mercoledì 25 marzo 2020

Il miracolo secondo Jùnger

    



    Viviamo in un’epoca in cui è difficile distinguere la pace dalla guerra. I confini tra obbedienza cieca e delitto sono sempre più incerti. E persino l’occhio più esercitato è tratto in inganno perché sempre, in ogni singolo caso, interviene la confusione dell’epoca, la colpa universale. Tutto è poi reso ancora più difficile dall’assenza di prìncipi, nonché dal fatto che non c’è potente che non abbia percorso, un gradino dopo l’altro, la scala ascendente del sistema partitico. È infirmata così fin dall’origine l’idoneità a compiere atti rivolti al bene comune: trattati di pace, sentenze, feste, elargizioni e accrescimenti. Le forze al potere intendono piuttosto vivere a carico della totalità; sono incapaci di preservarla e di arricchirla col dono di un’eccedenza interiore, ossia col dono dell’essere. L’intero capitale è così disperso dalle fazioni vittoriose, a favore di prospettive e iniziative che durano lo spazio di un giorno – proprio ciò che già paventava il vecchio Marwitz.

    In questa scena, l’unico elemento confortante è che si scende in una direzione precisa, verso una meta ben definita. Periodi come il nostro un tempo erano chiamati interregni, mentre oggi si presentano come un paesaggio industriale. La loro caratteristica è quella di mancare di certezze ultime. E sarebbe già molto riconoscere che così deve essere: e che è meglio, comunque, che reintrodurre o conservare elementi logori attribuendogli un valore di certezza. Come l’occhio rifiuta l’inserimento di forme gotiche nel mondo delle macchine – così accade per il mondo della morale.

    È un tema che abbiamo trattato esaurientemente nel nostro studio sul mondo del lavoro. Non si può esimersi dal conoscere le leggi del paesaggio in cui si vive. D’altra parte la coscienza che fonda i valori rimane incorruttibile: da ciò la sofferenza e la percezione, inevitabile, della perdita. La vista di un cantiere non ci può dare lo stesso piacere riposante di un capolavoro e neppure possono essere perfette le cose che vediamo al suo interno. Il prenderne consapevolezza è segno di onestà che indica rispetto verso ordinamenti superiori. Questa onestà crea necessariamente un vuoto che è evidente per esempio nella pittura, e che ha anche dei riscontri nella teologia. Ma la coscienza della perdita si esprime inoltre nel fatto che ogni attendibile giudizio sulla nostra condizione fa riferimento al passato o al futuro. A parte le dottrine cicliche, si arriva così alla critica della civiltà o all’utopia. L’allentarsi dei vincoli imposti dal diritto e dalla morale è anche uno dei grandi temi della letteratura. In particolare, il romanzo americano spazia in territori dove non esiste la benché minima traccia di obblighi morali. Ha toccato la nuda roccia che altrove è ancora ricoperta dall’humus degli strati in decomposizione.

    Nel bosco dovremo essere pronti ad affrontare crisi da cui non usciranno intatti né la legge né i costumi. Potremo fare osservazioni simili a quelle svolte all’inizio del libro a proposito delle elezioni. Le masse seguiranno la propaganda, che le costringe a un rapporto tecnico sia con il diritto sia con la morale. Non così il Ribelle. Quella che egli deve prendere è un’ardua decisione: riservarsi sempre di esaminare ciò per cui è richiesta la sua approvazione o la sua adesione. Non saranno sacrifici di poco conto. Tuttavia ne trarrà un guadagno immediato in fatto di sovranità – anche se solo pochissimi, allo stato attuale delle cose, lo percepiranno come tale. Ma il dominio può venire unicamente da quegli uomini che hanno mantenuto intatta la consapevolezza della dimensione originaria dell’uomo; e che da nessun potere superiore potranno mai essere indotti a rinunciare ad agire da uomini. In che modo ciò sia possibile è un problema della resistenza, che non necessariamente deve risolverlo alla luce del sole. Pretendere che ciò avvenga è una tipica idea di chi sta a guardare, e in pratica equivale a consegnare in mano ai tiranni l’elenco degli ultimi uomini. 
Quando tutte le istituzioni divengono equivoche o addirittura sospette, e persino nelle chiese si sente pregare ad alta voce non per i perseguitati bensì per i persecutori, la responsabilità morale passa nelle mani del singolo, o meglio del singolo che ancora non si è piegato.

    Il Ribelle è il singolo, l’uomo concreto che agisce nel caso concreto. Per sapere che cosa sia giusto, non gli servono teorie, né leggi escogitate da qualche giurista di partito. Il Ribelle attinge alle fonti della moralità ancora non disperse nei canali delle istituzioni. Qui, purché in lui sopravviva qualche purezza, tutto diventa semplice. Abbiamo visto che la grande esperienza del bosco è l’incontro con il proprio io, con il nucleo inviolabile, l’essenza di cui si nutre il fenomeno temporale e individuale. Anche sul piano morale, questo incontro così importante sia nel guarire sia nel fugare la paura ha un valore altissimo. Porta verso quello strato sul quale poggia l’intera vita sociale e che sin dalle origini è sotteso a ogni comunità. E verso quell'essere umano che costituisce il fondamento di ogni elemento individuale e da cui s’irradiano le individuazioni. In questa zona non ritroviamo soltanto la comunanza: qui c’è l’identità. È questo che si profila nel simbolo dell’abbraccio. L’io si riconosce nell’altro – secondo la formula antichissima: «Tu sei quello!». L’altro può essere la persona amata, e anche il fratello, il dolente, lo sprovveduto. L’io che gli porge aiuto s’innalza nell'imperituro. Qui si consolida la struttura che è a fondamento del mondo.

    Sono fatti di esperienza. Oggi conosciamo moltissime persone che nella loro vita hanno attraversato i centri dell’ingranaggio nichilistico, gli abissi più profondi del maelstrom. Costoro sanno che lì il meccanismo si rivela sempre più minaccioso; l’uomo si trova al centro di una grande macchina ideata per distruggerlo. Ed essi hanno dovuto sperimentare che ogni razionalismo sfocia nel meccanismo, e ogni meccanismo nella tortura, che è la sua logica conseguenza. Nel diciannovesimo secolo non era ancora possibile rendersene conto. 
    
    Soltanto un miracolo può salvarci da questo gorgo. Un miracolo che si è già ripetuto innumerevoli volte: quando, tra le cifre inerti, l’uomo è comparso a porgere aiuto. Fin dentro le prigioni, anzi lì più che altrove. In ogni situazione e di fronte a chiunque il singolo può diventare il prossimo – rivelando così i suoi tratti originali, la sua nascita principesca. In origine la nobiltà consisteva nell’offrire protezione dalla minaccia di mostri e demoni. È ciò che tuttora distingue un carattere superiore: ed è quanto ancora risplende nella figura del secondino che passa di nascosto al prigioniero un tozzo di pane. Quei gesti non possono andare perduti: il mondo intero ne vive. Sono i sacrifici su cui esso poggia.

Ernst Jünger

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