domenica 8 marzo 2020

Nietzsche: gli individui e i valori dell’umanità

(Ricevo e pubblico)




Farò il tentativo impossibile di darvi in mezz’ora un’idea di che cosa significhi l’individualismo di Nietzsche e di come si differenzi da altre forme tipiche di individualismo che si sono espresse nel corso del secolo XIX. Per riuscirci mi appoggerò a un interprete, Georg Simmel, che a Nietzsche ha dedicato molte acute riflessioni nei saggi che ho raccolto nel volumetto Nietzsche filosofo morale.

Su questa strada incontriamo, prima di Nietzsche, due singolari personaggi: un teologo luterano, Friedrich Schleiermacher, autore all’inizio dell’Ottocento dei Monologhi, e a metà del secolo L’unico e la sua proprietà di Max Stirner, considerato il manifesto di un individualismo estremo, che rivendica all’io le caratteristiche di autosufficienza del dio delle religioni. Questi vuole liberare gli individui da ogni legame comunitario e da ogni forma di dipendenza da idee e valori generali e difendere la sua assoluta non comparabilità (unicità). Quanto al primo, può sembrare strano che una delle prime espressioni forti della legittimità di visioni del mondo religiose ed etiche nettamente differenziate appartenga a un teologo, ma la cosa diviene comprensibile se si pensa che il cristianesimo stesso, con il suo assunto di anime di valore infinito che sono oggetto di cura da parte di dio, ha posto le premesse per una simile accentuazione del sentimento di sé. in lui peraltro queste affermazioni di sé avvengono nel presupposto di una loro possibile armonizzazione, come forme, ciascuna, di realizzazione parziale di un’umanità comune.

Stirner, di una generazione più giovane, ebbe modo di frequentare a Berlino le lezioni Schleiermacher, ma si pose su un terreno diverso e apparentemente opposto, quello di una critica radicale della religione e addirittura di ogni manifestazione di ciò che chiama «sacro». L’umanità gli sembra appunto una di tali manifestazioni e quindi da respingere. Ciò gli fa perdere di vista ciò che forse a quell’epoca non poteva essere percepito: come la religione, o almeno una certa sua evoluzione, potesse convergere con la critica della religione nel sostenere i processi di individualizzazione propri della modernità.

Le violente polemiche di Nietzsche contro la religione, e il cristianesimo in particolare, condotte in nome delle istanze dello «spirito libero», uno spirito appunto non vincolato da autorità di qualsivoglia genere, e poi del «superuomo» sembrano porlo oltre ogni ombra di dubbio dal lato della tradizione individualistica inaugurata da Stirner. Eppure le cose non sono così semplici. Lo slancio ribellistico dell’io solitario che si erge contro le tradizioni, le comunità ed ogni espressione del sacro, e che corrisponde anche, in termini storici, al momento ascendente delle rivoluzioni, si direbbe in via di esaurimento o di inversione. Se l’individualismo continua ad agire, e in certo senso guadagna forza, lo fa a prezzo di abbandonare la sua purezza.

In Umano troppo umano Nietzsche ha mostrato come la rottura di comunità tradizionali coese, la messa in discussione di tradizioni ritenute sacre, ha aperto la strada a nuove possibilità di sviluppo di «spiriti liberi».

La prima condizione per il riconoscimento del valore della individualità propria è una conciliazione con ciò che è stato sempre vissuto con rimorso, in quanto si opponeva al valore morale centrale dell’«essere legati» (Gebundensein). La buona coscienza con cui l’individualità viene finalmente vissuta favorisce la formazione di individualità forti e il compimento di grandi azioni. La moralità, opera di questo individuo cosciente di sé, si configura sempre più come invenzione personale degli stessi criteri di valore. Attenersi a prescrizioni morali uniformi per tutti ha senso solo per individui che «non si riconoscono in modo rigorosamente individuale e debbono avere una norma fuori di sé».

Questo tema di un individuo forte che si sottrae al peso della tradizione, accentuato fortemente negli scritti del periodo intermedio della produzione di Nietzsche (il cosiddetto periodo «illuministico»), cede progressivamente al motivo, apparentemente opposto, secondo cui l’individuo acquista grandezza attraverso un sentimento cosmico che gli consente di riprendere in sé l’infinito corso degli eventi. A questa apertura corrisponde una revisione dell’idea tradizionale del soggetto come unità sovrana. L’io cosciente viene indebolito, dissolto in una serie di istanze inconsce, concepito come uno strumento al servizio della saggezza dell’organismo, che non attende questo sviluppo per svolgere le sue funzioni autoconservative. È una finzione regolativa, che serve ad assicurare una certa stabilità e riconoscibilità. Nel Crepuscolo degli idoli questo costrutto viene riportato al bisogno di indicare un responsabile di ciò che accade, un centro di imputazione. Da questo assunto morale, già esaminato nell’aforisma 107 di Umano troppo umano, sarà possibile liberarsi con l’avvento della «saggezza», che rinuncia al giudizio e riconosce l’«innocenza del divenire».

A Nietzsche non interessa che venga riconosciuta la legittimità di ogni affermazione di sé, ma soltanto di quegli «individui eccellenti», quelle personalità eroiche, che sanno ricomprendere in sé, accettandola, tutta la ricchezza dello svolgimento cosmico e storico che li precede. Si potrebbe perfino dire che un nuovo elemento sacrale, mitico, venga introdotto, e il linguaggio profetico dello Zarathustra ne è testimonianza. Quasi a sancire il fallimento del tentativo stirneriano di proclamare l’assolutezza dell’io.

La polemica anticristiana nasce da un fraintendimento di quale sia l’intento principale del cristianesimo. Questo viene confuso con una morale dell’abnegazione e dell’altruismo nella quale Nietzsche scorge i segni della decadenza. Ma dimentica, come ha osservato Simmel – l’idea è troppo felice perché possa appropriarmene senza citare la fonte – che questa morale è solo lo strumento che rende possibile il raggiungimento di un vertice di crescita e di perfezione che è ciò che la visione cristiana del mondo ha propriamente di mira. E questa crescita e perfezionamento di sé non è niente di troppo diverso da ciò che Nietzsche ha di mira, per cui, malgrado le intenzioni, la sua concezione è maggiormente imparentata al cristianesimo di quanto egli creda. Le caratteristiche di questa opzione morale, che privilegia la dimensione del perfezionamento interiore degli individui, si colgono meglio se vengono definite in contrasto al modello opposto, di tipo «sociale», sviluppato da Kant e dai socialisti, che assegna alla morale piuttosto il compito di sostenere la possibilità della convivenza. Il principio di universalizzazione (agisci in modo che la massima della tua azione possa divenire legge universale) allude a questo compito in modo trasparente.

Il recupero di una dimensione «sacrale» dell’esistenza comporta inaspettatamente, rispetto all’immagine convenzionale che ci è stata trasmessa di Nietzsche, un’apertura verso i «valori dell’umanità» – quei valori dell’umanità che i suoi contemporanei «evoluzionisti» ponevano al centro dei loro sistemi di progresso. Si potrebbe dire, ed è stato detto, che egli sia un evoluzionista di genere particolare. L’avanzamento dell’umanità non si compie attraverso una marcia in avanti d’intere masse umane ma attraverso l’agire dei suoi individui migliori. Esiste una totale reciprocità tra i due momenti dell’umanità e delle individualità, al punto che si può dire che la prima non è pensabile senza l’altra, ne viene totalmente assorbita. Ciò che manca in questo schema è l’aggregazione concreta degli individui, cioè il termine «società». Se l’ispirazione latamente umanistica di questa concezione è fuori discussione, resta il fatto che essa si pone in contrasto con ogni filosofia sociale.

L’identificazione moderna di società e umanità viene infranta e riemerge quella illustre tradizione della storia dello spirito – dai cinici agli stoici fino a Rousseau e al cosmopolitismo settecentesco – per la quale l’umanità e l’individuo procedono uniti, implicandosi a vicenda e facendo fronte contro la costruzione media della società. L’evidenza «sociologica» che le forme di modellamento sociale sono influenti anche per l’estrinsecazione dei valori puramente individuali viene però in questo modo sottovalutata.

Siamo comunque al di fuori di una concezione dell’individuo come pura insularità. L’individuo, arriva a dire questo individualista sui generis, è «un errore»: «non è nulla per sé, non è un atomo». Questo non significa però che esso si esaurisca nelle interazioni sociali, nell’esercizio del dare e del ricevere all’interno del proprio gruppo, bensì che «è l’intera unica linea uomo prolungata fino a lui». La società non può esistere, in quanto tutto, nei singoli, esiste invece, secondo l’interpretazione di stampo sociale, come un che di autonomo, e il singolo può esistere solo al suo interno. L’umanità invece può esistere nel singolo, cosicché Nietzsche prosegue: «Se l’individuo rappresenta l’ascendente della linea, la vita nella sua totalità compie con lui un passo avanti».

A seconda che si adotti l’una o l’altra prospettiva, quella sociale o quella dell’umanità, il singolo assume un diverso valore. Per il punto di vista sociale gli individui si equivalgono, appaiono livellati, dotati tutti del medesimo valore: e quindi è giusto che i molti prevalgano sull’uno e che la protezione dell’interesse sociale dei più appaia doveroso. L’umanità viceversa non si presenta come alcunché di solido e autonomo che si contrapponga agli individui e li sovrasti, ma rifluisce negli individui che la rappresentano.

Questa figura di individualismo differisce da quella liberale. Il liberalismo infatti è pur sempre un ideale sociale, anche se ripone la realizzazione di tale ideale nella espressione della libertà dei singoli. Come abbiamo detto, l’interesse di Nietzsche non si rivolge al singolo in generale, in quanto elemento della società, ma a determinati singoli, che non sono uguali agli altri e che con la loro diversità permettono al tipo umano di raggiungere un grado più elevato.

Una naturale distanza separa gli individui, ed è innaturale ogni ideale democratico e socialistico che la neghi e raccomandi attenzione verso chi è rimasto indietro. Ogni rallentamento del cammino verso l’alto per riguardo a quelli che sono rimasti indietro appare persino una sorta di delitto contro l’umanità. Il superamento dell’uomo, che Nietzsche predica, non consiste nel trascendere, come in Kant, gli aspetti più vili dell’umanità, quelli sensibili, né nel rivolgersi, con sguardo compassionevole, verso la sofferenza dei più miseri, secondo l’insegnamento di Schopenhauer, ma nel potenziare la propria energia positiva, forza e bellezza, senza lasciarsi invischiare dal dolore del mondo e dai sentimenti impuri da cui sono mossi i compassionevoli, che pretendono di sbarazzarsene e non ne riconoscono la necessità per lo sviluppo dell’umanità.

Nietzsche condivide l’obiettivo stirneriano di liberare gli individui dal senso di colpa, e innanzitutto dalla colpa di essere se stessi. Ma per lui questa colpa può essere superata solo a condizione di rinunciare alla limitatezza del punto di vista dell’individuo.

Il concetto di sacro che affiora in questa ridefinizione nietzschiana dell’individuo non implica tuttavia quel vissuto di dipendenza che Schleiermacher aveva riconosciuto come elemento distintivo della religione, ma che anche un critico della religione come Feuerbach aveva riproposto in un orizzonte immanentistico come sua eredità ineliminabile. Non è facile precisare infatti se il superamento della prospettiva dell’individuo corrisponda a un riconoscimento di limiti o a una più esaltata coscienza di sé, che rischia di compromettere la giusta intuizione della necessità per l’individuo di «farsi parte». Se è vero che la forza dell’individuo viene collegata alla sua capacità di aderire all’intero processo del divenire, questa capacità è sempre sul punto di diventare una capacità di appropriazione e di conseguenza il fondamento di un sistema di differenze e preminenze gerarchiche.

L’affermazione che l’ego rappresenta l’intera catena dell’essere fino a lui potrebbe essere letta in senso solidaristico, come il riconoscimento di un’affinità di fondo che unisce tutti gli esseri, malgrado le differenze, in un destino comune. Ma Nietzsche fa valere questo carattere riassuntivo dell’io esattamente per il motivo opposto, per rimarcare la differenza di valore di ciascuno di questi percorsi, ciascun ego riepiloga a suo modo l’intero cammino evolutivo che lo precede, attraverso un punto di vista selettivo, che lo rende distante e incomparabile con qualsiasi altro. Il generico attaccamento a sé dell’individuo non ha valore alcuno, né merita alcuna speciale considerazione, solo l’egoismo dei grandi individui ha interesse per l’umanità. Questo egoismo consiste nel volere il destino del mondo, ovvero nell’inglobare in sé l’intero suo divenire. Il senso di appartenenza, che la formula sembrava suggerire, slitta così impercettibilmente verso l’incorporazione del mondo. Alcuni critici hanno utilizzato, a proposito di questo «rospo gonfiato fino all’inverosimile», proprio le metafore dell’«incorporare», del «divorare» o del «fagocitare» il mondo.

Nietzsche prospetta una concezione che lascia trasparire meglio di quelle dei suoi precursori l’ambivalenza del soggetto e i pericoli a cui è esposto. Permane l’ideale di un uomo grande, che si spinga anzi oltre i limiti dell’umano, come suggerisce il termine Übermensch. Uno degli aspetti di questa grandezza consiste nella invenzione o creazione dei propri criteri morali di condotta. La scelta etica non ha principalmente un orientamento sociale ma è volta all’incremento del proprio sé. Il dovere è collegato al potere, al possesso di risorse, a un’espansione vitale. L’individuo grande è quello che è capace di volere che la propria vita sia ripetuta all’infinito. Resta indeterminato se l’espansione di sé sia volta ad una auto-affermazione sugli altri o possa assumere anche l’aspetto dell’abnegazione. È singolare l’interesse che Nietzsche dimostrò per un giovane autore a lui contemporaneo, Jean-Marie Guyau, di cui annotò diligentemente e con lode l’opera Esquisse d’un morale sans obligation ni sanction (1885). Il punto di divergenza era costituito dalla interpretazione altruista che Guyau dava di quello slancio vitale da cui faceva dipendere la vita morale, e che Nietzsche trova affine alla propria Wille zur Macht. Nietzsche notava che non c’era ragione per escludere che essa si potesse esprimere invece nella forma di una prevaricazione sull’altro. Quali argomenti poteva portare Guyau a difesa della propria versione buonista della «volontà di potenza»? Poteva notare che se la vita individuale, per esprimersi, ha bisogno di farsi valere su o contro gli altri, dimostra proprio così di non essere autosufficiente. Nello stesso spirito, nel suo Schopenhauer e Nietzsche, qualche anno dopo (1907), Simmel osservava che l’idea di dominio sugli altri contrasta con l’ideale della distinzione, perché il dominatore dimostra di non bastare a se stesso, «di non essere capace, come vita individuale, di vivere delle proprie forze».

L’ambivalenza di questa posizione, che alterna vissuti di superiorità e di annullamento, può forse gettare qualche luce sul tragico destino personale di questo «uomo del sottosuolo», diviso tra l’aspirazione a capovolgere tutti i valori fino allora riconosciuti e la persistenza in lui del vecchio istinto altruistico, che lo allontana dal superuomo di cui predica l’avvento. La difficoltà di questa posizione può essere riportata, se vogliamo usare un linguaggio religioso, alla pretesa di sostituirsi a Dio. Nietzsche, come ha osservato Simmel, «vuole liberarsi dal tormento della lontananza da Dio». Non può tollerare di non essere Dio, analogamente ai mistici cristiani o a Spinoza. L’intollerabilità dell’opposizione tra Dio e l’io nel caso della mistica si annulla per il fatto che cade l’io – questo è pure il senso dell’affermazione spinoziana omnis determinatio est negatio –, mentre Nietzsche ottiene lo stesso risultato negando Dio.

FERRUCCIO ANDOLFI

Conferenza tenuta a Roma
 23 maggio 2014


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