È ovvio che le due sillabe che compongono questo
nome Zo d’Axa, non dicano granché alle generazioni sportive o «cellulari» di oggi. I nostri giovani non
sanno nulla dell’Endehors, de La Feuille e della carriera terribilmente agitata, accidentata, febbrile, di un
combattente che contò a lungo tra i primi dei nostri
giornalisti e dei nostri scrittori.
Questi fu uno dei nostri Maestri – il Maestro dei
Maestri, durante il periodo dell’affare Dreyfus. Come
dimenticarsene? L’affare, il Grande Affare da cui ci si
aspettava tutto, con cui si immaginava poter far leva
per sollevare tutto un mondo d’iniquità, era al suo culmine. Alle porte delle sale di riunione, dove le folle
burrascose, surriscaldate, sovreccitate, mischiavano i
loro clamori e i loro entusiasmi, i venditori ambulanti gridavano: «Chiedete La Feuille... Ultimo numero!».
Che cos’era dunque questa Feuille? Si andava coi propri due soldi, e ci si diceva: «La leggeremo domani. Vedremo!».
Abbiamo visto. La Feuille, non era semplicemente della carta, con dei caratteri neri sopra, delle linee
che si succedevano, della prosa che scorreva... Era una
miccia accesa buona per incendiare le intelligenze, un petardo alla melinite buono per far saltare le coscienze, qualcosa come un lampo folgorante nell’abisso
opaco delle ignoranze, degli egoismi impauriti, delle
vigliaccherie tenaci. La parola d’ordine lanciata alle ribellioni. Il gesto e il grido che tutti coloro che stavano
seduti, tutti coloro che stavano piegati, attendevano
per sollevarsi, con più ardore nella Vita.
La professione di fede urlata per l’Individuo.
Tuttavia questo giornale disorientava gli spiriti.
Non era del tutto pro-Dreyfus come avremmo voluto. Si preoccupava poco dell’innocenza del capitano e
delle peripezie da romanzo d’appendice offerto a tutti
gli appetiti. «Il Mistero dell’Isola del Diavolo!». Titolo
superbo. Episodi palpitanti. Capitolo della condanna.
Capitolo: «J’accuse!». Capitolo: Colonnello Henry! Clamori, urla nazionaliste, rasoi patriottici e, già! (associazione d’idee e di parole) il vivace Charles Maurras,
paladino dell’oscurantismo, insetto saltellante dietro
l’onisco Drumont.
Così lanciato nella zuffa, Zo d’Axa, l’individualista,
porse all’avversario i colpi più duri. Ho, a casa mia, la
collezione de La Feuille, e la sfoglio, durante le ore di
noia e di dubbio. L’effetto è prodigioso. Se ne esce rigenerati, rinvigoriti, nuovi. Nulla vi restava fuori. Prigioni
in Africa, poliziotti, magistrati, torturatori, politici, uomini della finanza, filibustieri di Borsa, miliziani, pretaglia
di ogni confessione e d’ogni sacristia. Non risparmiava
nulla. La sua penna feroce si esercitava contro tutte le malefatte e contro tutte le ignominie. E non perdonava neppure la folla belante e malleabile, impastata d’idiozia, avida di servilismo. Gli capitava di intenerirsi,
stringendo i pugni, le unghie ritratte. Allora diventava
struggente. Il cuore del libellista trasbordava.
Passato tumultuoso. Si viveva con intensità, superbamente. Battaglie in strada, battaglie nei raduni,
battaglie nelle redazioni. Battaglie ovunque, ad ogni
momento. Era una fine e un inizio. Si navigava tra le
frane. Ci si urtava a cumuli di potenze che crepavano vuote e lamentevoli. Il rispetto fuggiva. Guerrieri
si ergevano, completamente nudi e come bestie, senza pennacchio, senza aureola. I governanti, presi dallo
spavento, s’accovacciavano. La società in panico era
tenuta, solidamente, per la gola. Ora, in quei tempi in
cui non si sognava d’altro che di Giustizia e di Verità,
un uomo tenacemente isolato fuggiva a quest’incantesimo. Vi vedeva chiaro e giusto. I suoi occhi carichi
d’ironia discernevano le realtà. E si divertiva, con la
coscienza della sua forza invincibile, a fustigare i greggi allucinati. Per lui, nessun ritornello umanitario. Un
lungo grido di rivolta. Era a colpi sferzanti di cinghia
che risvegliava le lucidità e le energie. Faceva male.
Faceva sussultare e urlare. Ma, nell’orgia spaventosa
del brusio e delle imprecazioni, quel che perforava le
orecchie, era il suo fischio, acutissimo.
La Feuille! Zo d’Axa! L’ho letto, a volte in collera.
Non capivo. Non volevo capire. Cosa chiedeva questo
libellista folgorante, che non era né dreyfusardo, né
antidreyfusardo, né questo, né quello, che rifuggiva da
ogni classificazione, che si piazzava al di fuori dei partiti, dei gruppuscoli, delle cappelle? Che cosa ci offriva? Semplicemente questo: l’affermazione di un uomo che aspirava a realizzarsi pienamente, nell’amore della
vita, con la Verità come unica compagna. Gli bastava
lanciare il suo grido, «in ogni occasione», come soleva
dire, con gioia, con certezza, con rabbia. E i suoi Feuilles s’alzavano in volo, «leggeri o gravi», sorreggendosi, completandosi, «secondo lo scenario della Vita, ad
ogni ora espressiva».
Simili grida urtavano spesso le intelligenze e torcevano i nervi. Il polemista improvvisava «L’Evaso dalle
galere sociali». Si rifiutava di «salire sulle navi imbandierate della religione e della patria». E non voleva
neppure imbarcarsi sulla «zattera senza biscotti della
Medusa umanitaria». Aggiungeva che l’idea di rivolta
non era «una fede destinata ad imbrogliare nuovamente gli appetiti e le speranze». Allora? Era solo, implacabilmente «solo», e rifiutava ogni discepolo. Come
seguirlo? L’En-Dehors. Il Di-Fuori. Era il Di-Fuori. Ciò
significava che intendeva procedere a proprio piacimento, senza appoggi, senza stampelle, armato della
propria Verità, tutta sua. E interrogava, beffardo: «Hai
capito, cittadino?».
Zo d’Axa fu dapprima poeta. Conosco alcuni suoi
brevi poemi: Les Intensifs, che non ha mai pubblicato, dove, già, si rivelava tutt’intero, ossia innamorato
della forma, mai soddisfatto, mirando costantemente
alla purezza dello stile, al dinamismo della parola, al
sapore dell’espressione. Ho conosciuto pochi uomini
capaci di manifestare altrettanta inquietudine di fronte al foglio di carta inchiostrato. Zo d’Axa spingeva gli
scrupoli a tal punto che diventava, diciamo la parola,
stancante.
Il buon Louis Matha, che fu l’amministratore di
d’Axa a l’En-Dehors, si divertiva a raccontarmi come il terribile polemista accorresse, alle due del mattino, in
tipografia, facendo riportare gli stampi, sconvolgendo
tutto, per cambiare una parola, modificare un’espressione, sopprimere una ripetizione. Era il terrore dei tipografi. E, una volta apparso il suo numero, entrava in
collere accese, perché era stata dimenticata una virgola.
Chi volesse definire esattamente d’Axa, e determinare le influenze subite da quest’ammirabile maestro
della penna, per chi «l’azione era veramente la sorella
del sogno», rischierebbe di brancolare a lungo… come
d’Axa stesso. In effetti, cercò se stesso, pazientemente,
ostinatamente. Ciò che lo guidava, era una sorta d’istinto irrefrenabile. Finì per diventare libellista, in tutta naturalezza.
L’En-Dehors si dimenò nella critica audace e folle delle istituzioni e della morale. Prese la difesa dei
deboli, in particolare degli anarchici perseguitati. Ma
queste grida di rivolta o di pietà non erano certo prive d’ironia. L’Ironia, di cui Proudhon ha detto che era
santa, è l’arma sovrana. L’influenza di questo giornale-rivista fu prodigiosa. D’Axa vi spendeva una carica
inesauribile e innescava delle campagne pubbliche
altisonanti. Allo stesso tempo dava prova di una fantasia che nulla poteva turbare. Ma soprattutto, affermava
tranquillamente, superbamente, la sua fede nella Rivolta, il suo desiderio di vita libera e vagabonda, fuori
dagli «steccati della legge».
Venne classificato come anarchico. Ci si sbagliava.
D’Axa ha sempre rifiutato di arruolarsi. Si opponeva
violentemente ai «compagni» che lo circondavano e
gli rimproveravano con asprezza di non subordinare
tutto a «l’ideale anarchico». Per lui, nessuna cappella,
nessuna confessione. Scriveva serenamente: «Bisogna vivere da oggi stesso, immediatamente, ed è al di fuori
di ogni legge, di tutte le regole, di tutte le teorie – anche anarchiche – che noi vogliamo lasciarci andare
sempre alle nostre pietà, ai nostri entusiasmi, ai nostri
dolori, alle nostre rabbie, ai nostri istinti – con l’orgoglio d’essere noi stessi». Teoria sconcertante, si dirà.
D’Axa era così. Bisogna prenderlo tale e quale si affermava lui stesso. Niente di più.
Solo che, in quella bella epoca, gli anarchici che
sognavano di scuotere la società borghese a colpi di
dinamite erano perseguitati, imprigionati, ghigliottinati. D’Axa avrebbe potuto gridare ai magistrati e ai
poliziotti: «C’è un equivoco». Non disse nulla. Lo si etichettava come anarchico. E sia. Si accontentò di un’alzatina di spalle.
Lui, che non credeva affatto alle promesse della fata
Anarchia, non aveva battuto ciglio quando l’avevano
accusato d’essere un anarchico. Difendersi gli sembrava una debolezza. Ma degli anarchici lo trattavano da
aristocratico e – suprema ingiuria – da intellettuale.
Aveva l’immenso torto di respingere tutti i dogmi e
di non inginocchiarsi in nessuna chiesa.
Disprezzava con altrettanta forza i maestri e gli
schiavi. Volentieri, pronunciava, secondo Carlyle: «Ho
il voltastomaco per le classi dirigenti e le classi subalterne mi disgustano». Questo ribelle supponente, ebbro d’indipendenza, che considerava la morale come
un capitolo d’estetica e pretendeva costantemente
d’«agire in bellezza», questo En-Dehors, questo Di-Fuori (che fu spesso un En-Dedans, un Di-Dentro) la cui
sagoma sottile evocava i gentiluomini del Rinascimento, prese la decisione di tacere. Rinunciò alla sterile
battaglia.
En-dehors. Al-di-Fuori. Tutto Zo d’Axa è in questa
parola. Il suo individualismo non ha nulla della «superuomo-mania». Nulla di meno nietzschiano di questo
vagabondo che non può sopportare né giogo né intralcio. Nulla neppure dell’egoismo meschino dei piccoli
uomini contemplatori del proprio ombelico. D’Axa, è
il nomade innamorato impetuosamente della libertà
– la libertà senza argini, diceva Vallès – che non può
piegarsi alle discipline sociali, mantecare in quelle Geenne che sono le città moderne, al quale serve spazio
da divorare, la strada che s’allunga interminabilmente
– tra i canti d’uccelli e sotto le carezze del sole...
Quando si ribella, quando lancia delle grida di rivolta, è perché le bruttezze, le ingiustizie, le sporcizie
che rovinano il paesaggio, inquinano l’orizzonte. Cosa
importano a lui le masse inerti e fiacche che cuociono
nella marmitta della schiavitù! Non pretende perseguire la loro liberazione ad ogni costo. Spetta all’individuo liberarsi, seguire il proprio istinto, fuori dalle
leggi, fuori dai pregiudizi, fuori dalle morali correnti...
secondo le proprie attitudini e le proprie possibilità.
«Basta osare», afferma.
Tanto peggio per l’individuo, se si lascia sprofondare
nelle sabbie mobili della stupidità, dell’ignoranza, della
malvagità. Ma d’Axa non esalta affatto, tuttavia, quella
contraffazione dell’individualismo che mette l’arma in
mano ad un bruto e che tende semplicemente a sostituire un soddisfatto nuovo ad un vecchio soddisfatto, a
piazzare Calibano nel letto del duca Prospero.
Non vuole del resto prestar fede ai domani edenici.
Poco gli interessa che il paradiso venga spostato e che
invece di porlo in alto, lo si ponga, adesso, nell’orizzonte sfuggente.
«È mentire, promettere ancora dopo già tante promesse. I profeti e i pontefici ci prendono in giro mostrandoci, in lontananza, epoche d’amore. Noi saremo
morti; la Terra promessa è quella in cui noi putrefaremo. A che titolo, per quali motivi, ipnotizzarsi sull’avvenire? Basta con le nuvole!».
Così si esprime. Si capisce dunque che questo Aldi-Fuori sorprenda e urti. Per seguirlo, sul suo libero
cammino, bisogna avere due gambe solide e l’occhio
lucido. La sua filosofia non è affatto, come diceva Richepin, per «palati infantili leccatori di crema». Così,
quanto questi termini che si vorrebbe applicargli: indipendente, uomo libero, individualista, sembrano consunti, paonazzi, triti e ritriti! Al-di-Fuori, ecco l’unico
qualificativo che si convenga.
E quando d’Axa giudicò d’aver detto abbastanza, e
che sarebbe stato fastidioso ripetersi, prese il suo bastone e se ne andò per le strade, come l’Ebreo Errante.
Camminò, camminò. Corse verso il Nord e ridiscese
verso i caldo mezzogiorno. Risalì i canali fino al mare.
Vide le Americhe, la Cina, il Giappone, le Indie. L’aria
pura, l’aria abbagliante del largo che gonfiava i polmoni. Allo stesso modo di un altro di-fuori che, stanco
anche lui di scrivere in versi e in prosa, evase dalla
galera sociale, avrebbe potuto scrivere:
«Conosco i cieli che si squarciano in lampi e i turbini, E i rimestii e i tramonti; conosco la sera,L’alba esaltata come un popolo di colombe,E ho visto qualche volta quel che l’uomo ha creduto vedere.»
Avrò fatto capire e sarò riuscito a far amare questo
straordinario Refrattario – l’Insorto totale, irreconciliabile? Quel che bisognerebbe poter esprimere, è tutta
la fantasia di questo girovago lungo le grandi strade
che è uno dei più magnifici scrittori del nostro tempo
e anche la bontà maliziosa che si legge nei suoi grandi
occhi chiari. Vi è ancora qualcosa di infantile nel suo
sguardo che si ciba gioiosamente dello spettacolo della strada come delle nuvole che cambiano in cielo.
Non scrive più. Non vuole più scrivere. Stima d’aver
detto abbastanza. Per d’Axa, la soluzione è trovata. È il
silenzio. Vi indica col dito l’orizzonte che si dissolve
nella sera: — Vedete la stranezza di questo tramonto i
cui aspetti si modificano di minuto in minuto...
E se ne va, con passo ardito, i talloni sonanti, il sogno nei suoi occhi. Il suo compito è compiuto. Ha parlato quando ha giudicato fosse utile. Che cosa gli si
chiede ancora?
Méric Victor
Tratto da: Coulisses et Tréteaux – à travers la jungle politique et littéraire, Valois, Paris, 1931.
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