giovedì 4 luglio 2019

La prospettiva antigiuridista di Max Stirner: dalla forza dell’unico all’unione degli egoisti



Nel 1847, Stirner pubblica sulla rivista Die Epigonen, con lo pseudonimo G. Edward, un testo che s’intitola Die philosophischen Reactionäre (I reazionari filosofici), in cui egli replica alle critiche contro L’unico e la sua proprietà contenute nel saggio I sofisti moderni di Kuno Fischer. Nel testo in questione, spicca un passo accorato e tracotante, tra i più risoluti mai scritti dal filosofo tedesco, dove si ribadiscono con estrema nettezza (quasi con ferocia) i maggiori tic stirneriani: l’autocreazione dell’unico, la sua “indicibilità”, l’egoismo, la lotta senza quartiere contro le astrazioni umanitarie; in più, vi fa capolino un inedito riferimento a ciò che Stirner chiama “terrorismo dell’io”, da lui contrapposto al “terrorismo dell’umanità”: «Tu pretendi da me che io sia “uomo”? Più precisamente, che io sia “maschio”? Beh! Ma “uomo”, “nudo omuncolo” e “maschio” ero già nella culla; io lo sono senz’altro, ma sono anche più di questo: sono diventato me stesso per opera mia, sviluppandomi, appropriandomi del mondo esterno, della Storia, ecc.; io sono “unico”. Ma tu, in realtà, questo non lo vuoi. Tu non vuoi che io sia un uomo autentico; per te la mia unicità non vale niente. Tu vuoi che io sia l’“uomo” per come tu l’hai costruito, quale modello per tutti. Vuoi che nella mia vita diventi norma il “plebeo principio dell’uguaglianza”. Principio per principio! Esigenza per esigenza! Io ti oppongo il principio dell’egoismo. Voglio essere soltanto io; disprezzo la natura, gli uomini e la loro legge, nonché la società umana e il suo amore, e tronco ogni rapporto con essi, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese del vostro dovere, a tutte le prescrizioni del vostro giudizio categorico, oppongo l’“atarassia” del mio io; e già sono accomodante, se mi servo del linguaggio, io sono l’“indicibile”, “io mi mostro soltanto”. Col terrorismo del mio io [dem Terrorismus meines Ichs], che respinge tutto ciò che è umano, non ho forse tanta ragione [Recht] quanta ne avete voi, che col vostro terrorismo umanitario [Terrorismus der Humanität] mi marchiate subito come “disu­mano” [Unmenschen], se pecco contro il vostro catechismo, se non mi lascio disturbare nel godimento di me stesso?»1.
Ci sono parole che ci pregiudicano, parole che inventano o rafforzano spettri per subordinare uomini e cose ad un potere, a un’idea del potere.
Gli spettri possono essere molto pericolosi, anche quando non appaiono immediatamente spaventevoli.
Una mela, come qualsiasi altro oggetto del mondo materiale, continuerebbe ad essere una mela anche se non la si chiamasse più così, per cui la parola mela non sarà mai più vera del frutto. Viceversa, i fantasmi vivono grazie al pensiero e soprattutto all’interno del pensiero. Sono fatti di parole strutturate in idee fisse, come pure di paure collegate a quelle stesse parole. Per questo motivo, gli spettri non sono mortali come i viventi e possono risultare più veri delle cose materiali, più forti degli uomini in carne ed ossa che li pensano. Il termine terrorismo è una di quelle parole – termine che vuole essere una vera terminazione, una indiscutibile determinazione. Ce ne rendiamo conto soprattutto quando accade che giunga a sconfessarsi da solo chi lo usa in malafede: «Riuscire ad etichettare la controparte come terrorista (sulla base di una valutazione opportunistica) comporterebbe l’isolamento dei “terroristi” da parte della comunità internazionale e la loro conseguente sconfitta»2.
Il terrorista diventa così l’Unmensch, il non-uomo, il mostro. Basta la parola. È sufficiente infatti una “valutazione opportunistica” nelle sedi appropriate e lo spettro agisce, s’insinua.
Ciò che definiamo materia, ovvero tutta la materia fisica esistente, è un moto perpetuo di energie all’interno dei diversi stati e tra le molteplici mescolanze che essa può assumere al tocco o agli occhi dei viventi.
Il movimento dell’energia sostanzia e dà forma alla materia. In ambito umano, ciò implica che anche le idee sulla materia sono frutto delle energie che noi incarniamo e che ci attraversano. In altre parole, i corpi delle cose che ci appaiono vive o inerti, come pure i perimetri delle idee che ce ne facciamo, sono campi di forze in continuo mutamento.
Le parole che incidono sul vivente sono quindi già una componente – un’estensione simbolica, definitoria o prescrittiva – dei processi concernenti i rapporti di forza sociali.
Pur essendo irrealizzabile da parte nostra un radicamento definitivo e assoluto all’interno dei campi di forze che modellano la cosiddetta realtà – rivelandosi assai labile ogni tipo di attaccamento ai territori che l’umanità non cessa di delimitare – e questo per l’irrimediabilità stessa del movimento che fonda la materia “umana” della realtà – in un tale flusso può tuttavia emergere e venirsi a delineare una forza (una dimensione vettoriale) che trasmetta, affermi e renda tangibile, anche in modo apprezzabilmente costante, l’unicità di tutti quegli elementi che tendono a qualificare l’autonomia del movimento contro gli ostacoli che l’umano stesso gli opponga per fissare storicamente la propria potenza. Se così non fosse, la qualità dei viventi che chiamiamo “unicità”, la quale è anche una qualità possibile dei loro rapporti, non esisterebbe neanche.
In fisica meccanica, una forza è la grandezza fisica vettoriale che nasce e si manifesta nell’interazione tra due o più corpi; proprio perché vettoriale, essa presenta quindi una direzione, un verso e un’intensità nello spazio tridimensionale. La sua caratteristica saliente, e che qui si sottolinea, è indurre una variazione nello stato di quiete o di moto dei corpi stessi3.
Calata nel contesto naturale o sociale delle interazioni esistenti tra le diverse forme di vita, la forza è la tensione, l’in-quietudine insita nel loro stesso vivere. In tale prospettiva, la manifestazione di una qualsiasi forza implica sempre l’esistenza di un rapporto tra corpi, il quale risulta pertanto un rapporto di forza tra due o più elementi del mondo.
A ben vedere, i rapporti naturali o sociali sono quindi dei particolari rapporti di forza. Scaturiti dall’energia del vivente, essi sono dei tentativi per dividere e fissare, nello spazio e nel tempo, una determinata espressione della forza al fine di appropriarsene, nutrirsene e gestire in modo fruttuoso, o comunque funzionale, la potenza che ne scaturisce. In altre parole, i rapporti di forza tra i viventi costituiscono le linee che formano la trama del mondo, ossia quel determinato territorio in cui nascono, si riconoscono e si relazionano criticamente le diverse forme di vita.
Al di là delle costruzioni teoretiche dei giuristi di ogni tempo, la forza è il vero fondamento del potere, quindi anche del diritto oggettivo, vale a dire di quell’insieme di norme atto a regolare una data comunità umana sotto l’egida di un apparato statale, burocratico.
Nel Der Einzige, Stirner tratteggia più volte la genealogia del diritto in una prospettiva antigiuridista, contrapponendo la potenza dell’unico al potere dello Stato: «Il diritto è lo spirito della società [Das Recht ist der Geist der Gesellschaft]. Se la società ha una volontà, questa volontà è appunto il diritto: essa esi­ste solo grazie al diritto. E siccome esiste solo perché esercita un dominio sui singoli, il diritto è pertanto la volontà del dominatore. (…) La società fa sì che ognuno abbia il suo diritto, però questo è sempre il diritto sancito dalla società, il diritto della società, non realmente il suo proprio diritto. Io però mi do o mi prendo il diritto nel pieno della mia forza [aus eigener Machtvollkommenheit], e contro ogni autorità resto un criminale impenitente. Proprietario e creatore del mio diritto – io non riconosco altra fonte del diritto che – me stesso, né dio, né lo Stato, né la natura e neanche l’uomo stesso coi suoi “eterni diritti dell’uomo”, quindi né il diritto divino, né il diritto umano»4. E ancora: «Riguardo al diritto ci si chiede sempre « Chi o cosa mi dà il diritto di far questo? ». Rispo­sta: dio, l’amore, la ragione, la natura, l’umanità, ecc. No, solo la tua forza, solo la tua potenza ti dà il diritto [nur deine Gewaltdeine Macht gibt Dir das Recht]. (…) Ciò significa nient’altro che questo: hai il diritto di essere ciò che hai la forza di essere. Io derivo ogni diritto e ogni legittimazione da me stesso; sono legittimato a tutto ciò di cui sono capace [per cui ho la forza; Ich bin zu Allem berechtigt, dessen Ich mächtig bin5.
Chi parla di legittimazione della forza pone sul tappeto, invariabilmente, la questione della violenza.
Per violenza, va intesa un’applicazione di forze finalizzata alla modifica perentoria (alla forzatura) di uno stato fisico, di un ambiente sociale; in ogni caso, tale forzatura viene vissuta o ritenuta un abuso da almeno uno degli attori in gioco.
Se la violenza si colloca entro una legittimità codificata dal diritto naturale o positivo, è sempre la manifestazione di una forza che emana da un potere, il quale beninteso può essere anche embrionale, anche in fieri. In caso contrario, qualora il suo scatenarsi non preservi o ponga in essere alcun dispositivo giuridico, la violenza sarà un insieme di forze tendenzialmente anarchiche e che si oppongono ai poteri costituiti.
Partendo da fini che si presumono giusti, o da mezzi che si ritengono legittimi, la violenza viene quindi avvallata e indirizzata, nella stragrande maggioranza dei casi, o da un potere o da flussi di rottura della norma. Nel secondo caso, quando il movimento di rifiuto si allarga e si radicalizza su scala sociale, si può passare da trasgressioni episodiche, di natura “criminosa”, ad un flusso insurrezionale endemico, cosciente, unitario. Esistono dunque essenzialmente due dinamiche: una violenza che fonda e conserva il potere e una violenza che afferma dinamiche di liberazione senza porsi alcun limite “giuridico”.
La legittimazione della violenza implica sempre una certa zona di consenso più o meno ampia, la cui gestione pertiene in via esclusiva al potere di regolazione dello Stato. Logicamente, la violenza che contrasta o elude il diritto statale, crea un movimento di disturbo o di sovversione che apre nuove eventualità.
La prospettiva dell’unico – dell’egoista che si autolegittima tramite la propria potenza – oltrepassa d’un balzo le antinomie legalità/illegalità e violenza/non violenza. Tali dicotomie vengono infatti eluse o infrante in base ai rapporti di forze e alle necessità contingenti.
Ciò comporta un conflitto inevitabile. L’unico finisce infatti per scontrarsi ineluttabilmente contro Stato e società.
In quanto unico, io cerco di prendere ciò di cui ho bisogno, tento di non farmi diminuire nella mia potenza e mi voglio come «l’inizio e il materiale da usare per una nuova storia, una storia del godimento dopo la storia del sacrificio [einer Geschichte des Genusses nach der Geschichte der Aufopferungen], una storia non dell’uomo o dell’umanità, ma – mia. (…) Perciò noi due, lo Stato ed io, siamo nemici. Io, l’egoi­sta, non ho a cuore il bene di questa “società umana”, non le sacrifico nulla, la uso soltanto; ma per utilizzarla appieno, la trasformo in mia proprietà [Eigentum] e in mia creatura, cioè io l’anniento e costrui­sco al suo posto l’unione degli egoisti [Verein von Egoisten]»6.
1  KS, 182. Si fa notare che nel testo del Der Einzige non compaiono mai i termini Terror e Terrorismus.
2  Arnaldo Grilli [generale dei Carabinieri], Antonio Picci [avvocato penalista e criminologo], Il regno della virtù. Analisi dei fenomeni terroristici, Europolis Editing, Roma, 2002. Il corsivo è mio.
3  Nella seconda legge di Newton, la forza viene descritta come derivata temporale della quantità di moto di un corpo.
4  E, pp. 204 e 225 [riferimenti all’edizione Reclam del Der Einzige del 1972].
5  E, 206, 207.
6  E, 198, 196.

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