizzano come mezzi per realizzare lo sfruttamento.

Non è una soluzione di ripiego. Non è che vogliamo rinunciare alla validità di testi che in passato hanno avuto il loro ruolo, specialmente sto pensando agli opuscoli di Bakunin, di Malatesta o di Galleani, se non proprio alle grandi opere di Proudhon, Cabet o Fourier. Solo che oggi mi sembra che questo genere di propaganda anarchica non abbia più una possibilità attiva di incidere sulle strutture mentali che il potere ha consolidato nella testa della gente.

Vivere la libertà è l’estrema rarefazione delle possibilità umane, indicare tutto questo come una possibilità che sta davanti a noi, non appena si capiscono e si approfondiscono i princìpi su cui si regge la teoria anarchica, è uno scherzo di cattivo gusto. Non possiamo vivere la libertà se non come processo di liberazione, lento, sanguinoso e difficile, con movimenti che potrebbero essere, via via, tentativi di andare avanti e precipitose fughe indietro. La storia non è quella strada maestra dove si sta svolgendo un processo lineare che da un passato nebuloso e tragico di barbarie procede sicura e diritta verso un futuro luminoso di pace e libertà. Non è certo che l’anarchia sarà perché un movimento meccanicamente determinato la sta producendo sotterraneamente a prescindere dalle nostre lotte e dai nostri impegni attuali e personali. Non c’è nessuna talpa che scava al nostro posto, come non c’è nessun seme sotto la neve che fiorirà al momento del disgelo che non può tardare a venire. Sono tutte idee nate sotto la spinta di concezioni scientifiche dell’Ottocento che oggi persistono solo per pigrizia mentale o per la preoccupazione di non scoraggiare chi quotidianamente si impegna nella lotta.

La propaganda anarchica non può più limitarsi a spiegare l’anarchia e il relativo meccanismo che spinge dall’interno la storia dell’uomo verso la sua realizzazione luminosa, se continuasse a fare questo si suiciderebbe come analisi – riducendosi a banale apologia – e mettere a disposizione dei compagni strumenti per fare soltanto quattro chiacchiere all’ombra di un bel portico fiorito.

L’azione è altro.

Essa è coinvolgimento in prima persona, non descrizione di un procedimento che sta davanti a noi, in corso di accadimento, di cui possiamo illustrare, in maniera più o meno elaborata, il meccanismo. Dell’azione non possiamo soltanto parlarne, le parole, lasciate a se stesse, e non messe lì in attesa di essere fecondate dal calore dell’agire in corso, finirebbero per trasformarsi in mattoni per costruire muri di carcere, non spazi di libertà.

L’irriducibilità dell’azione non è prodotta da una dicotomia, un movimento unitario la sostiene, al di là di tutte le contraddizioni che l’immediatezza alimenta in continua alternanza tra accumulo e interpretazione del materiale accumulato. Ma è pure irriducibilità, cioè qualcosa da cui non si torna indietro intatti. Nessuno si salva dalla ribellione, l’abbacinare della lotta rende attivi, cioè ciechi a qualunque visione rappacificatrice che colga la medietà come garanzia di sicurezza.

Nell’azione sono in grado di valutare i mezzi di bordo, cioè il patrimonio che mi sono portato dietro, e sono anche in grado di distinguerlo dalla eventuale zavorra. Per quanto seducente possa apparirmi questo carico di cui avverto confusamente il peso come elemento e causa di rallentamento, esso può soltanto rendere più difficile l’azione, può complicare la mia esperienza della realtà, ma non rendere vana l’azione. Questa sarà la propria stessa completezza e il proprio codice di lettura.

Disponendomi all’azione scadono d’importanza gli sforzi conoscitivi, che mi assillano a volte per decenni o per tutta la vita. Improvvisamente tutto il mondo si scioglie in una sola peculiarità, quella dell’agire. Ci sono decisioni che solo il coraggio del coinvolgimento rende plausibili, anche se permangono incomprensibili.

Il potere è un mostro proteiforme, non lo si può fissare in un modello rigido: contrapposizione classica a cui ci avevano abituati le analisi marxiste, tante volte – inconsapevolmente – fatte proprie dagli stessi compagni anarchici. Non ci sono ricette valide per tutte le stagioni. I mutamenti che garantiscono la sopravvivenza dello sfruttamento e del controllo sono variabili, si adattano ai cambiamenti della formazione produttiva e alle capacità di resistenza e di attacco di chi subisce lo sfruttamento e il controllo.

Ma queste indicazioni non possono approfondire le tante analisi necessarie in sede di propaganda. Sarebbe necessario impiegare strumenti troppo ampi e complessi per potersi ricondurre al concetto necessariamente essenzializzato di “propaganda”. Devono quindi prediligere l’aspetto dell’azione, precisare i campi di intervento, gli strumenti, gli obiettivi, i metodi, le possibili reazioni del nemico, rinviando ad altro momento le analisi più ampie e dettagliate.

Ecco quindi che si cominciano a delineare le grandi prospettive verso le quali si deve indirizzare la propaganda anarchica.

Il nemico è lì, davanti a noi, nell’illustrare i mezzi per attaccarlo, ecco emergere anche le indicazioni analitiche necessarie per individuarlo. In questo modo il procedimento necessario alla propaganda è esattamente contrario a quello che risulta necessario all’analisi teorica in senso stretto. Non che la prima non sia anch’essa analisi e teoria, in quanto non si riassume in un banale elenco di cose da fare, ma semplicemente sottolinea processi di comportamento e subordina, in seconda battuta, i riferimenti analitici e gli approfondimenti indispensabili per rendere comprensibili quei processi stessi.

La propaganda anarchica diventa quindi strumento indispensabile per preparare l’azione, per quanto non esclusivo. Non c’è dubbio, infatti, che per concludere il cerchio della decisione attiva, il momento in cui si decide quando e come attaccare il nemico, occorre il coinvolgimento personale del singolo compagno, la volontà di agire, il coraggio di abbandonare le remore e le indecisioni. La propaganda può contribuire a un chiarimento delle proprie idee, può far vedere in una luce più vivida i confini e l’estensione delle responsabilità di chi ci sta di fronte e ci sfrutta controllandoci e reprimendoci, ma resterebbe lettera morta senza il passo successivo.

Spesso a fare ostacolo all’azione non sono tanto le forze che il nemico riesce a mettere in campo, quanto le nostre stesse remore: morali, religiose, ideologiche, ecc. Nessuno può dirsi esente da queste remore, e la propaganda anarchica ha un grosso compito da svolgere in questo senso: mettere sotto la propria luce critica questi ostacoli che quasi sempre impediscono più della stessa forza nemica di passare all’azione.

E la grande varietà di prospettive di attacco, ricchezza rivoluzionaria, se non ben approfondita finisce per costruire essa stessa un ostacolo, e anche quindi la propaganda anarchica dà il suo contributo indispensabile facendo vedere quanto è ampia questa prospettiva, quanti sono gli interstizi dove si annida il nemico e come a volte è facile perderlo di vista in un’analisi che proprio per la sua profondità ed accuratezza persegue altri scopi diversi dalla individuazione di responsabilità precise.

Facciamo un esempio. Se parliamo del razzismo, un’analisi, anche estremamente approfondita, potrebbe non essere sufficiente in quanto molti si dicono antirazzisti e invece lo sono soltanto a chiacchiere, anzi, come spesso accade, il loro antirazzismo è la forma più subdola e difficile di razzismo.

Scavare dietro le parole non è semplice, ma oggi, in tempi di giochi ideologici sottili e spesso continuamente raddoppiati e triplicati, diventa indispensabile.

Se Ananke mi spinge necessariamente all’azione, l’agire stesso mi moltiplica sotto gli occhi questa necessità privandomi della soddisfazione di arrivare a una conclusione certa. Il possesso è apparente, quello che stringo tra le mani mi sfugge come sabbia tra le dita. Se mi limitassi a riflettere su quello che la parola può dire di questo abbracciare fantasmi, concluderei per la funzione consolatoria del dire. Ma c’è un agire supplettivo, dietro il quale insisto a correre sollecitato dalla decisione rivoluzionaria di trasformazione, ogni pugno sul muso, se resto fermo sul colpo come un pugile suonato, non mi spinge a trovare camminamenti e interstizi nascosti, mi spinge ad accettare il massimo risultato con il minimo sforzo.

Non posso fronteggiare a lungo la chiusura che mi circonda, le continue riconquiste di territorio che il nemico riesce a realizzare. L’impresa prometeica si può rivelare prima o poi un sanguinoso inganno per produttori. Il desiderio di andare avanti comunque, a qualsiasi costo, è l’intuizione di una completezza che non è reperibile nel mondo immediatamente a portata di mano. Eccomi proiettato verso un altro genere di pienezza, dove suoni e parole si confondono in una sorta di perversità polimorfa che non può essere dominata appieno dalle parole che comunque intendo dire, semplicemente, nero su bianco. L’attacco è ancora tutto da costruire e quello che suggerisco è solo un minuscolo passaggio. Addormentarsi di fronte a questo passaggio è un modo di arrendersi di fronte alle tendenze dell’assopimento, dell’accomodamento.

Dire tutto questo è possibile, ed è questa la propaganda anarchica di cui qui discuto.

Pretendere che qualcosa si concretizzi, qui e subito, qualcosa di quantitativamente enumerabile è buonsenso pragmatico, filosofia dell’acquiescenza e dell’a poco a poco, stanco ripiegamento del capo sotto l’ala prima di prendere sonno. L’anarchico è quello che continuamente va oltre, anche oltre quello che egli stesso pensa sia la linea del non ancora più oltre.

Il dilagare contrastato ma inarrestabile del desiderio all’interno della presunta monoliticità dell’attacco contro il nemico mette in crisi la connessione primaria in base alla quale produco la visione stessa di ciò che contrastandomi mi sta di fronte. Il rapporto con l’oggetto che mi opprime, prima di tutto deve essere sottoposto a una presa in considerazione. Il nemico si muove, ed anche velocemente. Ciò scatena una perplessità nel mio dispormi all’azione. In questa perplessità avverto i limiti protocollari e l’asfissiante controllo del risultato da conseguire a qualsiasi costo. Cerco di respirare, di riprendere fiato, in modo che la supremazia coatta del controllo e della repressione si alleggerisca e mi permetta di attaccare, sia pure in spazi limitati. Ma non è detto che il progetto da me ipotizzato mi venga incontro e mi conforti con opportuni sbocchi operativi, dialoghi con le mie arti intimidatorie, con l’ostentazione narcisistica dei miei labirinti strumentali, con il rifiuto solo apparente, per il momento, dell’ordine immediato che tutto sembra comprendere e giustificare. Devo scavare più a fondo, altrimenti resto a galleggiare ballonzolando in una pozza d’acqua fangosa.

Millenni di condizionamento gravano sulle mie spalle, come faccio ad allungare la mano? Nel momento in cui alzo il braccio questo si appesantisce, la mia azione diventa goffa, non scorre fluida e libera, non ha la spontaneità e la fluidità della zampata della bestia. Sono un uomo civile, acculturato, quindi mi presento con ben poche possibilità di riuscire veramente, liberamente e fino in fondo, ad allungare la mano.

Questo deve spiegare la propaganda anarchica. Non pretendere di fabbricare bestie feroci, ma contribuire alla crescita di compagni coscienti della necessità di superare gli ostacoli che millenni di buone maniere ci hanno costruito attorno, come mura di carceri immaginarie ma non per questo più facili da scavalcare.

Certo, letture edificanti gli anarchici ne fanno tante, e i nomi dei nostri riferimenti canonici sono numerosi oltre ogni dire. Ma tutto questo non corre il rischio di risultare un passatempo agiografico, ottimo solo a stornare dall’azione vera e propria fornendo soddisfazioni e placebo a basso costo? Non dico che sia necessariamente così, dico che potrebbe essere così se queste letture fossero limitate ad una semplice fruizione da “romanzo d’avventure”.

Forse nessun anarchico ammetterebbe di leggere questi testi – evito di fare nomi per non ingenerare equivoci – per puro svago, ma poiché sono poco propenso a fornire credito ad occhi chiusi mi pongo lo stesso il problema.
La propaganda anarchica è, secondo me, un’altra cosa. Deve sollevare problemi, non esaltare comportamenti eroici. Di questi ultimi non ne abbiamo bisogno. Il coraggio delle barricate è merce di non difficile reperimento, quello che si trova con difficoltà è il coraggio dell’azione realizzata in base ad un progetto, dell’azione che sviluppo a seguito di una valutazione critica di quello che sono i miei mezzi e di quello che è la posizione repressiva e di controllo che il nemico di volta in volta riesce a prendere, a mantenere e a sviluppare.
La normalizzazione produttiva che il nemico attua nel suo processo di uniformazione della realtà distorce, devia e tradisce gli stessi intendimenti protocollari, usandone solo una piccola parte, come se un atteggiamento difensivo insospettisse verso le incertezze e i dubbi che ormai dilagano all’interno stesso della scienza mostrando sempre più spesso una insospettata fragilità. La maschera che ne viene fuori deve essere colpita a fondo dal rivoluzionario anarchico, senza che un ulteriore imbroglio fondato sulla sacralità delle scelte logiche o scientifiche lo arresti ai confini del fatto repressivo. Lo scavo deve insistere oltre, con risultati, alla fine, sconvolgenti.

Alfredo M. Bonanno




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Testo introduttivo a
Scaglie. 81 opuscoli di propaganda anarchica
pp. 60 + cd-rom, euro 5,00

(Il CD-ROM allegato contiene una collezione di 81 opuscoli di propaganda anarchica scritti da A. M. Bonanno.

Vengono offerti sia in versione già impaginata e pronta per la stampa in formato PDF, sia in versione HTML)

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