giovedì 5 dicembre 2013

''NIETZSCHE'' (libro primo)



Libro Primo
I - La volontà di potenza come arte (1936/37)

Nietzsche come pensatore metafisico
L' espressione "La volontà di potenza" ha in N. un duplice ruolo: 1) è il titolo della sua opera capitale, programmata per anni ma mai realizzata; 2) è la denominanazione di ciò che costituisce il carattere fondamentale di tutto ciò che è. In questo secondo senso, è la risposta a quella che è da sempre la domanda-guida (Leitfrage) della filosofia che chiede che cosa è l'ente: tutto ciò che è, è per N. volontà di potenza. Nostra intenzione è chiarire la posizione di fondo all'interno della quale N. sviluppa la domanda-guida del pensiero occidentale. N. è un grande pensatore, un pensatore genuino, nel suo pensiero la tradizione del pensiero occidentale si raccoglie e si compie secondo una prospettiva decisiva. Per questo un confronto con N. è un confronto con il pensiero occidentale fino a oggi.

Il libro "La volontà di potenza"
La programmata opera filosofica capitale di N. non fu mai realizzata. Il testo di cui oggi disponiamo, intitolato La volontà di potenza contiene lavori preliminari ed elaborazioni parziali. Il piano secondo il quale i frammenti sono ordinati, l'articolazione in quattro libri e i titoli di essi sono di N.. I piani, i progetti, le articolazioni dell'opera sono cambiati più volte, senza che ci fosse una elaborazione dell'insieme che consenta di intravvedere un abbozzo determinante. Nell'ultimo anno (1888), prima del crollo, sono definitivamente abbandonati i piani iniziali.
L'autentica filosofia di N. non arriva mai ad assumere una forma definitiva nelle opere pubblicate; ciò che egli ha pubblicato è sempre avanscena. La prima edizione della Volontà di potenza, apparsa nel 1901 dopo la morte di N., comprendeva 483 brani, ordinati secondo un piano dell'Autore del 1887. Nel 1906 vi fu una nuova edizione, notevolmente accresciuta, comprendente 1067 brani; ma l'intero materiale è contenuto nell'edizione completa, nei volumi XIII e XIV dei frammenti postumi. Questi brani, per lo più, non sono semplici frammenti e annotazioni fugaci, ma aforismi accuratamente elaborati.

Piani e lavori preliminari alla "costruzione capitale"
Dall' 82 all'88 N. elabora diversi piani e progetti, che mutano di volta in volta. Si possono tuttavia distinguere tre posizioni fondamentali (la prima, che cronologicamente si estende dall' 82 all'83; la seconda, che comprende gli anni dall'85 all'87; la terza, che va dall'87 all'88).
Ognuna di esse è caratterizzata da un titolo predominante. La prima ha per titolo: Filosofia dell'eterno ritorno, con il sottotitolo: Un tentativo di trasvalutazione di tutti i valori. La seconda è intitolata: La volontà di potenza, con il sottotitolo:Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori. La terza: Trasvalutazione di tutti i valori.
"Eterno ritorno", "volontà di potenza" e "trasvalutazione" sono le tre parole-guida sotto le quali sta la progettata opera capitale. Per comprendere la filosofia di N. occorre cogliere la connessione tra questi concetti e la loro relazione necessaria con la metafisica occidentale.

L'unità di volontà di potenza, eterno ritorno e trasvalutazione
La dottrina dell'eterno ritorno è intimamente connessa a quella della volontà di potenza, ed entrambe, nella loro unità, si autocomprendono come trasvalutazione di tutti i valori. Ma in che senso eterno ritorno e volontà di potenza sono connessi? Di questa domanda, in quanto decisiva, ci occuperemo più a fondo in seguito; per ora, basti una risposta allusiva.
L'espressione "volontà di potenza" nomina il carattere fondamentale dell'ente in quanto ente. Con ciò non si è ancora risposto alla prima autentica domanda della filosofia, bensì all'ultima domanda preliminare. La domanda decisiva che si pone al termine della filosofia occidentale è quella sul senso dell'essere, é la domanda fondamentale (Grundfrage), che non è sviluppata come tale nella storia della filosofia; anche in N. rimane entro la domanda-guida. La questione dell'essere è il pensiero più grave della filosofia, e non è un caso che l'eterno ritorno, per N. sia denominato "il pensiero più grave". Con tale dottrina N. pensa quel pensiero che domina per intero tutta la storia della filosofia occidentale. Pensare l'essere come eterno ritorno significa pensarlo come tempo: l'eternità non come un "ora" che resta fermo, nè come una successione all'infinito, ma come l' "ora" che si ripercuote su se stesso.
Se non si coglie la connessione tra la volontà di potenza, come carattere fondamentale dell'ente, e l'eterno ritorno, come determinazione somma dell'essere, non si comprende neppure il contenuto metafisico della dottrina della volontà di potenza.
Se però è la dottrina dell'eterno ritorno ad essere il nucleo più intimo della filosofia di N., in realtà, il suo sforzo decisivo è quello di mostrare il carattere fondamentale dell'ente come volontà di potenza; in questo senso la volontà di potenza è la dottrina centrale.
Nell'interpretazione dell'opera, non ci atterremo alla successione dei singoli brani così come si presenta nella raccolta postuma, poichè tale ordinamento è arbitrario e inessenziale. Occorre pensare i singoli brani secondo il loro movimento speculativo interno. E' comunque decisivo ascoltare N. stesso, porre le domande con lui, per mezzo di lui e così al tempo stesso contro di lui, ma per l'unica intima cosa comune in questione nella filosofia occidentale.

La struttura dell'"opera capitale". Il modo di pensare di Nietzsche come rovesciamento
Determiniano la posizione metafisica di N. per mezzo di due tesi: 1) Il carattere fondamentale dell'ente in quanto tale è "la volontà di potenza". 2) L'essere è "l'eterno ritorno dell'ugale". Se interroghiamo a fondo la filosofia di N. secondo queste due tesi, andiamo oltre la sua posizione e quella della filosofia a lui precedente. Ma soltanto questo andare oltre consente di ritornare su Nietzsche. Ciò avverrà per mezzo di una interpretazione della Volontà di potenza.
Il piano di quest'opera, su cui si basa l'edizione in volume, secondo un progetto dell'87, presenta la seguente forma:
La volontà di potenza - Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori
Libro primo: Il nichilismo europeo.
Libro secondo: Critica dei valori finora supremi.
Libro terzo: Principio di una nuova posizione di valori.
Libro quarto: Disciplina e allevamento.
La nostra interrogazione comincia e si limita al terzo libro. Per N. una posizione di valori è una posizione in base alla quale si determina il modo come deve essere tutto ciò che è. Una "nuova" posizione porrà, rispetto a quella antica, un valore diverso che sarà determinante per il futuro. Per questo nel secondo libro è premessa una critica dei valori supremi finora in vigore, legati al cristianesimo, alla morale e alla filosofia. Tali valori vengono confutati in base all'origine problematica della loro posizione. Questa critica è a sua volta preceduta da una esposizione del nichilismo europeo, contenuta nel primo libro. Il nichilismo per N. è il fatto fondamentale della storia occidentale; esso consiste nella svalutazione dei valori supremi attraverso un lungo processo storico che inizia nei secoli prima di Cristo, giunge fino al XX secolo e interesserà i secoli venturi. Il nichilismo non ha solo un carattere puramente negativo, di dissoluzione; non esclude, per lunghi tratti del suo cammmino storico, momenti di ascesa creativa. "Corruzione" e "degenerazione fisiologica" non sono cause del nichilismo, ma conseguenze, per cui esso non può essere semplicemente superato con la loro eliminazione, ma solo ritardato. Il contromovimento che si oppone al nichilismo, appartiene anch'esso alla storia del nichilismo, è interno ad esso, e sarà una transvalutazione di tutti i valori.
Ogni nuova posizione di valori dovrà 'allevare' coloro che portano il nuovo atteggiamento, nonchè i nuovi bisogni e le nuove esigenze. Perciò l'opera termina, nel quarto libro con "Disciplina e allevamento".
La posizione dei valori supremi non avviene di colpo, ma coloro che li pongono, ossia i filosofi, i creatori, devono tentare nuove strade; con il loro domandare devono mettere alla prova l'ente in relazione al suo essere e alla sua verità. N. scrive: "Facciamo un tentativo con la verità! Forse sarà la rovina dell'umanità! Orsù!"
Qual è il principio della nuova posizione dei valori? E' importante anzitutto chiarire il titolo del terzo libro. Il termine "principio" significa fondamento, nel senso dell'archè dei Greci: ciò a partire da cui una cosa si determina diventando quello che è. Il principio di una nuova posizione dei valori è quindi il fondamento di un porre valori nuovi rispetto a quelli finora in vigore. N. vuole fondare in modo nuovo la maniera in cui i valori vengono posti. Questo fondamento è la volontà di potenza. Come la si deve intendere? Abbiamo detto che per N. la volontà di potenza denomina il carattere fondamentale dell'ente, ciò che propriamente è. Ora, la riflessione decisiva di N. procede così: se si deve fissare ciò che propriamente deve essere, lo si potrà fare solo se prima si saprà con chiarezza che cosa è e che cosa costituisce l'essere. Per questo la volontà di potenza è già in se stessa un porre valori, poichè l'ente è concepito come volontà di potenza. E quindi diventa superfluo un "dover essere" che si sovrapponga all'ente affinchè questo lo prenda per misura.
Mettere in evidenza il principio della nuova posizione dei valori significa anzitutto dimostrare che la volontà di potenza è il carattere fondamentale dell'ente. In relazione a tale compito i curatori della Volontà di potenza hanno suddiviso il terzo libro in quattro capitoli:
I. La volontà di potenza come conoscenza
II. La volontà di potenza nella natura.
III. La volontà di potenza come società e individuo.
IV. La volontà di potenza come arte.
Tale disposizione appare ben fondata, sulla base dei manoscritti di cui disponiamo; i curatori hanno utilizzato, per la suddivisioneripartizione dei capitoli e la ripartizione degli aforismi diverse indicazioni di N. .
Iniziamo l'interpretazione dal quarto e ultimo capitolo: "La volontà di potenza come arte", che comprende gli aforismi dal n. 794 al n. 853. Iniziamo dal quarto e non dal primo capitolo per ragioni che dipendono dal contenuto stesso: è soprattutto in base alla concezione nietzscheana dell'arte che si può comprendere il significato della volontà di potenza. Affinchè però l'espressionr "volontà di potenza" non continui a restare una mera parola, anticipiamo i tratti dell'interpretazione del quarto capitolo, domandando: 1) Che cosa intende N. con questa espressione? 2) Perchè il carattere fondamentale dell'ente è denominato come volontà?

L'essere dell'ente come volontà nella metafisica tradizionale
La concezione dell'essere dell'ente come volontà è in linea con la migliore tradizione della filosofia tedesca. La troviamo in Schopenhauer, la cui opera Il mondo come volontà e rappresentazione, fu inizialmente uno stimolo per la filosofia di N., anche se egli intende per volontà qualcosa di completamente diverso. L'opera di Schopenhauer, d'altra parte, è profondamente debitrice nei confronti di Schelling e di Hegel. Questi ultimi hanno interpretato l'essere come volontà. Schelling ha scritto nel trattato Sull'essenza della libertà umana che il volere è l'essere originario. E Hegel, nellaFenomenologia dello spirito, ha concepito l'essenza dell'essere come sapere, ma il sapere come uguale per essenza al volere. Entrambi erano consapevoli di interpretare il pensiero di un altro grande pensatore tedesco, Leibniz, il quale determinava l'essenza dell'essere come unità originaria di perceptio e appetitus, di rappresentazione e volontà.
Tuttavia la dottrina di N. non è dipendente da quella di questi grandi pensatori. Un grande pensatore del resto è tale perchè è in grado di trasformare in modo originale il pensiero degli altri "grandi". Ciò vale per N., la cui dottrina dell'essere come volontà si inserisce nella corrente di pensiero più profonda e necessaria della metafisica occidentale.

La volontà come volontà di potenza
Per N. la volontà non è altro che volontà di potenza, e la potenza non è altro che l'essenza della volontà. La volontà di potenza è allora volontà di volontà, cioè volere è volere se stesso.
Se vogliamo tentare di chiarire concetti che pretendono di cogliere l'essere dell'ente, non ci possiamo richiamare ad un ente determinato o ad un modo d'essere particolare. Così, ad esempio, non si può dire che la volontà è una facoltà psichica, perchè se è la volontà a determinare l'essenza di ogni cosa, non è quest'ultima che avrà il carattere della psiche, ma sarà la psiche ad avere il carattere della volontà. Se la volontà di potenza connota l'essere stesso, non ci sarà più nulla che possa determinare ulteriormente la volontà. La volontà è volontà; ma questa definizione, formalmente corretta, non dice più nulla, e può indurre in errore in quanto si crede che alla semplice parola corrisponda una cosa altrettanto semplice.
Nietzsche nondimeno la denomina a volte come "affetto", come "passione", come "sentimento", o come "comando". Anche se questo modo di procedere può suscitare perplessità, in quanto non si tratta di determinazioni chiarite a sufficienza, va considerato che, data la polisemia del concetto di volontà, non restava a N., per definirne l'essenza, che utilizzare termini noti.
La determinazione del volere che si impone per prima, è quella di un tendere a.., mirare a qualcosa, essere diretti a qualcosa. (Anche se nell'essere diretti a qualcosa, come per es. nella rappresentazione, non è insito ancora un volere).
Si dice anche volere nel senso di desiderare; ma il volere non è un desiderare, poichè implica la risolutezza del comando. Nel volere inoltre è implicito il riferimento ad un oggetto: l'errore di Schopenhauer, al proposito, è quello di ritenere che esista un volere puro, senza un oggetto determinato. Sta invece nell'essenza del volere che in esso consistano il voluto e il volente. E' contenuto nel volere l' essere risoluto a se stesso, un volere al di là di se stesso e la determinatezza dell'oggetto. Quando N. accentua il carattere di comando della volontà, intende evidenziarne la risolutezza e la fermezza. In questa fermezza del volere che si slancia oltre se stessa sta l'"essere signore di..". In questo senso la volontà è potenza, e la potenza volontà. Pertanto l'espressione "volontà di potenza" non significa che la potenza sia il fine della volontà, un qualcosa che va ad aggiungersi ad essa, ma un chiarimento della volontà stessa.
Solo dopo aver chiarito questi aspetti di fondo, si possono comprendere le ulteriori connotazioni del concetto di volontà.

La volontà come affetto, passione e sentimento
N. chiama la volontà sia affetto, sia passione, sia sentimento. In un brano della Volontà di potenza (il n. 688), egli definisce la volontà di potenza l'affetto originario, e tutti gli affetti forme derivate di essa. Queste spiegazioni non vanno intese nell'ottica della psicologia comune.
La caratteristica essenziale di un affetto è quella di trasportarci fuori di noi stessi. Nell'affetto siamo sovreccitati, non siamo più padroni di noi stessi, siamo al di là, fuori di noi. Nell'affetto la volontà diviene non volontà. Così in tedesco l'ira si dice anche Un-wille, alla lettera: non volontà, appunto.
Oltre che come affetto la volontà è connotata anche come passione. La passione è qualcosa di sostanzialmente diverso dall'affetto. In essa c'è uno slancio che non rende ciechi, ma al contrario lucidi, freddi, come ad es. nell'odio. Una passione ha anche una maggiore persistenza e compattezza, che non chiude l'io in se stesso, ma lo raccoglie aprendolo. In questo senso la volontà è un essere padrone-di-sè, nel quale diventiamo lucidi e prendiamo potere dell'ente intorno a noi e in noi.
Un sentimento invece è il modo in cui ci troviamo nei confronti delle cose e di noi stessi. Nel sentimento si apre e si mantiene aperto tale modo di essere, è esso stesso questo stato originario. Ne viene una ulteriore delucidazione dell'essenza della volontà, per cui essa si schiude a se stessa. Nel volere mettiamo in luce noi stessi, la nostra identità, e tale luce è implicita nell'essenza della volontà, non deriva da una riflessione che sopravvenga dopo.
N. designa la volontà ora come affetto, ora come passione e sentimento, ma dietro questi termini vede qualcosa di più originario: essi sono, nel fondo della loro essenza, volontà di potenza. Perciò non ha molto senso definire "emozionale" la sua concezione, in contrapposizione a quella idealistica.

L'interpretazione idealistica della dottrina nietzscheana della volontà
Se per interpretazione idealistica della volontà si intende quella concezione che dice che la volontà nella sua essenza è un rappresentare, ossia è determinata da idee, allora idealistica è l'intera tradizione occidentale che inizia con Aristotele. Questi, trattando della natura del desiderio, dice infatti che "ciò che nel desiderio è desiderato muove, e l'intelletto, il rappresentare, muove soltanto perchè si rappresenta ciò che nel desiderio è desiderato".
Il pensiero filosofico successivo fa propria questa concezione. Per Kant la volontà e quella facoltà desiderativa che agisce secondo concetti. Il rappresentare differenzia la volontà desiderativa dall'appetito cieco. Anche nell'idealismo tedesco viene ripreso questo concetto. Per Hegel sapere e volere sono la stessa cosa. Il vero sapere è anche agire. Nietzsche stesso dice: "volere, cioè comandare", ossia: "mirare in modo chiaro, teso" ad una cosa. E in ciò è insito appunto il rappresentare, il pensiero che comanda. Tuttavia, se vogliamo avvicinarci il più possibile alla concezione nietzscheana della volontà dobbiamo evitare tutte le denominazioni usuali, sia che vengano definite idealistiche o emozionali, o altro.

Volontà e potenza. L'essenza della potenza
Ogni volere è un voler-essere-di-più; quindi è potenza nel senso del potenziamento, dell'elevazione; è anche autoaffermazione, nel senso di un riandare all'essenza, all'origine. La volontà di potenza è dunque volontà di essenza, e in quanto tale è qualcosa che crea e distrugge: l'essere-signore-al-di-là-di-sè è sempre anche annientamento. Anche il nulla, la distruzione fanno parte dell'essenza dell'essere. Con tale concezione N. si ricollega al pensiero occidentale.
L'idealismo tedesco ha pensato l'essere come volontà, e si è spinto fino a pensare il negativo come appartenente all'essere. Hegel, nella Prefazione alla Fenomenologia dello spirito ha parlato di "immane potenza del negativo" e ha scritto che la vita dello spirito è quella "che sopporta la morte e che in essa si mantiene".
N. che non approvava il disprezzo di Schopenhauer verso l'idealismo, nel brano n. 416 della Volontà di potenza, ha esaltato la "grandiosa iniziativa" della filosofia tedesca che ha pensato "un panteismo in cui il male, l'errore e il dolore nonsiano avvertiti come argomenti contro la divinità".
Anche per quanto riguarda il concetto di potenza come determinazione dell'essere N. si ricollega alla tradizione metafisica occidentale. La potenza, per N., in quanto forza, significa essere pronti ad operare, essere capaci di.. (dynamis). Ma potenza è anche l'atto del dominio, l'essere-all'opera-della-forza (enèrgheia), nonchè venire-a-se-stesso nella semplicità dell'essenza (entelècheia). Ma dùnamis, enèrgheia ed entelècheia sono per Aristotele le determinazioni supreme dell'essere. Vi è quindi un'intima relazione fra la volontà di potenza di N. e la metafisica di Aristotele. Ciò non significa intepretare N. attraverso Aristotele, piuttosto, entrambe le dottrine devono essere riprese nel contesto di una domanda più originaria.

La domanda-guida e la domanda fondamentale della filosofia
Incominciamo l'intepretazione del terzo libro con il quarto e ultimo capitolo, intitolato "La volontà di potenza come arte". Chiarendo come N. concepisce l'arte, si chiarisce perchè l'intepretazione della volontà di potenza debba cominciare proprio dall'arte. Occorre però tenere ben saldo l'intento filosofico fondamentale dell'interpretazione, che si articola nella domanda-guida (Leitfrage) - che chiede che cosa è l'ente - e nella domanda fondamentale (Grundfrage) - che chiede che cosa è l'essere-. Queste domande conducono oltre N., ma portano allo scoperto e rendono fertile il suo pensiero. La domanda fondamentale rimane estranea a N., come al pensiero a lui precedente.
In N. il problema dell'essenza della verità (che è incluso in tali domande), è legato all'interpretazione dell'ente in quanto volontà di potenza. E dato che l'arte ha una posizione eminente nel contesto di tale interpretazione, allora è nell'arte che diviene centrale la questione della verità.

Le cinque tesi sull'arte
Tentiamo una prima connotazione dell'essenza dell'arte in Nietzsche, mettendo in risalto, sulla base di passi importanti, cinque tesi sull'arte.
Che l'arte abbia una posizione decisiva nel compito di una nuova fondazione dei valori lo si evince anche dal brano 797 della Volontà di potenza, in cui N. afferma: "Il fenomeno dell' 'artista' è ancora quello più trasparente, che si puòscrutare più facilmente". "Più trasparente" significa più facilmente accessibile nella sua essenza.
Questo perchè essere artista significa produrre, porre in essere qualcosa che ancora non è: nella produzione artistica noi partecipiamo per così dire al divenire dell'ente, e possiamo coglierne nel modo più chiaro l' essenza. E poichè l'essenza dell'ente è la volontà di potenza, e nell'essere artista si trova il modo più trasparente della volontà di potenza, la meditazione sull'arte è decisamente prioritaria. Va tenuto presente anche che N. vede l'arte nella prospettiva dell'artista, ossia di colui che crea e produce, non in quella di coloro che ne fruiscono.
Torniamo al brano 797; ne possiamo ricavare due tesi essenziali:
1) L'arte è la forma più trasparente e più nota della volontà di potenza.
2) L'arte deve essere concepita dalla prospettiva dell'artista.
Sempre nello stesso brano, N. aggiunge che è guardando all'essenza dell'artista che vanno considerate anche le altre forme della volontà di potenza - natura, religione, morale. Secondo N., anche gli enti che non sono prodotti dall'artista hanno un modo di essere che corrisponde a quello di ciò che è creato dall'artista. Il concetto di arte non è inteso in senso stretto, nell'accezione di "belle arti", ma è esteso a ogni saper produrre e a ogni cosa prodotta. Da qui si può formulare una terza tesi:
3) L'arte è l'accadere fondamentale di ogni ente; l'ente è, in quanto è, qualcosa che si crea, qualcosa di creato.
Ora, affermare che l'accadimento fondamentale di ogni ente è arte, significa dire che è la forma somma della volontà di potenza; la volontà di potenza, come l'arte, è un creare e un distruggere. Già nella Nascita della tragedia N. vedeva l'arte come carattere fondamentale dell'ente, laddove egli parlava di arte come attività metafisica. E' dunque dall'arte, e non più dalla morale, dalla religione e dalla filosofia, che dovrà partire una nuova posizione di valori, che dovrà essere una trasvalutazione dei valori stessi. Secondo N., i valori tradizionali, determinati dal platonismo e dal cristianesimo, presuppongono una svalutazione del mondo sensibile, a vantaggio del cosiddetto "mondo vero". Ora, caduto il "mondo vero", il vero mondo è soltanto quello sensibile che è l'oggetto proprio dell'arte. L'arte afferma dunque ciò che il platonismo e il cristianesimo negano. Per questo N. afferma che essa costituisce l'unica controforza contro ogni volontà che rinneghi la vita. Con ciò si ottiene la quarta tesi:
4) L'arte è il contromovimento per eccellenza che si oppone al nichilismo.
Dunque ogni attività, compresa quella filosofica, devono essere determinati dall'arte. Ne deriva che al posto del filosofo moralista e nichilista, che guarda al cosiddetto mondo superiore, deve essere collocata la figura del filosofo-artista, il filosofo del contromovimento che operando sull'ente decide anche della verità di quest'ultimo.
Dire che per N. nell'arte si decide della verità, può apparire in contrasto con il fatto che egli definisce l'arte come volontà di parvenza che si oppone alla "volontà di verità". Ma per N. la volontà di parvenza è volontà del sensibile e della sua ricchezza, mentre la "volontà di verità", corrisponde alla volontà del "mondo vero" di Platone e del cristianesimo. La volontà di un "vero" siffatto è, in realtà, un dire no a questo nostro mondo, dove l'arte è di casa. In vista di un "mondo vero", la sottomissione, la compassione, l'umiltà diventano valori autentici, mentre ogni elevazione creatrice, e ogni orgoglio della vita non sono che abbaglio e peccato. Da ciò si ricava la tesi:
5) L'arte vale di più della "verità".
Sulla scorta di queste cinque tesi va ricordata l'affermazione di N. secondo cui l'arte è il massimo stimolante della vita; stimolante è ciò che potenzia, che "eleva al di là di sè", ossia è volontà di potenza. L'affermazione quindi che l'arte è il massimo stimolante della vita significa che l'arte è volontà di potenza, ed è la tesi capitale di N., che viene delucidata dalle altre cinque.
A questo punto domandiamo.
1) Che cosa offre la concezione nietzscheana dell'arte in vista di determinare l'essenza della volontà di potenza?
2) Che cosa significa tale concezione per il sapere dell'arte?

Sei fatti fondamentali ricavati dalla storia dell'estetica
Cominciamo dalla seconda questione. Anche se N. non si pone la questione dell'arte come manifestazione della cultura, soltanto una riflessione sull'estetica ci consente di capire l'interpretazione nietzscheana dell'arte; peraltro egli si muove in linea con la tradizione. Secondo quest'ultima, la riflessione sul sapere dell'arte è denominata estetica, il cui oggetto è il comportamento sensibile e lo stato sentimentale in rapporto al bello. Il termine "estetica" per designare la riflessione sul bello e sull'arte è recente, e risale al XVIII secolo, ma tale riflessione è antica. Per connotare l'essenza dell'estetica, il suo ruolo entro il pensiero metafisico e il suo riferimento alla storia dell'arte europea, prendiamo in considerazione sei fatti fondamentali.
1) La grande arte greca è priva di una corrispondente riflessione concettuale che la pensi. Ciò non significa che tale arte sia solo "vissuta". Piuttosto, essa si manifesta in un contesto di lucido sapere, così da non avere bisogno di un'estetica.
2) L'estetica nasce presso i Greci quando la grande arte, nonchè la grande filosofia che le è parallela, si approssima alla fine. In tale periodo, con Platone ed Aristotele, vengono coniati quei concetti fondamentali che da allora in poi definiranno ogni posizione dell'arte.
Anzitutto la coppia di concetti materia - forma (ylè - morfè). Questa concezione ha origine nella concezione dell'ente, fondata da Platone, che guarda al suo aspetto : eìdos, idèa. Dove l'ente viene percepito come ente e distinto dagli altri in base al suo aspetto, i suoi confini sono avvertiti come limitazione interna ed esterna. La forma è ciò che delimita, ciò che è delimitato la materia. A questa coppia di concetti si unisce un altro termine, la tècne, con cui i Greci denominano sia l'arte che l'artigianato. Con ciò non si intende equiparare l'arte all'artigianato: la tècne non è un semplice fare o un produrre, ma un tipo di sapere che guida ogni iniziativa umana. Successivamente, con l'emergere della distinzione di materia e forma, il termine perde la sua forza semantica originaria e viene riferita alla fabbricazione di cose belle, e quindi la riflessione su questi concetti si sposta nell'ambito dell'estetica.
3) Il terzo fatto coincide con l'inizio dell'età moderna. L'uomo e il suo sapere diventano il luogo della decisione che stabilisce come l'ente vada sperimentato, determinato e configurato. La libera presa di posizione dell'uomo, il suo modo di sentire le cose, in breve: il suo gusto, diventano il tribunale che decide dell'ente. In metafisica, la certezza dell'essere e la sua verità sono fondate sull'autocoscienza del cogito. La stessa riflessione sul bello viene riferita in modo esclusivo allo stato sentimentale dell'uomo. E' in questo periodo che l'estetica viene fondata e praticata consapevolmente. Di pari passo la grande arte si avvia verso la decadenza. Tale decadenza non consiste in una peggiore qualità del prodotto, ma nel fatto che l'arte non assolve più il compito di rendere manifesta nelle opere la verità dell'ente nel suo insieme. Da qui capiamo il quarto fatto:
4) La grande arte è alla fine nel momento in cui l'estetica raggiunge la sua massima altezza. La grandezza di questa estetica consiste proprio nel riconoscere la fine della grande arte: tale estetica è quella di Hegel. Egli non ha inteso negare la possibilità e l'esistenza di singole opere d'arte, ma affermare che essa ha perduto per sempre il suo potere assoluto. Da ciò deriva la posizione dell'arte nel XIX secolo, che può essere indicata in un quinto punto.
5) Il XIX secolo, in relazione alla decadenza dell'arte che perde la sua essenza, osa compiere, ad opera di Richard Wagner, il tentativo dell' "opera d'arte totale". Essa consiste nel fatto che tutte le arti, e in funzione predominante la poesia e la musica, devono essere congiunte in una sola opera. Inoltre, l'arte deve diventare la celebrazione della comunità del popolo, la sua religione.
L' "opera d'arte totale" realizza il dominio dell'arte come musica, e con esso il dominio dello stato sentimentale puro, dissolvendo ogni elemento stabile nel languido, nell'evanescente, esaltando la sfrenatezza dei sensi: "l'estasi del sonnambulo", come la definisce Nietzsche. Nell' "opera d'arte totale" l'arte deve ridiventare bisogno assoluto, ma l'assoluto è concepito ormai come sentimento puro; per questo il tentativo di Wagner è destinato al fallimento. D'altro canto, fu proprio questa ebbrezza sentimentale dell'opera wagneriana ad incantare il giovane Nietzsche per quella dimensione che egli poi definì dionisiaca. Mentre Wagner tuttavia cercava la mera esaltazione del dionisiaco, N. mirava a domarlo, a dargli forma: la rottura fra i due era inevitabile.
Nel XIX secolo il sapere dell'arte, in corrispondenza alla crescente incapacità di un sapere metafisico, si trasforma in una indagine scientifica sui puri fatti della storia dell'arte. La storia dell'arte e la dimensione estetica, diventano oggetto di una ricerca condotta con i metodi delle scienze naturali. Ma tale lavoro e fervore intorno all'arte, non è altro che il proscenio di quell'accadere che N. enunciò come nichilismo. Con questo arriviamo all'indicazione dell'ultimo fatto fondamentale:
6) Ciò che Hegel ha enunciato riguardo all'arte - l'aver perso la potenza di configurare l'assoluto - N. lo ha riconosciuto riguardo i "valori supremi". Ma mentre per Hegel è l'arte, e non la religione, la morale e la filosofia, a cadere vittima del nichilismo, per N., al contrario, l'arte rappresenta il contromovimento.
Mentre inoltre per Hegel l'arte diviene oggetto di un sapere metafisico, N. considera la riflessione sull'arte una "fisiologia dell'arte". "L'estetica è per l'appunto nient'altro che una fisiologia applicata", egli scrive infatti in Nietzsche contra Wagner del 1888. Dunque, da un lato l'arte è il contromovimento che si oppone al nichilismo, dall'altro è "fisiologia": indagine scientifica degli stati e dei processi corporali e delle cause che li provocano.

L'ebbrezza come stato estetico
Vista dall'esterno questa posizione sembra assurda: come può l'arte porre nuovi criteri e valori se viene ricondotta a processi nervosi e a semplici relazioni causali? Per cercare di cogliere una unità fra cose apparentemente contrastanti, esamineremo un abbozzo di N., comprendente una sequenza di diciasette appunti numerati, intitolato "Per la fisiologia dell'arte", che si trova tra i piani della "Volontà di potenza". Nonostante tale abbozzo non contenga un'idea direttrice visibile, fornisce tuttavia un quadro di ciò di cui si deve trattare.

"Per la fisiologia dell'arte"
Per determinare meglio il materiale, seguiremo un duplice filo conduttore: anzitutto la considerazione della dottrina della volontà di potenza, quindi le dottrine capitali dell'estetica tradizionale.
La questione dell'arte in N. è estetica, poichè essa viene determinata facendo ricorso allo stato sentimentale dell'uomo a cui appartengono la produzione e la fruizione del bello. Ma questa estetica deve essere fisiologia: gli stati sentimentali sono indagati nella loro corrispondenza con gli stati corporei. E' l'unità psicosomatica dell'uomo ad essere posta come ambito degli stati estetici; quindi quando N. parla di fisiologia intende anche l'ambito psicologico.
Leggiamo innanzitutto un passo del Crepuscolo degli idoli (1888), intitolato "Per la psicologia dell'artista". In esso N. afferma che lo stato estetico fondamentale è l'ebbrezza, nelle sue varie forme (derivanti da eccitazione sessuale, dagli affetti forti, dalla festa, da narcotici, ecc.). Possiamo confrontare questo passo con il brano 798 della Volontà di potenza, in cui N. parla di "due stati nei quali l'arte stessa insorge nell'uomo come una forza della natura". Questi stati sono l'apollineo e il dionisiaco, che vengono concepiti quindi come la condizione preliminare dell'arte. Tali concetti erano già stati sviluppati nella Nascita della tragedia, nella quale, in particolare, l'apollineo e il dionisiaco venivano associati ai fenomeni fisiologici del sogno e dell'ebbrezza. Anche nel frammento 798 della Volontà di potenza l'apollineo ha il carattere del sogno, e il dionisiaco dell'ebbrezza. Ora però, nel passo del Crepuscolo degli idoli, si afferma che anche l'apollineo è una specie di ebbrezza: l'ebbrezza diviene lo stato estetico fondamentale.
A questo punto, occorre pertanto chiarire: 1) Qual è l'essenza generale dell'ebbrezza? 2) In quale senso essa è lo stato estetico fondamentale?
Alla prima domanda N., nel Crepuscolo degli idoli, dà una risposta concisa: "L'essenziale nell'ebbrezza è il sentimento del potenziamento della forza e della pienezza". L'ebbrezza ora è definita come un sentimento. Il sentimento, come si è precedentemente chiarito, è il modo come ci troviamo presso di noi e presso le cose; è la disposizione in virtù della quale noi siamo trasportati al di là di noi stessi. Ora, che l'ebbrezza sia un sentimento non è in contraddizione col fatto che essa sia uno stato fisiologico. Noi non "abbiamo" un corpo, ma "siamo" corpi; il sentirsi, nel sentimento, è il modo nel quale noi siamo un corpo in carne e ossa in una certa disposizione d'animo.
Ora, nell'ebbrezza è contenuto sia il sentimento del potenziamento della forza che il sentimento della pienezza. Il potenziamento della forza non sta ad indicare tanto un "di più", una crescita di forza, ma deve essere inteso come una disposizione d'animo verso l'ente nella quale l'ente stesso è esperito come più ricco e più essenziale. Analogamente, la pienezza indica la massima apertura e la massima esaltazione.
Si potrebbe connotare l'ebbrezza anche come una passione, in quanto non è uno stato passeggero, ma qualcosa che permane. Rimane comunque difficile applicare all'ebbrezza termini quali sentimento, affetto, passione.
Per quanto riguarda la seconda domanda, dobbiamo chiederci, secondo le parole di N., in quale senso l' ebbrezza è "inevitabile" perchè vi sia arte, se essa sia soltanto una condizione dell'arte o la fonte perenne. Abbiamo visto che l'ebbrezza è una disposizione d'animo che ci apre fino alla pienezza delle nostre facoltà, le quali si stimolano e si esaltano a vicenda. Procediamo continuando a domandare che cosa è determinante in questa disposizione perchè possa essere chiamata estetica.
La dottrina kantiana del bello. Il suo fraintendimento a opera di Schopenhauer e di Nietzsche
Non vi è in N. una esposizione costruita e fondata sul bello e sulla bellezza. Le sue tesi risultano dal rovesciamento delle vedute estetiche di Schopenhauer. Queste, esposte nel terzo libro del Mondo come volontà e rappresentazione, non sono ben fondate, ma sono un fraintendimento dell'estetica kantiana.
Il fraintendimento delle idee di Kant sul bello e sull'arte, non riguarda solo Schopenhauer e Nietzsche, ma gran parte della storia della filosofia. Tale fraintendimento nasce da una asserzione di Kant sul bello, sviluppata nei parr. 2-5 dellaCritica del Giudizio. "Bello", per Kant, è ciò che piace soltanto in modo puro, "senza interesse". Per Schopenhauer ciò si identifica nella sospensione della volontà; in N., secondo uno schema di contrapposizione, "bello" diviene l'ebbrezza, ossia il contrario di ogni "piacere disinteressato".
Ma in Kant l'espressione "piacere disinteressato", lungi dall' indicare un'indifferenza verso l'oggetto, al contrario, ne è una valorizzazione. In Kant il termine "interesse" ha una valenza negativa, sta a indicare ciò che può distoglierci dall'individuazione del bello in quanto tale. Solo dopo aver messo da parte ogni "interesse", possiamo cogliere l'oggetto nel suo proprio rango e nella sua dignità, e quindi nella sua bellezza.
Peraltro, il fraintendimento dell'estetica kantiana è un limite che N. condivide con il proprio tempo. Però ora si tratta di capire, all'interno di tale contesto storico, ciò che N. dice sulla bellezza. Anch'egli determina il bello come ciò che piace, inteso come ciò che ci si addice, che ci corrisponde. Il bello è dunque ciò che apprezziamo e veneriamo come l'immagine-modello (Vor-bild) del nostro essere. N. scrive che il bello "è l'estasi di essere nel nostro mondo", ossia mediante il bello l'uomo penetra in uno stato fondamentale in cui perviene alla pienezza fondata sulla sua essenza. Una cosa analoga Kant intende con il "piacere della riflessione", quale comportamento fondamentale in rapporto al bello. Ora, tale stato, per N., e un elevarci-al-di-là-di-noi nella pienezza delle nostre facoltà essenziali: in altri termini tale stato coincide con l'ebbrezza.

L'ebbrezza come forza creatrice di forme
Cerchiamo ora di demarcare meglio l'ambito dello stato estetico. Per N. l'essenza del creare non è sviluppata partendo dall'essenza di ciò che è creato, dall'opera, ma dallo stato del comportamento estetico. Da un lato, per N., il creare è un atto vitale, un produrre condizionato dall'ebbrezza, di cui è possibile fornire una descrizione fisiologica: dilatazione vascolare, temperatura, secrezione, ecc.; dall'altro, il creare è legato all'essenza dell'ebbrezza e della bellezza, ed implica l'andare-al-di-là-di-sè, il vedere le cose in modo "più pieno", "più semplice", più intenso". Questo aspetto del creare viene definito da Nietzsche "idealizzare", ossia "estrapolare i tratti capitali". L' "idealizzare" è il segno supremo della potenza, poichè in esso i contrasti sono domati: "Che non sia necessaria alcuna violenza, che tutto segua, obbediscacon tanta facilità, facendo buon viso all'obbedienza - ciò delizia la volontà di potenza dell'artista". (La volontà di potenza, n. 821).
Lo stato estetico di chi recepisce l'opera d'arte è visto da N. in corrispondenza con lo stato di coloro che creano: recepire l'arte è un rivivere il creare.
Quanto esposto finora ci consente di cogliere nello stato estetico non soltanto meccanismi psicosomatici, ma piuttosto i processi dell'"idealizzare" e dell' "estrapolare i tratti capitali". Il sentimento estetico non è perciò una commozione cieca e passeggera, ma è riferito a una struttura, ossia, nella terminologia dell'estetica usata da N., ad una "forma". N. spiega la "forma" come un "esporsi", un "farsi pubblico", e in ciò si avvicina al significato originario del termine. I Greci chiamavano "forma" (morfè) la figura, l'aspetto di un ente (eìdos), ciò in cui l'ente si espone e viene alla luce. La forma va visto in relazione all'ebbrezza. Quest'ultimo termine non rinvia al caos, ma all'opposto, indica la vittoria della forma che fonda l'ambito in cui l'ebbrezza diviene possibile come tale.
Il termine "forma" non va visto inoltre in opposizione al "contenuto". "Forma" non è "margine", limite esterno di un contenuto, ma sua componente essenziale; la forma è l'unico vero contenuto.
Ora però, quando N. tenta di caratterizzare le leggi della forma, nomina quelle leggi logiche e matematiche, che sono viste a loro volta in relazione alla vita fisiologica. "I sentimenti logici", "il piacere dell'ordinato", che costituiscono la base dei giudizi di valore estetico, non sono altro che i sentimenti di tutti gli esseri organici "in rapporto alla pericolosità della loro situazione, o alla difficoltà del loro nutrimento".
Occorre tuttavia determinare meglio l'ambito in cui si collocano tutti questi elementi: l'ebbrezza quale stato estetico fondamentale, la bellezza, e gli stati del creare e del recepire; quindi la forma e il "sentimento dell'ordinato" quale condizione della vita fisiologica.
Cerchiamo di chiarire, semplificandole, le connotazioni fin qui date da N.. Limitiamoci ai due termini essenziali dell'ebbrezza e della bellezza, che stanno fra di loro in un rapporto reciproco. L'ebbrezza è la disposizione fondamentale; la bellezza ciò che predispone e determina. A prima vista si potrebbe definire la prima come l'elemento soggettivo, la seconda, quello oggettivo. L'ebbrezza tuttavia fa saltare la soggettività del soggetto: in essa infatti il soggetto è andato al di là di sè; la bellezza, d'altra parte, spezza il cerchio dell'oggetto separato e a sè stante - giacchè una bellezza in sè non esiste - e lo porta alla coappartenenza essenziale e originaria con il soggetto.
Lo stato estetico dunque non è nè oggettivo nè soggettivo; i due termini fondamentali, ebbrezza e bellezza, denominano con la stessa estensione l'intero stato estetico.

Il grande stile
N. parla di "grande stile", quando si riferisce a quella realtà dell'arte pervenuta alla sua essenza. Il grande stile è lontano dall'arte "eroica" e "tronfia" di Wagner, ed implica la padronanza della misura e della legge, nonchè la calma propria delle anime forti. Lo stile severo, classico, è quello che maggiormente si avvicina ad esso. "Lo stile classico rappresenta essenzialmente questa calma, semplificazione, abbreviazione, concentrazione - il sentimento sommo della potenza è concentrato nel tipo classico". (La volontà di potenza, n. 799).
Nel grande stile trovano la loro sintesi anche l'arte come contromovimento che si oppone al nichilismo, e l'arte come oggetto della fisiologia. Il grande stile esige, da un lato, la misura e la legge che vengono poste nel domare il caos e l'elemento dell'ebbrezza, e quindi presuppone la dimensione fisiologica; dall'altro, esso è rango e decisione, necessari per porre misure e valori nuovi per realizzare il contromovimento. L'arte come grande stile è la semplice calma che domina, conservandola, la somma pienezza della vita e riconduce ad unità gli opposti. Così questa estetica viene portata oltre se stessa: gli stati artistici sono colti in modo estremo, là dove massimamente si distaccano dallo spirito, nella dimensione fisiologica
Associando il grande stile al gusto classico, N. non intende riferirsi al classicismo, che egli associa alla mancanza di contrasti, alla povertà interiore. Il classico, più che a un'epoca dell'arte, è una struttura dell'esistenza, la cui condizione fondamentale è costituita dal dominio della legge sul caos, che si compie all'insegna di una originaria libertà.
Nelle riflessioni di N. che cercano di fissare la differenza tra classico e romantico, si può definire l'essenza dell'arte di grande stile e coglierne la dimensione formatrice e creativa. Riferendosi ai concetti di classico e romantico, N. non pensa all'arte intorno al 1800, ma all'arte di Wagner e alla tragedia greca. Nel "classico", ciò che crea è la pienezza e la sovrabbondanza; nel "romantico", è invece l'insufficienza, la mancanza. Il primo è "attivo", il secondo "reattivo". Tale distinzione di attivo e reattivo si interseca con un'altra, quella di essere e divenire, che tuttavia non manca di ambiguità. Così, ad es., l'esigenza di divenire - di divenire altro, e quindi di distruzione - può essere sia espressione di "forza stracolma e gravida di futuro", come nell'arte dionisiaca, ma può appartenere anche all'insoddisfazione e all'odio. Analogamente, l'esigenza di essere può derivare sia dalla pienezza che dalla sofferenza, come nel "pessimismo romantico" di Wagner.
Il classico è desiderio di essere che proviene dalla pienezza, e in questo senso "stile classico" e "grande stile" paiono coincidere. Quest'ultimo, però, come essenza vera e propria dell'arte, rinvia ad una unità più originaria di attivo e reattivo e di essere e divenire. Da questo punto di vista, dall'essenza dell'arte come grande stile, si chiarisce la posizione metafisica di fondo di N.: il grande stile è il sentimento sommo della potenza, e la potenza è il dominio della calma che conserva e trasfigura gli opposti.

La fondazione delle cinque tesi sull'arte
Dall'essenza dell'arte può scaturire la fondazione delle cinque tesi fornulate in precedenza. La prima tesi dice che l'arte è la forma più nota e più trasparente della volontà di potenza. Questa tesi si può chiarire nel modo seguente. L'arte è la forma a noi più nota poichè è uno stato dell'uomo, dunque di noi stessi, e questo ha la sua fondazione nella concezione del modo secondo cui è data la dimensione in cui, dal punto di vista estetico, l'arte è reale; ossia, nell'ebbrezza della vita fisiologica del corpo. Dal momento che l'arte ha il proprio fondamento nello stato estetico, e questo è concepito in termini fisiologici, essa è la dimensione nella quale l'ente diventa per noi più perscrutabile.
La seconda tesi, che dice che l'arte deve essere concepita dalla prospettiva dell'artista, si dimostra considerando che solo nell'attività produttrice dell'artista diviene reale la creazione dell'arte. Da questa posizione è garantito l'accesso al creare in generale, e quindi alla volontà di potenza.
La terza tesi dice che l'arte è l'accadere fondamentale nell'ente nel suo insieme. Questa tesi, insieme alla quarta, che dice che l'arte è il contromovimento che si oppone al nichilismo, può essere fondata soltanto a partire dalla quinta tesi. E' solo partendo da quest'ultima, che dice che l'arte vale più della verità - e quindi conferisce alla prima un primato unico - che si può stabilire che l'arte è l'accadere fondamentale. Per fondare questa tesi occorre rispondere alla domanda preliminare della filosofia, sull'essenza della verità.

La discrepanza, che suscita sgomento, tra arte e verità
Secondo N., in un appunto del 1888, il rapporto tra arte e verità è una discrepanza che suscita sgomento:
"Il rapporto dell'arte con la verità è stata la prima cosa che mi ha impensierito: e ancora adesso sto, con un sacro sgomento, dinanzi a questa discrepanza".
Per vedere in quale misura l'arte entra in rapporto con la verità, bisogna dire in modo più chiaro di quanto si sia fatto finora che cosa intende Nietzsche con questo termine. Diventa necessario a questo punto procedere a un chiarimento preliminare sul concetto di verità. Va sottolineato che: 1) la necessità del chiarimento trova la sua ragione nella velatezza dell'essenza delle parole fondamentali come verità, bellezza, essere, conoscenza. La stessa esistenza umana è espressamente rinviata ai riferimenti nominati in tali concetti. Il termine "verità", come tutte le parole fondamentali, ha diversi significati, fra loro connessi storicamente e necessariamente. Esso è dunque storico, sia nel senso che i significati sono diversi da epoca a epoca, sia che è fondatore di storia, a seconda dell'interpretazione che diviene dominante. 2) Vi sono due linee capitali entro le quali i significati di tali parole oscillano: la linea essenziale e la linea distolta dall'essenza. Il termine "verità" può riferirsi alla prima, quando denomina l'essenza del vero, e in tal caso la verità è una soltanto, o all'altra, quando si riferisce a un certo particolare vero, e allora ammette il plurale. Si ritiene abitualmente che nel primo caso si denomini l'universale, nel secondo i casi particolari che cadono sotto di esso. Senonchè questa è una semplificazione che, portando a identificare l'essenza come qualcosa di immutabile, ne misconosce il carattere storico. L'unità dell'essenza può essere pensata tuttavia anche attraverso il mutamento: infatti ciò che è mutato può diventare quell'Uno che vale per i molti; ciò che si mantiene è l'elemento immutabile che è durevolmente presente nel suo mutamento.
Ora, per quanto riguarda N., la parola "verità" si muove lungo la linea distolta dall'essenza. Ciò vuol dire che N. non pone la questione autentica dell'essenza del vero, e quindi della necessaria possibilità del mutamento della sua essenza e non sviluppa nemmeno l'ambito di questa questione. Tale omissione peraltro riguarda l'intera storia della filosofia occidentale.
Ma che cosa è il vero, ciò che soddisfa l'essenza della verità? Il vero è il vero ente, ciò che è in verità reale; questo vuol dire: ciò che è conosciuto, soltanto nella conocenza, infatti, il vero viene fissato come tale. E conoscere è sempre un'adeguazione alla cosa, "un commisurarsi con".., per cui è insito nel vero il riferimento a un qualche parametro. Ma per chiarire meglio l'essenza del conoscere descriviamo, nei suoi tratti capitali, due specie fondamentali di conoscenza: la concezione del platonismo e quella positivista.

La verità nel platonismo e nel positivismo. Il tentativo nietzscheano di rovesciare il platonismo in base all'esperienza fondamentale del nichilismo
Nel platonismo il conoscere è un'adeguazione all' idea, intesa come realtà soprasensibile; è un commisurarsi ad esso, rappresentandolo. Alla base di tale concezione c'è una determinata interpretazione dell'essere; tale forma di conoscenza ha un senso soltanto sul terreno della metafisica. Anche per il positivismo il conoscere è un commisurare, ma ciò che costituisce il parametro è il positum, ossia il sensibile. Per N. la questione della verità si mantiene nell'ambito del pensiero occidentale, per quanto si discosti nel particolare dai pensatori precedenti: conoscere è cogliere il reale in termini teorico-scientifici. La verità è l'oggetto a cui si riferisce il conoscere; mentre l'arte è un creare riferito alla bellezza. Ma per quanto riguarda la questione del rapporto tra arte e verità che suscita sgomento, occorre un ulteriore chiarimento sul rapporto tra la sua concezione e gli indirizzi del platonismo e del positivismo. Egli stesso definisce la sua concezione un platonismo rovesciato: mentre per Platone il sovrasensisbile è il vero ente e il sensibile deve essere commisurato ad esso, nella prospettiva del rovesciamento, il sensibile diventa l'ente vero e proprio. Con ciò sembrerebbe che la posizione di N. si identifichi con quella del positivismo. In realtà il rovesciamento nietzscheano va compreso alla luce dell'esperienza fondamentale del nichilismo e della svalutazione dei valori supremi che in esso si attua, che portano la forza dell'esistenza storica dei popoli a indebolirsi. Ma il nichilismo trova la sua origine proprio nel primato del soprasensibile, che si realizza nel platonismo e successivamente nel cristianesimo, una sorta di "platonismo per il popolo". In tale ottica, rovesciare il platonismo non significa solo sostituire meccanicamente un punto di vista gnoseologico con un altro, quello del positivismo. Oltre a diroccare il primato del soprasensibile, il rovesciamento significa anche: cercare e stabilire ciò che è. Significa mantenere, in comune con il platonismo, la convinzione che sia la verità, assicurata per la via della conoscenza, a fornire l'ambito per la nuova fondazione dell'esistenza. E questa viene ancorata al sensibile, che viene dichiarato il vero ente, e viene salvato, in opposizione al platonismo e al nichilismo. Ora, anche l'arte, come contromovimento che si oppone al nichilismo, si muove nella stessa direzione. Ecco quindi che arte e verità, creare e conoscere si incontrano nella prospettiva che mira a salvare il sensibile e a superare il nichilismo.

Ambito e contesto della riflessione di Platone sul rapporto tra arte e verità
Nel platonismo, in cui il soprasensibile è la verità e l'arte in quanto affermazione del sensibile è rinnegata, il rapporto arte-verità è evidentemente un rapporto di antitesi, quindi di discrepanza; viceversa, in una situazione rovesciata, tale discrepanza dovrebbe essere eliminata. Eppure N. dice che il rapporto arte e verità è una discrepanza che genera sgomento. Dobbiamo capire il senso di queste parole se vogliamo cogliere la posizione metafisica di N.. Partiremo dalla posizione filosofica di Platone: la questione se nel platonismo sussista necessariamente un contrasto tra la verità e l'arte va risolta in base alla sua opera.
Platone pone la questione del rapporto tra arte e verità nella Repubblica, il grande dialogo sullo Stato nel quale la forma fondamentale della comunità umana viene fondata sul sapere. Si decide dell'essenza dell'arte e del suo ruolo entro lo Stato in base al rapporto con l'ente e all'essenza della verità. L'arte, a differenza della filosofia che è elevata al rango supremo, ha una posizione subordinata all'interno della comunità, in quanto è mìmesis, riproduzione, imitazione e reca in sè il pericolo della illusione e della menzogna. Nel decimo libro della Repubblica si approfondisce il concetto di mìmesis e si decide del rapporto tra arte e verità.

La "Repubblica " di Platone: la distanza dell'arte (mimesi) dalla verità (idea)
Per comprendere l'essenza della mimesi, occorre sottolineare che per Platone l'imitare si muove nell'ambito del fabbricare, in senso ampio, in relazione all'unicità dell'idea. Ogni cosa che viene fabbricata da un produttore si mantiene nell'ambito dell'idea che fa da guida a quest'ultimo. Ma ci sono due modi sostanzialmente diversi di produrre: uno, proprio dell'artigiano, che consiste nel far apparire l'idea nella materia; e un altro, proprio dell'artista, che la fa apparire nell'immagine, nell'estraneità di un altro materiale. Ogni singolo ente si mostra dunque in tre modi e può essere prodotto da tre tipi di produttori: nel primo, l'ente consiste nell'unicità della sua essenza, nell'idea, e può essere prodotto solo dal dio; nel secondo appare nella materia ad opera dell'artigiano, e nel terzo si mostra nell'immagine per mezzo dell'artista. In questo senso quest'ultimo è "'imitatore" (mimetès): poichè ci mostra l'idea, ma offuscata in un terzo elemento, lontana dall'essere e dalla sua pura visibilità. Per il concetto platonico di mimesi, dunque, non è decisivo il riprodurre, il copiare, ma il fatto di essere in grado di farlo meno di quanto lo faccia l'artigiano. In quanto l'arte è lontana dalla verità, essa non produce l'idea ma un'immagine in un ambito estraneo, il suo modo di produrre è offuscamento e simulazione. Sussiste pertanto nel platonismo una distanza tra arte e verità. Ma la distanza non è discrepanza.

Il "Fedro" di Platone: bellezza e verità in una discrepanza che rende felici
Se però, per N., il rapporto arte e verità è una discrepanza, e la filosofia di N. è un rovesciamento del platonismo, ne consegue che anche nel platonismo deve esserci una discrepanza, ma rovesciata. Dunque il platonismo può essere una indicazione per scoprire in N. - in forma rovesciata - la discrepanza e il suo sito.
Ora, poichè il termine "discrepanza" indica non solo divergenza, ma anche una sorta di coappartenenza, si può parlare di discrepanza solo fra termini che abbiano lo stesso rango. Non si può quindi parlare di discrepanza tra arte e verità, finchè l'arte - secondo l'esposizione della Repubblica - si trova in una posizione inferiore rispetto alla verità. Perchè possa esserci una discrepanza l'arte deve prima essere elevata all'identico rango della verità.
Si rende allora necessario considerare l'arte in Platone secondo un altro riguardo. Nel Fedro, dialogo di grande ricchezza in cui si tratta del bello, dell'anima e dell'amore, emerge una diversa interpretazione platonica della connessione tra arte e verità.
In questo dialogo il bello viene discusso nell'ambito della caratterizzazione del rapporto dell'uomo con l'ente in quanto tale. Secondo Platone, è propria dell'essenza dell'uomo la vista dell'essere. Essa domina in lui fin dall'inizio, ma, a causa del corpo, non può essere scorta nel suo inoffuscato splendore. La riconquista, il rinnovamento della vista dell'essere, avviene attraverso il bello: la cosa più appariscente nell'ambito sensibile, che ci "rapisce e trasporta" nella vista dell'essere. In questo contesto, verità e bellezza si coappartengono, sono riferite nella loro essenza alla stessa cosa, all'essere. Ma in tale coappartenenza si dividono: l'essere e la verità si riferiscono al sovrasensibile, la bellezza al sensibile.
Questa è dunque una discrepanza che tuttavia non genera sgomento, ma rende felici: il bello eleva oltre il sensibile e riporta al vero. Per lo stesso motivo, nel platonismo tale discrepanza viene elusa. Ma dove il platonismo viene rovesciato, ciò che si lasciava occultare deve venire allo scoperto, e ciò che poteva pretendersi felice deve suscitare sgomento.

Il rovesciamento del platonismo in Nietzsche
Anche per N., bellezza e verità, per entrare in discrepanza, devono prima coappartenersi nel riferimento all'essere. Ma per N. l'essere è volontà di potenza; quindi, dall'essenza della volontà di potenza deve risultare una originaria coappartenenza di bellezza e verità che diventa una discrepanza.
Ora, N. non si limita a capovolgere il platonismo, nel senso di mantenere la struttura di quest'ultimo invertendone gli spazi - il mondo sensibile al posto del soprasensibile-, ma effettua uno svincolamento (Herausdrehung), che comporta una profonda trasformazione filosofica.
Termini quali "mondo vero" e "mondo apparente", propri del platonismo, vengono aboliti.
Si prenda il brano intitolato "Come il 'mondo vero' finì per diventare favola. Storia di un errore", che si trova nelCrepuscolo degli idoli. In esso N. articola in sei capitoletti una storia del pensiero occidentale che arriva alle soglie della sua filosofia. Tale storia è scandita dal progressivo venire meno dell'idea centrale del platonismo, quella del mondo soprasensibile.
Nella prima fase, che corrisponde alla dottrina di Platone (N. distingue tra Platone e platonismo), fra mondo sensibile e mondo vero c'è una sostanziale continuità: il mondo vero è raggiungibile dal virtuoso, che è in grado di distogliersi dal mondo sensibile; l' idea è esperita come visione, che conferisce a ogni ente il potere di essere se stesso. Ma già nella seconda fase - che si configura come un platonismo distinto dal pensiero di Platone - viene operata una rottura con il sensibile, e il mondo vero, non più presente nell'ambito dell'esistenza umana, diviene irraggiungibile per il tempo di quest'ultima.
Il terzo periodo designa quella forma di platonismo raggiunta dalla filosofia di Kant. Il soprasensibile, assolutamente irraggiungibile per la conoscenza, è ora un postulato della ragione pratica. Nel quarto, conseguente agli sviluppi del kantismo, vi è un superamento del platonismo, che avviene però senza esiti creativi. Nel quinto, il mondo vero viene abolito. Nondimeno rimane ancora il mondo sensibile e il posto vuoto del mondo superiore. In tale fase, N. designa già il tratto del proprio cammino filosofico che corrisponde alle opere aforistiche, da Umano, troppo umano alla Gaia scienza. Occorre un nuovo passaggio, che si compie nel sesto periodo, in cui anche il mondo apparente viene tolto. Questo è il compito che N. si propone nell'ultima fase della sua filosofia, quella dello Zarathustra.
Abolire il mondo apparente non significa abolire il sensibile, poichè il mondo apparente è il mondo sensibile nello schema del platonismo. La sua abolizione, al contrario, significa valorizzare il sensibile ed eliminare l'eccedenza del soprasensibile. Compiendo questo passo, N. dunque trasforma lo schema gerarchico del platonismo, non si limita a capovolgerlo.
In tutti e sei i capitoli, la storia del platonismo è messa in relazione con un tipo d'uomo che si rapporta al mondo vero. Di conseguenza, il rovesciamento del platonismo diventa una metamorfosi dell'uomo: alla fine del platonismo c'è il superuomo, l'uomo che va oltre (ueber) l'uomo che c'è stato finora.

La nuova interpretazione della sensibilità e la discrepanza, che suscita sgomento, tra arte e verità
Con il rovesciamento, la filosofia di N. guadagna stabilità. In essa emerge una nuova interpretazione del sensibile, per cogliere la quale dobbiamo rifarci all'esposizione nietzscheana dell'arte, in particolare alla sua "estetica fisiologica". Come realtà fondamentale dell'arte N. ha individuato l'ebbrezza. Questo concetto fa riferimento allo sviluppo della forza e della pienezza e al potenziamento di tutte le facoltà; al tempo stesso contiene l'elemento fisiologico sensibile-corporale. Inoltre, il riferimento al concetto di forma, ne mette in risalto la stabilità e la legge. Ne deriva che il sensibile è orientato alla visione d'insieme; la sua essenza è costituita dall'ordine e dalla stabilità.
In questo contesto si inserisce la concezione "prospettica". Per N. il vivente è aperto verso le altre forze in modo tale da incorporarle o da escluderle. Di conseguenza viene attuata dal vivente una interpretazione dell'ambiente e di tutto quanto accade. Da qui deriva che "il carattere prospettico [è] la condizione fondamentale di ogni vita".
La natura organica è caratterizzata da una moltitudine di impulsi e di forze, ciascuno dei quali ha la sua prospettiva. Ma anche il mondo inorganico è "prospettico", solo che in esso, i "rapporti di potenza" sono fissati in modo univoco. Secondo tale concezione, che ricorda molto quella leibniziana, ogni punto di forza è in sè prospettico.
Il sensibile, dunque, per N., non è più l'apparenza, è l'autentica realtà. Ma in tale concezione è inclusa costituzionalmente l'errore, la parvenza. Poichè il reale è prospettico, il vero è ciò che appare fissato nell'orizzonte di un essere vivente, in una pluralità di impulsi in lotta fra loro e in sè prospettici. Ossia, esso non è che una illusorietà costitutiva dell'essere vivente come tale. "Nel mondo organico comincia l'errore", scrive N.. E ancora: "La verità è la specie di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere".
La verità è una specie di parvenza che si giustifica come condizione necessaria dell'affermazione della vita. Ora, anche l'arte e i sentimenti estetici hanno anch'essi il loro fondamento nell'essenza della vita. L'arte è connessa con l'apparire prospettico, anzi è il potenziamento di tale apparire. La sua "attività metafisica" consiste nell'essere la più autentica volontà di parvenza, in cui si fa visibile la somma legge dell'esistenza. La verità invece è una "stasi", una parvenza fissata, e quindi una inibizione della vita, un sintomo di degenerazione.
Ora siamo in grado di comprendere in quale misura arte e verità, nel platonismo rovesciato di N., costituiscano una discrepanza. I due termini infatti, partendo da una unità - costituita dall'apparire prospettico - divergono, in quanto l'arte potenzia la vita più di quanto non faccia la verità. Entrambe, ugualmente necessarie, sono tuttavia divise.
E questo rapporto diviene tale da generare sgomento a causa del fatto che l'arte, in seguito alla morte di Dio, assume un'altra necessarietà, quella di diventare l'autentica legislatrice per l'essere dell'ente: dopo tale evento l'esistenza può essere sopportata soltanto nel creare.

II. L'eterno ritorno dell'uguale (1937)
La dottrina dell'eterno ritorno come pensiero fondamentale della metafisica di Nietzsche
La concezione dell'eterno ritorno dell'uguale di N. non è "eccentrica" rispetto alla sua filosofia, come sostiene qualche commentatore, bensì la dottrina fondamentale, che definisce la sua posizione metafisica di fondo. Essa contiene una asserzione sull'ente nel suo insieme, e nasce attraverso un duro confronto con dottrine che hanno influito sul pensiero occidentale, come quella platonica e cristiana. Domandare intorno a tale dottrina significa dunque domandare sulla posizione metafisica di Nietzsche all'interno del pensiero occidentale e sulla storia stessa della metafisica. In conseguenza di ciò il corso si articolerà nel modo seguente:
a) una esposizione provvisoria della sua genesi, della sua forma e del suo ambito;
b) l'essenza di una posizione metafisica di fondo;
c) L'interpretazione della dottrina dell'eterno ritorno quale ultima posizione metafisica fondamentale nel pensiero occidentale;
d) la fine della filosofia occidentale e il suo altro inizio.
La discussione del punto c) costituisce la conclusione del corso universitario "la volontà di potenza come conoscenza, e quella del punto d) è tentata sotto il titolo "La determinazione del nichilismo secondo la storia dell'essere".

La genesi della dottrina dell'eterno ritorno
Ascoltiamo anzitutto il resoconto di Nietzsche sulla genesi del pensiero dell'eterno ritorno che si trova in Ecce homo. In quest'opera, N. afferma che tale pensiero gli giunse all'improvviso nell'agosto dell 1881, mentre passeggiava attraverso i boschi dell' Engadina superiore. Tale "pensiero" equivale ad uno scuotimento dell'intero essere: è un progetto sull'ente nel suo insieme, in base al quale le cose cambiano volto e peso.
Dal momento in cui tale pensiero si insedia saldamente nel destino. di N., questi si dedica interamente a svilupparlo, progettando di non lasciar trapelare nulla di esso per i dieci anni a venire. In realtà, nelle opere pubblicate negli anni successivi, in particolare nella Gaia scienza, nello Zarathustra e in Al di là del bene e del male egli effettua tre comunicazioni, anche se in forma mascherata.
Tuttavia, da questi velati riferimenti non è possibile comprendere tale pensiero fondamentale. Solo prendendo visione del lascito manoscritto se ne può avere un quadro più chiaro. E' di grande importanza anche discernere tra ciò che N. stesso ha comunicato al riguardo e ciò che tenne per sè.

La prima comunicazione di Nietzsche della dottrina dell'eterno ritorno
N. ne parla per la prima volta nella conclusione della Gaia scienza, nel brano 341, intitolato Il peso più grande. Non è un caso che questo pensiero demoniaco, spaventoso, tutt'altro che "gaio", venga comunicato in quest'opera che si riferisce, nel titolo, alla scienza, ossia all'autentico sapere: l'eterno ritorno dell'uguale appartiene essenzialmente a quel sapere fondamentale. Anche il titolo del brano è importante per la sua comprensione. Il peso stabilizza, raccoglie le forze, dà loro determinatezza, ma nello stesso tempo trasforma la direzione del loro movimento. Tale pensiero deve dunque essere un peso, nel senso del raccogliere, dell'attrarre e del mutare direzione; deve essere cioè determinante per l'ente nel suo insieme. Per questo N. lo definisce "il pensiero dei pensieri" e al tempo stesso il "pensiero più grave": esso non pensa nulla di arbitrario, ma l'ente in quanto tale. E per questo non è presentato da N. stesso, non proviene da uno qualsiasi degli uomini d'oggi, ma da un demone; nè giunge in un momento qualsiasi, ma "nella più solitaria delle solitudini": solo nella solitudine è possibile quell'appropriazione autentica (Vereingentlichung) dell'uomo, in cui viene deciso il peso delle cose e dell'uomo stesso.

"Incipit Tragoedia"
Pensando l'eterno ritorno, il tragico diventa il carattere fondamentale dell'ente. "Incipit Tragoedia" è il titolo del brano successivo, che rinvia appunto al concetto di tragico. Ma come intende N. l'essenza del tragico e quale collegamento vi è fra questo e il pensiero dell'eterno ritorno?
Fin dal suo scritto sulla Nascita della tragedia, N., rifiutando l'interpretazione catartica della tragedia di Aristotele, considera lo spirito tragico come quello che accoglie in sè le supreme contraddizioni. Il tragico è per N. coappartenenza degli opposti: vi è tragedia dove il terribile viene affermato come l'intima antitesi del bello. E il pensiero dell'eterno ritorno esprime appunto l'essenza del tragico, in quanto è suprema affermazione che include anche il no estremo; con esso l'annientamento e il dolore entrano a far parte dell'ente.
Tale brano, che conclude la Gaia scienza, costituisce poi, immutato, l'inizio della prima parte di Così parlò Zarathustra, l'opera che descrive in forma poetica la tragedia dell'eroe Zarathustra, il primo autentico pensatore del "pensiero dei pensieri".

La seconda comunicazione della dottrina dell'eterno ritorno
Lo Zarathustra nel suo insieme costituisce la seconda comunicazione della dottrina dell' eterno ritorno. Zarathustra, come si è detto, è il pensatore eroico che inizia la tragedia, ossia infonde nell'ente lo spirito tragico. L'essenza di Zarathustra è il pensiero dell'eterno ritorno, che viene esposto per immagini poetiche e per parabole nella terza parte dell'opera. Sarebbe tuttavia un fraindendimento dello Zarathustra concepire questa comunicazione come una "teoria" esposta in forma poetica; l'intimo compito di quest'opera è la creazione della figura di Zarathustra, in cui è esposta indirettamente la dottrina. Per N. in questo momento è più essenziale il "come" della comunicazione che non il "che cosa"; il suo "contenuto" non può essere capito dall'uomo di oggi. Per comprendere "il pensiero più grave" occorre che l'uomo sia trasformato in superuomo, cioè nell'uomo che è andato oltre se stesso. Visto con gli occhi del superuomo, il tipo di uomo che c'è stato finora è l' "ultimo uomo", ossia l'uomo mediocre, che rimpicciolisce e banalizza tutto ciò che è intorno a lui.

"La visione e l'enigma"
Si parla più chiaramente dell'eterno ritorno in due brani della terza parte, il primo dei quali è intitolato "La visione e l'enigma".
Si tratta non di un enigma qualsiasi, ma dell'enigma puro e semplice, nel quale si cela la comprensione dell' ente nel suo insieme. Il cogliere tale enigma comporta un "salto" senza un qualsiasi filo conduttore, si tratta di arrischiare la verità dell'ente nel suo insieme. Non c'è peraltro da indovinare una soluzione con la quale ogni problematicità si risolverebbe: l'enigma non può essere tolto di mezzo come enigma.
Il brano si configura come un racconto esposto da Zarathustra ai marinai della nave che lo trasporta nel "mare aperto": egli parla loro della sua salita su di un sentiero di montagna - nel racconto di Zarathustra si associano due immagini essenziali, il mare e la montagna, ossia l'altezza e la profondità estreme che alludono al pensiero dei pensieri - in compagnia di uno strano personaggio, il nano, che rappresenta lo "spirito di gravità", l' "arcinemico" di Zarathustra. Giunti davanti ad una porta carraia, sulla quale sta scritta la parola "attimo", e da cui si dipartono, in direzioni opposte, due sentieri infiniti - la porta carraia e i due sentieri simboleggiano il tempo e l'eternità -, Zarathustra domanda al nano: "Credi tu, nano, che queste vie si contraddicano in eterno?" Questi risponde: "Tutte le cose diritte mentono [..]. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo".
Benchè il nano abbia fatto riferimento al circolo dell'eterno ritorno, non ha indovinato l'enigma, perchè ha preso le cose "troppo alla leggera". Nondimeno Zarathustra rivolge al nano una seconda domanda: "Guarda, continuai, questo attimo!". Zarathustra domanda ora partendo dall'attimo; e in riferimento ad esso si deve pensare di nuovo l'intera visione che esige una propria posizione nell' "attimo" stesso, cioè nel tempo. In tal modo la domanda è posta ad un livello infinitamente superiore, tale da non poter essere soddisfatta dal nano, che scompare dalla scena, sostituito da una seconda visione, nella quale appare un pastore "cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca".

Gli animali di Zarathustra
Interrompiamo l'interpretazione del capitolo a questo punto, per riprenderla in un contesto successivo in cui, dopo l'esposizione sull'essenza del nichilismo, saremo più preparati a comprenderlo. Rileviamo ancora solo poche cose del capitolo "Il convalescente", del terzo libro dello Zarathustra, cominciando dagli animali di Zarathustra e da ciò che simboleggiano.
Essi sono l'aquila e il serpente, non si tratta di animali qualsiasi, poichè la loro essenza è un'immagine dell'essenza dello stesso Zarathustra. E come questi è il maestro dell'eterno ritorno, così essi rinviano a tale pensiero. Quando Zarathustra li scorge per la prima volta - nel Prologo dell'opera -, l'aquila volteggia nel cielo in larghi circoli, mentre il serpente le sta inanellato al collo: è un evidente riferimento al circolo dell'eterno ritorno. Inoltre, l'aquila simboleggia l'orgoglio dell'altitudine, il serpente la prudenza e la padronanza della maschera: sono atteggiamenti legati al tipo di sapere proprio del loro padrone. Infine, sono gli animali della solitudine di Zarathustra, che parlano al loro maestro nel linguaggio immediato ed essenziale dei simboli.

"Il convalescente"
Il quart'ultimo capitolo della terza parte dello Zarathustra tratta più direttamente dell'eterno ritorno. Zarathustra è "convalescente"; egli è tornato in sè, dopo la malattia che lo ha colpito per sette giorni e sette notti. Ciò significa: egli ha finalmente pensato nella sua interezza il pensiero più grave, la sua ultima profondità, lo ha intimamente incorporato nel suo intero contenuto ed è giunto così a se stesso. E' diventato "il portavoce del circolo". In questo contesto i suoi animali gli si avvicinano e gli parlano di questo pensiero con parole suadenti. Rammentano a Zarathustra che il mondo lo attende come un giardino: tutte le cose sono ordinate in modo nuovo e brillano alla luce della nuova conoscenza. Ma Zarathustra li smentisce ironicamente, li chiama "maliziosi burloni e organetti cantastorie": egli non si lascia lusingare dalle loro parole; essi, come il nano, hanno preso il pensiero dell'eterno ritorno "troppo alla leggera".
Va sottolineato che anche in questo brano, come nel precedente, Zarahustra non contrappone una intepretazione della dottrina diversa da quella che gli viene presentata. Solo indirettamente ci dice come essa deve essere intesa. Sia il nano che gli animali, quando parlano del circolo, si collocano al di fuori di esso. Così il nano, di fronte alla porta carraia, dice che le due vie convergeranno all'infinito. Ma Zarathustra dice invece che esse "sbattono la testa l'una contro l'altra". Infatti, se ci collochiamo nell'attimo, non come semplici spettatori, ma come agenti attivamente, le due vie del passato e del futuro non convergono, ma scorrono in direzioni contrarie.
L' essenziale della dottrina è che il futuro è frutto di una decisione: l'anello si chiude nell'attimo che è il centro del contrasto. L'eternità non è quindi qualcosa di esteriore e di eternamente uguale, ma è nell'attimo, che è lo scontro di futuro e passato e che determina il modo in cui tutto ritorna. L'attimo è la cosa più breve ma al tempo stesso più compiuta, in cui si può afferrare la totalità del ritorno: nell'immagine, questo è l'anello vivente del serpente.

La terza comunicazione della dottrina dell'eterno ritorno
La terza comunicazione si trova in Al di là del bene e del male, nell'aforisma n. 56 del terzo capitolo, intitolato "L'essere religioso". Tale brano nella sua parte finale fa un qualche riferimento alla divinità. Nel descrivere l'ideale dell'uomo vitale, che dice sì alla vita e alla sua infinita ripetizione, l'aforisma termina con la frase: "circolus vitiosus deus?", laddove il circolus è l'anello del ritorno, il vitiosus fa riferimento a vitium, il difetto, il patire, ciò che corrompe. Circolus vitiosus è dunque l'anello che fa ritornare anche questo vitium, ossia il male e il dolore. E il deus? Nell'ateismo peculiare di Nietzsche il dio non può essere che una domanda. Nell'esperienza tragica dell'ente, determinato dall'anello tremendo dell'eterno ritorno, sorge la domanda del dio, intorno al quale, come scrisse Nietzsche dicianovenne, "tutto diventa mondo". Ma se il dio cui si fa riferimento è "solo" una domanda, anche lo stesso pensiero dell'eterno ritorno è "solo" una domanda.
L' esposizione dell' eterno ritorno non rinvia ad una dottrina filosofica o ad una teoria scientifica; tutte e tre le comunicazioni sono domande espresse in forme e gradi diversi. Dobbiamo dunque domandarci che cosa sia nella sua formaquesto pensiero che non può essere costretto nelle nostre rubriche abituali, ma, al contrario, deve portare noi a svincolarci da ciò che è abituale.
Prendiamo ora in visione ciò che N. ha pensato sull'eterno ritorno, senza però renderlo pubblico.

Il pensiero dell'eterno ritorno nelle annotazioni non pubblicate
La pubblicazione dei frammenti postumi ci attesta della presenza del pensiero capitale di N. dal 1881 al 1889, sia pure in forme diverse a seconda dell'ambito e della direzione in cui si muove il suo pensiero filosofico. Tentiamo ora di descrivere, secondo l'ordine cronologico, le annotazioni che trattano di questo pensiero.

Le quattro annotazioni dell'agosto 1881
Consideriamo ora quattro annotazioni dell'agosto 1881, che sono al tempo stesso schizzi per un'opera. Il primo schizzo dice:
"Il ritorno dell'uguale
"Abbozzo
"1. L'assimilazione degli errori fondamentali.
"2. L'assimilazione delle passioni.
"3. L'assimilazione del sapere, anche di quel sapere che rinuncia. (Passione della conoscenza).
"4. L'uomo innocente. L'individuo come esperimento. La facilitazione della vita, l'umiliazione, l'indebolimento - transizione.
"5. Il nuovo peso: l'eterno ritorno dell'uguale. Importanza infinita del nostro sapere, dei nostri errori, delle nostre abitudini e modi di vivere per tutto ciò che verrà. Che faccimo noi con il resto della nostra vita, - noi, che ne abbiamo vissuto la maggior parte senza sapere la cosa più essenziale? Noi insegniamo questa dottrina, - è il mezzo più efficace per assimilarcela. Il nostro tipo di beatitudine in quanto maestri della più grande dottrina."
Solo al punto 5 si parla dell'eterno ritorno, e anche qui non si dice nulla sul contenuto. La parola ricorrente è piuttosto "l'assimilazione". Il nuovo pensiero deve essere assimilato, perchè diventi l'atteggiamento di fondo di ogni pensare. Si tratta dunque dell'effetto della dottrina sull'uomo, indicata come un nuovo tipo di beatitudine.
Nel secondo abbozzo si dice:
"1) La conoscenza più potente.
"2) Le opinioni e gli errori trasformano l'uomo e gli danno istinti, ovvero: gli errori assimilati.
"3) La necessità e l'innocenza.
"4) Il gioco della vita"
In questo abbozzo è tenuto d'occhio più il carattere "metafisico" della dottrina che non l'effetto sull'uomo. Vi si parla di "gioco" e di "innocenza". Il riferimento è ad Eraclito, al frammento che dice: "L'eone è un fanciullo che gioca, che gioca con le tessere di una scacchiera; di un fanciullo è il regno"; laddove il termine "eone" (aiòn) è tradotto generalmente come "tempo del cosmo", ma si riferisce anche al tempo della nostra vita. Ciò significa che l'ente nel suo insieme è dominato dall'innocenza. L'abbozzo successivo dice:
"Meriggio ed eternità
"Indicazioni per una nuova vita
"Zarathustra, nato sul lago Urmi, lasciò a trent'anni la sua patria, si recò nella provincia di Aria e in dieci anni di solitudine sui monti compose lo Zend-Avesta.
"Il sole della conoscenza risplende di nuovo a mezzodì: e il serpente dell'eternità s'inanella alla sua luce -- : è il vostrotempo, fratelli del meriggio!"
In questo abbozzo i concetti-chiave sono "meriggio" ed "eternità"; entrambe indicano il tempo, l'"attimo" in cui viene pensato l'eterno ritorno. Del meriggio, del momento in cui cioè il sole è più alto e le cose sono senza ombra si parla nelloZarathustra, nella conclusione della prima parte. Nel centro luminoso del meriggio si scontrano il passato e il futuro e così si imbattono nella decisione.
Il quarto abbozzo è intitolato: "Per il progetto di un nuovo modo di vivere" ed è suddiviso in quattro libri i cui titoli principali sono: Primo libro: Della disantropomorfizzazione della natura. Secondo libro: Dell'assimilazione delle esperienze. Terzo libro: Della felicità ultima del solitario. Quarto libro: Annulus aeternitatis.
Il primo e il quarto libro abbracciano il secondo e il terzo, che trattano dell'uomo. La disantropomorfizzazione della natura, di cui si parla, significa l'eliminazione dei concetti umani in essa proiettati, come colpa, intenzione, fine, provvidenza. La "nuova vita", è un nuovo modo di stare in mezzo all'ente, una nuova specie di verità e quindi una trasformazione dell'ente. Questo ente nel suo insieme viene determinato nel quarto libro come "l'anello dell'eternità".
Ciò che colpisce di questi abbozzi è la ricchezza delle prospettive. Si può supporre che nel suo primo spiegamento, il pensiero dell'eterno ritorno, come tutti i grandi pensieri, contenga tutto l'essenziale, che rimane però inesplicato. E importanti non sono tanto le annotazioni esplicite con cui questo elemento primo viene successivamente sviluppato da N., ma piuttosto la nuova chiarezza che da esso irradia sul suo pensiero e le nuove dimensioni a cui viene elevata la sua filosofia.

Esposizione sinottica del pensiero dell'eterno ritorno: l'ente nel suo insieme come vita, come forza; il mondo come caos
La posizione raggiunta con i quattro abbozzi sarà un punto di riferimento nel patrimonio di annotazioni che ora menzioneremo. Il primo gruppo di esse appartiene al periodo immediatamente successivo all'agosto del 1881 fino alla pubblicazione della Gaia scienza, avvenuta un anno più tardi. Nell'interpretazione di questi frammenti scegliamo la via di una esposizione sinottica, articolandone il contenuto essenziale in dieci punti, per metterne in evidenza la connessione interna.
1) Che cosa è in vista? Il mondo nel suo carattere complessivo. Il mondo, per N., consta di non vivente e vivente, rappresentati nello stesso sviluppo del divenire. Egli afferma sia che il non vivente è la "cenere" di innumerevoli esseri viventi, postulando che il vivente determini la provenienza del non vivente, sia che la vita è soltanto una specie del non vivente, ammettendo che è il non vivente a determinare la specie del vivente.
2) Qual è il carattere generale del mondo? La "forza". Quest'ultimo è un concetto che non si può determinare in modo univoco. N. non intende tale termine nel senso della fisica, per la quale è pensato in un contesto tecnico e calcolativo; nè esso può essere spiegato con il linguaggio delle scienze matematiche. Ciò che N. chiama forza, negli anni immediatamente successivi si chiarisce nei termini di "volontà di potenza".
3) La forza è limitata o illimitata? E' limitata. Ciò risulta dall'essenza stessa della forza. L'infinità, per N., è infatti incompatibile con il concetto di forza, che è in sè qualcosa di stabile e di determinato.
4) Che cosa risulta come conseguenza intrinseca dell'essenziale finitezza della forza? Che la totalità del mondo rimane finita. Tale finitezza non è determinata dall'esterno, ma proviene dal mondo stesso. La forza del mondo non subisce alcuna diminuzione nè alcun incremento.
5) Dalla finitezza dell'ente non deriva una "stasi", ma un costante "divenire": non c'è un equilibrio della forza. Il "divenire" va qui inteso in un senso assai ampio, non significa sviluppo o progresso.
6) Poichè il mondo è un costante divenire - benchè come somma di forza sia in sè finito - ci sono effetti infiniti. Quando N. parla di mondo "infinito", non intende negare la sua essenziale finitezza. Infinito significa qui "smisurato", cioè praticamente non numerabile.
7) Dov'è che questa forza universale è in quanto mondo finito? In quale spazio? Per N. lo spazio è soltanto una "forma soggettiva", così come la rappresentazione della "materia". Lo spazio in quanto tale è la stessa formazione della forza e dei rapporti tra forze.
8) Che ne è del tempo, che di solito viene nominato insieme allo spazio? Il tempo, a differenza del carattere fittizio dello spazio, è reale e illimitato, infinito. N. coglie questo tempo reale infinito come "eternità".
9) Tutte queste connotazioni del mondo riguardo la forza, la finitezza, il divenire, lo spazio e il tempo, vengono pensate congiuntamente e riportate alla determinazione principale - con la quale N. definisce il "carattere complessivo del mondo" -, che consiste nella tesi enunciata nel brano 109 della Gaia scienza, secondo cui : "Il carattere complessivo del mondo è [...] caos per tutta l'eternità". Questa tesi ha per N. una funzione direttrice, in quanto fissa la rappresentazione dell'ente in quanto tale come divenire necessario, in modo tale da escludere dall'ente concetti antropomorfici quali ordine, bellezza, forma, legge, organismo. La nozione di "caos" ha quindi, per N., una connotazione negativa, con la quale egli pratica una sorta di "teologia negativa", volta a disantropomorfizzare l'ente. Egli tuttavia determina il caos con una carattere generale, che è la necessità.
10) Con la tesi: il caos universale è in sè necessità, viene caratterizzato l'universo, al cui essere è attribuito, come elemento fondamentale, l'eterno ritorno dell'uguale.

La perplessità della "antropomorfizzazione" dell'ente
Si potrebbe pensare che nel pensiero dell'eterno ritorno sia insista una antropomorfizzazione, in quanto esso è riferito sia all'ente nel suo insieme, sia all'uomo che lo pensa. Vi è infatti un coinvolgimento essenziale dell'uomo, legato al fatto che l'eternità e il tempo del ritorno sono concepiti in base all' "attimo", e dunque alla decisione. Occorre chiarire questo aspetto, che rischia di infirmare questo pensiero nella sua evidenza e verità.
Ogni concezione dell'ente è inevitabilmente una antropomorfizzazione, in quanto prospettata dall'uomo e riferita ad esso. In questo senso, anche qualsiasi tentativo di disantropomorfizzazione è una antropomorfizzazione, poichè è attuato dall'uomo. Queste riflessioni appaiono insuperabili, e generano atteggiamenti di scetticismo o di rassegnazione. Ma ci si dimentica di porre la domanda preliminare su chi sia l'uomo. Certo, anche questa cade sotto la medesima questione, ed è effettivamente possibile che la definizione essenziale dell'uomo rimanga sempre affare dell'uomo; ma può anche darsi che tale definizione elevi l'uomo oltre se stesso, e quindi lo disantropomorfizzi.
Ora, la domanda sull'essenza dell'uomo non può essere definita nè dalla scienza, nè da una fede, ma deve innestarsi sull' essenza del linguaggio, dato che esso è l'originario risonare della verità di un mondo. La domanda sull'uomo, già nella sua impostazione, deve coinvolgere fin dall'inizio l'uomo e l'ente nel suo insieme in una sorta di circolo in cui, da una parte, l'ente viene interpretato dall'uomo, ma, dall'altra, l'uomo è interpretato partendo dall'ente. Anche nel pensiero dell'eterno ritorno vige una medesima circolarità, poichè, attraverso l'essenza dell'eternità come meriggio e attimo vi è un riferimento all'uomo; anche qui si richiede di pensare l'uomo partendo dal mondo e il mondo partendo dall'uomo. Ciò significa che in tale pensiero è contenuta sia l'estrema antropomorfizzazione, sia il contrario di essa.

La dimostrazione nietzscheana della dottrina dell'eterno ritorno
Bisogna ora seguire le dimostrazioni nietzscheane della dottrina dell' eterno ritorno dell'uguale. Nell'esaminare la forza probatoria di queste dimostrazioni, occorre tuttavia tener presente che tale dottrina va misurata in base alla sua legge propria, superando l'opinione erronea che quelle di N. siano dimostrazioni "naturalistiche". Se si deve dimostrare che l'eterno ritorno è la determinazione fondamentale della totalità del mondo, che esso è il modo in cui l'ente nel suo insieme è, lo si può fare soltando mostrando che tale determinazione risulta necessariamente dalla costituzione della totalità del mondo.
Ora, dal carattere della forza risulta la finitezza del mondo e del suo divenire; dalla finitezza del divenire è escluso uno scorrere all'infinito, ma ne risulta uno scorrere in sè ricorrente. Dato inoltre il tempo come infinito, ed essendo escluso uno stato di equilibrio, ne deriva che le possibilità dell'ente devono ripetersi all'infinito. E poichè la concatenazione degli effetti tra i singoli processi del divenire è una concatenazione conchiusa - sebbene praticamente smisurata - ognuno di essi ritornerà uguale. Dunque il carattere della totalità del mondo, in quanto eterno caos della necessità, è l'eterno ritorno dell'uguale.

Il presunto procedimento "naturalistico" nella dimostrazione. Filosofia e scienza
La dimostrazione di N. della dottrina dell'eterno ritorno non è "scientifica" - e quindi non sottostà in nessun punto al tribunale della scienza della natura - in quanto fa uso di concetti che non appartengono alla scienza della natura. Quest'ultima fa uso di termini quali forza, spazio, tempo, movimento, ma non può dire che cosa siano. Una scienza, in quanto tale, non può domandare intorno ai propri concetti fondamentali, che le rimangono inaccessibili. Questo è il compito della filosofia, che non è, peraltro, giustapposta alle scienze, ma è racchiusa nell'ambito più intimo della scienza stessa. Quest'ultima può essere vero sapere e andare oltre una mera tecnica soltanto se domanda intorno alla verità dell'ente,si muove nelle posizioni di fondo dell'ente e le fa diventare operative. Ciò non significa adottare il linguaggio e i concetti della filosofia, ma può avvenire sia attraverso il pensiero proprio di una filosofia che chiami in causa il domandare scientifico, sia attraverso l'intima forza del domandare della scienza stessa. Solo così è possibile un profondo accordo tra pensiero filosofico e ricerca scientifica, in una fertile coappartenenza interiore, senza che esteriormente e istituzionalmente debbano occuparsi l'uno dell'altra.

Il carattere della "dimostrazione" della dottrina dell'eterno ritorno
In apparenza la dimostrazione dell'eterno ritorno è una inferenza, che deduce una conclusione da una premessa maggiore; da proposizioni sull' essenza dell'ente nel suo insieme trae delle conclusioni sul modo di essere di questo ente. In realtà solo con la determinazione della totalità del mondo come eterno ritorno, si rende visibile l'essenza del mondo come eterno caos; in altri termini: l'essenza diviene visibile solo con la conclusione. Quindi non inferenza, ma svelamento di posizioni che sono poste con il progetto dell'ente nel suo insieme.
Ma allora, se questo carattere fondamentale non può essere dimostrato deduttivamente, ma soltanto attribuito, si ripropone la questione dell'antropomorfizzazione. Tanto più che N., nello stesso periodo in cui tenta di pensare l'essenza del mondo come eterno ritorno dell'uguale, si convince che si pensa sempre e soltanto da un "angolo di mondo", l'uomo è concepito come "colui che sta in un angolo" (Ecken-steher). "Noi non possiamo vedere dietro il nostro angolo", scrive all'aforisma 374 della Gaia scienza.
Ma l'intenzione di escludere ogni antropomorfizzazione nel pensare l'essenza del mondo, non si concilia con tale concezione dell'uomo. N. cerca di conciliare ambedue le possibilità: esige la suprema antropomorfizzazione dell'ente e l'estrema naturalizzazione dell'uomo. E allora diviene decisivo sapere da quale angolo l'uomo veda, poichè l'antropomorfizzazione diviene tanto più inessenziale quanto più originariamente l'uomo assume la collocazione di un angolo essenziale. I due termini, la totalità del mondo e il pensiero del pensatore, non si possono separare. Questa riflessione chiarisce che, nel pensare il pensiero più grave, ciò che è pensato non si può separare dal come lo si pensa. Anche da questo possiamo desumere quanto sia fuorviante immaginare le dimostrazioni dell'eterno ritorno al modo delle dimostrazioni fisiche e matematiche.

Il pensiero dell'eterno ritorno come fede
La seconda parte di questo gruppo di annotazioni è stata intitolata dai primi curatori dei frammenti postumi "Effetto della dottrina sull'umanità"; mentre la prima parte recava il titolo "Esposizione e fondazione della dottrina". Ciò presuppone una concezione arbitraria che fa dell'eterno ritorno una "teoria" con conseguenti effetti pratici. Come si è visto, proprio l'inestricabilità del come del pensiero dal che cosa del pensato vanifica una distinzione di questo tipo.
La caratterizzazione più importante di questo secondo gruppo di annotazioni è quello che connota il pensiero dell'eterno ritorno come "fede". Qui il pensiero viene messo in relazione con il contenuto di determinate religioni, quelle che svalutano la vita dell' aldiqua. N. lo definisce come "la religione delle anime più libere, serene e sublimi". Ciò non significa che tale pensiero sia una sorta di religione personale di N. che possa essere espunta senza conseguenze dalla sua filosofia. Fede non è per N. l'assenso a una dottrina rivelata. D'altra parte, il pensiero dell'eterno ritorno determina da sè, in modo nuovo, l'essenza della religione. L'essenza della fede, secondo le stesse parole di N., consiste nel "tenere-per-vero". Il tenere-per-vero è il tenersi nel vero e quindi un tenersi nel duplice senso di avere un sostegno (Halt) e di mantenere un contegno (Haltung). Questo tenersi riceve la sua determinazione da ciò che è posto come vero. Il vero per N. è ciò che, nel continuo fluire di quel che diviene, è fissato in determinate rappresentazioni-guida; fede quindi, per N., è fissare ciò che muta continuamente e consolidare se stesso in questo riferimento al fissare.
Ora, N. afferma ripetutamente che il pensare il pensiero più grave diventa il supremo conoscere, e, insieme, un creare e un donare, quindi la forma fondamentale del sacro e del "religioso". Tuttavia N. designa come religioso questo pensiero perchè, in quanto pensiero dell'ente nel suo insieme, fissa l'ente stesso nel suo progetto dell'essere, fissa il modo in cuil'essere è in quanto caos della necessità del costante divenire.
D'altra parte, questo pensiero, riguardando l'ente nel suo insieme, non può essere dimostrato con dei fatti mediante relazione causale, ma è sempre soltanto una possibilità. Ciò non significa che esso sia svalutato, il tenersi in questo pensiero è anch'esso essenziale per il suo essere vero; il sostegno si determina in base al contegno e non viceversa. Noi, in conformità con l'intera storia occidentale siamo abituati a pensare soltanto in base al reale, dimentichiamo che il pensare la possibilità è sempre un pensare creativo. Ma la possibilità di cui qui si domanda è più potente di qualsiasi cosa reale ed effettiva. N. afferma infatti che tale pensiero contiene "la possibilità di determinare e di ordinare nuovamente i singoli uomini nei loro affetti". Esso porta un'altra storia: non solo perchè lascia dietro di sè delle conseguenze e dei fatti, ma perchè nella prospettiva di quel pensiero si fa diverso il modo di accadere e di agire.
Sennonchè, a questo punto emerge una nuova domanda: se tutto è necessario, se tutto ritorna come era già, allora tutto è indifferente e ogni pensare e programmare non diventano superflui? Questo pensiero, insomma, porterebbe ad una sorta di fatalismo.

Il pensiero dell'eterno ritorno e la libertà
Nell'anello della necessità, infatti, la libertà sembra essere tanto superflua quanto impossibile; questo pensiero riconduce alla antica questione del rapporto tra libertà e necessità. Nondimeno, in questa prospettiva viene perso di vista l'essenziale: l'eterno ritorno va pensato a partire dall'attimo, in base al quale viene deciso ciò che ritornerà. Dunque, questo pensiero non deve essere costretto dentro la tradizionale antinomia, ma deve essere pensato in base a se stesso.
Percepirsi in una sequenza di avvenimenti che si ripetono continuamente in una monotonia circolare, invece, significa percepirsi dall'esterno, dimenticando che soltanto l'uomo, nella temporalità, determina il modo in cui sta nell'anello dell'ente.
Concludiamo con una osservazione di N., nella quale si fa luce il riferimento dell'eterno ritorno al tempo. Si tratta del già menzionato brano intitolato "Meriggio ed eternità", che afferma:
"E, in generale, in ogni anello dell'esistenza umana vi è sempre un'ora nella quale, prima a uno, poi a molti, poi a tutti si presenta il pensiero più possente, quello dell'eterno ritorno di tutte le cose: - ogni volta è questa, per l'umanità, l'ora del meriggio".
Sappiamo che per N. il meriggio rinvia all'attimo, al momento in cui le ore ante-meridiane e post-meridiane, passato e futuro, si incontrano. Questo punto di incontro è l'attimo dell'eternità, in cui l'esistenza umana viene trasfigurata nella sua altezza somma e nella sua volontà più forte.

Retrospettiva sulle annotazioni dell'epoca della "Gaia scienza" (1881/82)
Se confrontiamo il copioso materiale che si trova nelle annotazioni del periodo corrispondente alla pubblicazione dellaGaia scienza, nella quale si trova la prima comunicazione della dottrina, vediamo che il materiale pubblicato sta in una grande sproporzione con quanto N. già aveva pensato e sapeva. La prima comunicazione di N. nei brani 341 e 342 ("Il peso più grande" e "Incipit Tragedia") della Gaia scienza racchiude tuttavia le due direzioni di fondo essenziali di questo pensiero: l'eterno ritorno in quanto pensiero che contribuisce anch'esso a formare e a trasformare l'ente nel suo insieme; e in quanto, per essere pensato, richiede il suo pensatore e maestro proprio.
E' soprattutto a causa della "velatezza" delle comunicazioni pubblicate che la Gaia scienza e Così parlò Zarathustra, nelle quali si enunciava la nuova filosofia, rimasero incomprese. Se ora muoviamo dallo Zarathustra e leggiamo i frammenti postumi corrispondenti, osserviamo che il rapporto tra quanto comunicato e quanto rimase inedito è opposto rispetto al periodo della Gaia scienza.

Le annotazioni del periodo dello "Zarathustra" (1883/84)
Le annotazioni di questo periodo sono tanto esigui nelle dimensioni quanto importanti nel contenuto, che è espresso in forma estremamente concisa.
Nel brano n. 720 si afferma: "La vita stessa creò questo pensiero che è il più grave per la vita, essa vuole superare il suo ostacolo più alto!" L'eterno ritorno è presentato come scaturente dall'essenza della vita; esso è il più grave per la vita, in quanto è il più difficile da pensare e offre la resistenza più tenace al potenziamento della vita stessa.
Altri brani fanno riferimento all'"eraclitismo" di N., il quale, intorno al 1881, parla sovente del "flusso perenne di tutte le cose", e chiama tale dottrina "l'ultima verità", quella che non tollera più alcuna assimilazione: infatti la concezione della perenne instabilità non può essere tenuta per vera dall'uomo, pena la sua completa distruzione. Ora però, nel brano n.723, N. scrive : "Io vi insegno la redenzione dal flusso perenne". Ciò vuol dire che l'eterno ritorno "fissa" il flusso perenne, ne determina il carattere essenziale, superandone il carattere distruttivo. Il divenire viene mantenuto come divenire, e tuttavia viene immessa in questo divenire la stabilità, cioè l'essere. In tal senso, anche questa verità può essere assimilata.
Nel brano n. 727 N. afferma: "Un processo infinito non può essere pensato altrimenti se non come periodico". Si ribadisce che, nell'infinità del tempo reale, per un mondo finito, soggetto al divenire, è possibile soltanto un corso circolare. Inoltre, i singoli avvenimenti non vanno pensati in modo esteriore, come accostati in serie l'uno all'altro, ma ciascuno è sempre la risonanza del tutto e la consonanza con il tutto. ("Non lo sai? In ogni azione che tu fai è ripetuta e compendiata la storia di tutto l'accadere". N. 726).
La considerazione che con il pensiero del ritorno tutto diverrebbe indifferente, ha inquietato N. seriamente e lo ha portato a riflettere sulle conseguenze della dottrina, cui si accenna nel brano n. 729 : "Paura delle conseguenze della dottrina: le nature migliori andranno forse in rovina per causa sua? Saranno le peggiori ad accettarla?"
La dottrina si affermerà dapprima presso "la plebaglia, che è fredda e senza grandi crisi interiori", mentre "gli uomini supremi" saranno guadagnati a sè per ultimi. (N. 730).

Le annotazioni del periodo della "Volontà di potenza" (1884-1888)
Dal 1884 fino alla fine della sua attività, N. è occupato dal progetto di un'opera che esponga sistematicamente la sua filosofia. Il patrimonio di inediti di questo periodo è molto abbondante ed è articolato secondo diversi piani e progetti. Il pensiero dell'eterno ritorno è al centro del suo pensiero, e deve guidare l'opera capitale. (E' quindi priva di fondamento l'interpretazione secondo cui questa dottrina sia stata messa da parte e abbandonata).
L'opera capitale, tuttavia, non fu mai composta; restano soltanto frammenti singoli, annotazioni che non trovano una configurazione compiuta. L'opera esistente, intitolata appunto La volontà di potenza, è stata compilata dai curatori dei frammenti postumi, che si sono avvalsi di piani e di progetti abbandonati da N. stesso. (Il quale per un certo tempo, masolo per un certo tempo, aveva effettivamente pensato di dare questo titolo alla sua opera). Tale opera è dunque un falso che ha profondamente fuorviato l'interpretazione della filosofia di N..
Se ora passiamo all'analisi dei piani vediamo che il pensiero dell'eterno ritorno assume ovunque la posizione determinante. Nei piani e nei progetti degli anni 1884/85 emerge il tentativo di costruire l'opera capitale, di cui lo Zarathustra è stato il preambolo; manca tuttavia qualsiasi traccia di un'opera dal titolo La volontà di potenza. Nel 1885 si trova invece l'annotazione: La volontà di potenza. Tentativo di una interpretazione di ogni accadere. In tale piano si vede come la questione della volontà di potenza è inquadrata nella filosofia dell'eterno ritorno. (Un importante rinvio alla connessione tra questi due concetti si trova già in un piano n. 2 dell'anno precedente).
Negli anni immediaamente successivi viene messa in atto l'interpretazione di ogni accadere come volontà di potenza, che diviene il centro della progettata costruzione. Il tutto rimane nondimeno retto e determinato dal pensiero dell'eterno ritorno. In altri termini: la filosofia che N. progetta di esporre è quella dell'eterno ritorno; per darle forma c'è bisogno dell'interpretazione di ogni accadere come volontà di potenza. Per questo il termine "volontà di potenza" entra nel titolo dell'opera progettata.
Il piano del 1886 è intitolato "La volontà di potenza. Tentativo di una trasvalutazione di tutti i valori". Trasvalutazione è ciò che il peso più grande - l'eterno ritorno - deve operare nei confronti dei valori, cioè del potenziamento della vita.
I piani dell'anno seguente hanno una struttura unitaria, e, sebbene la dottrina della volontà di potenza sia preminente, il pensiero dell'eterno ritorno conserva una posizione non indebolita. Esso diviene il punto "critico", nel contesto dell'evento del nichilismo, tra l'epoca divenuta senza peso e quella che cerca nuovi pesi.
Anche i piani della primavera e dell'estate del 1888, l'ultimo anno di attività di N., presentano gli stessi tratti, ogni volta il piano va a culminare nel pensiero dell'eterno ritorno. Negli ultimo piani dell'autunno del 1888 il titolo La volontà di potenza scompare di nuovo come titolo principale per fare il posto a quello che finora era il sottotitolo: Trasvalutazione di tutti i valori.
I curatori della volontà di potenza, hanno opportunamente distribuito, seguendo le indicazioni dello stesso N., i brani sulla dottrina dell'eterno ritorno in due luoghi: nel primo libro, Il nichilismo europeo, e nel quarto libro, Disciplina e allevamento.
La questione del nichilismo e dell'eterno ritorno, trattata nel primo libro, richiede una discussione a sè. Ora entriamo brevemente nel merito di quanto è raccolto nel libro quarto, per vedere se, nelle annotazioni tra il 1884 e il 1888, ci sia un ulteriore sviluppo della dottrina.
Ad un confronto sommario, niente sembra sia cambiato rispetto al periodo precedente. Ma ad uno sguardo più attento (soprattutto se teniamo conto che N. in questo periodo ripensa a fondo la sua filosofia), emerge un quadro diverso. Occorre anche leggere i 15 brani dell'edizione oggi disponibile non nell'ordinamento dato dai curatori, ma secondo la loro successione cronologica. Rimandiamo la discussione di tali brani al momento in cui procederemo alla interpretazione vera e propria del pensiero fondamentale di N.; metteremo in evidenza una sola circostanza essenziale.
N. parla, in modo più chiaro di prima, dei "presupposti" della dottrina dell'eterno ritorno. Questo, in un primo momento, è strano; infatti, il pensiero fondamentale che tutto determina non può avere presupposti. In realtà, N. pensa ora l'eterno ritorno partendo dalla volontà di potenza, intesa come la costituzione generale di tutto ciò che è. La volontà di potenza, dunque, sarebbe il "presupposto" dell'eterno ritorno, secondo i seguenti sensi:
1) ne sarebbe il fondamento conoscitivo (Erkenntnisgrund, ratio conoscendi), in quanto da essa, come carattere di forza dell'universo, si può arguire l'eterno ritorno;
2) ne sarebbe il fondamento reale (Sachgrund, ratio essendi), in quanto l'eterno ritorno è possibile soltanto se dell'ente in quanto tale è propria la costituzione della volontà di potenza.
3) in quanto la costituzione dell'ente (il suo "che cosa", la quidditas, essentia) fonda il modo dell'essere (il suo "come" e il suo "che è", l'existentia).
La questione del rapporto tra volontà di potenza ed eterno ritorno era oscura per N. stesso, fonte di inquietudine per il suo pensiero. In ogni caso, per N., fra i due concetti vi è una essenziale coappartenenza. Lo dimostra il rifacimento di uno dei 15 brani, il n.1067, che, nella seconda versione, nella conclusione, dice: "Questo mondo è la volontà di potenza - e nient'altro!". Ma nella prima versione, alla domanda "Che cos'è per me il mondo?" N. rispondeva: é l'eterno ritorno dell'uguale.

La forma della dottrina dell'eterno ritorno
Per forma intendiamo la struttura interna della sua verità, prefigurata da questa stessa verità. La domanda, se la dottrina di N. abbia una forma in questo senso, non ha una risposta immediata. Ovunque nei pensieri di N. si manifesta indirettamente una propria legge della verità. Per coglierla occorre superare le comode rappresentazioni correnti che pretendono di inquadrare la sua filosofia e guadagnare una prospettiva dalla quale sarà possibile cogliere una posizione di fondo, i fondamenti determinanti della forma. Tale prospettiva può risultare da una visione che anticipi l'insieme della sua filosofia.
I tre poli, mobili l'uno rispetto all'altro, intorno ai quali ruotano gli sforzi relativi alla costruzione della sua opera capitale sono l'eterno ritorno, la volontà di potenza e la trasvalutazione di tutti i valori. Il complesso in cui questi tre termini sono legati in una coappartenenza originaria e unitaria, è la forma cercata. Tutti e tre significano l'insieme di questa filosofia, e nessuno la coglie pienamente, perchè la forma di questa filosofia non si lascia costringere in una sola direzione.
Questi tre poli sono riconoscibili anche dai titoli dell'opera progettata, ognuno dei quali viene scelto in successione come principale; noi non seguiremo, tuttavia, la via di un confronto dei piani e dei titoli, che rimarrebbe all'esterno della filosofia di N..
Occorre invece guardare all'ambito che questo pensiero abbraccia e sul quale è sovrano.

L'ambito del pensiero dell'eterno ritorno: la dottrina dell'eterno ritorno come superamento del nichilismo
L' "ambito" è il contesto unitario da cui questo pensiero è determinato e a sua volta determina; la circoscrizione della sua provenienza e del suo dominio. Tale ambito deve assicurare al pensiero dell'eterno ritorno la sua determinatezza, per evitare che sia pensato in termini generici.
Nella filosofia di N. c'è da rilevare una caratteristica essenziale: il pensiero di questo filosofo costituisce un contromovimento e un rovesciamento rispetto all'intera filosofia occidentale, interpretata come platonismo. Scagliandosi contro i valori supremi di quella tradizione, esso diventa il "rovesciamento di tutti i valori".
Un rovesciamento di tale portata, nella sua necessarietà, deve scaturire da questa tradizione e contemporaneamente rimanervi radicato. Se ora l'eterno ritorno è il pensiero fondamentale dell'autentica filosofia di N., allora l'essenza di questo pensiero deve essere radicata in quell'esperienza della storia occidentale dalla quale scaturisce la necessità di un contromoviemnto e di un rovesciamento. Questa esperienza è quell'evento fondamentale dell'uomo occidentale designato come "nichilismo". [Una delucidazione approfondita dell'essenza del nichilismo è fornita nel secondo libro di quest'opera].
Solo dal sapere dell'evento del nichilismo come il fatto fondamentale della storia, ci si apre l'ambito del pensiero dell'eterno ritorno. Il confronto con il nichilismo è la cosa più difficile, tanto più che anche il pensiero dell'eterno ritorno ha un carattere nichilistico, in quanto, eternizzando l'"invano", esclude un fine ultimo per l'ente. N. scrive: "Pensiamo questo pensiero nella forma più terribile: l'esistenza, così com'è, senza senso e scopo, ma inevitabilmente ritornante, senza un finale nel nulla: l'eterno ritorno". (La volontà di potenza, n. 55).
Ma l'eterno ritorno costituisce il superamento del nichilismo solo se è colto nel suo carattere di attimo e di decisione. In quanto superamento del nichilismo esso lo presuppone, tuttavia, nel senso che lo pensa fino in fondo, all'estremo.

Attimo ed eterno ritorno
A questo punto possiamo riprendere il seguito del racconto di Zarathustra nella "Visione e l'enigma" che avevamo lasciato in sospeso, e al tempo stesso ripensarlo a fondo nell'insieme.
La seconda visione di Zarathustra, caratterizzata dall'immagine del pastore dormiente, "cui un greve serpente nero penzolava dalla bocca", si svolge in un paesaggio desolato, segnato dall'ululare di un cane. Tutto evoca l'immagine speculare opposta all'atmosfera del pensiero dell'eterno ritorno: l'ululato del cane e il "greve serpente nero" invece dell'aquila volteggiante con il serpente intorno al collo; la mezzanotte, il tempo più distante dal meriggio. Il serpente nero simboleggia l'aspetto tetro e senza fine del nichilismo. In questo contesto, i rimandi di Zarathustra alla sua fanciullezza rinviano alla preistoria del pensiero dell'eterno ritorno, che coincide con la genesi e l'avvento del nichilismo. N. allude qui all'epoca in cui il suo mondo era determinato da Schopenhauer e da Wagner i quali insegnavano il pessimismo e la dissoluzione nel nulla.
Zarathustra cerca inutilmente di liberare il giovane pastore tirando e strappando il serpente. Ciò vuol dire che il nichilismo non può essere eliminato dall'esterno, ponendo cioè al posto del Dio cristiano un altro ideale come la ragione, il progresso, la democrazia. Il serpente nero del nichilismo deve essere superato prprio da chi ne è coinvolto: quando Zarathustra grida: "Mordi!", il pastore stacca la testa del serpente con un morso e la sputa via, balzando in piedi. "Non più pastore, non più uomo, - un trasformato, un circonfuso di luce, che rideva! "
Questo significa che il nichilismo deve essere superato dalle fondamenta, attraverso la critica - da parte di coloro che ne sono coinvolti - degli ideali che esso pone e da cui proviene. Il pastore è Zarathustra stesso, che ha morso la testa del serpente, ha superato il nichilismo ed è divenuto padrone del pensiero dell'eterno ritorno. Zarathustra che è divenuto un convalescente - nel capitolo omonimo dello Zarathustra - dopo essere passato attraverso la malattia, dopo avere imparato cioè che ciò che nel nero serpente strangola fa parte del sapere. Coloro che invece hanno fatto del pensiero "una canzone da organetto", fuggono dal sapere genuino, perchè questo sapere "strangola". In altri termini: pensare a fondo il pensiero dell'eterno ritorno significa superare, attraverso l'attimo e la decisione, la spaccatura minima tra due prospettive che si assomigliano. Una dice: tutto è nulla, tutto è indifferente, nulla vale la pena, tutto è uguale; l'altra afferma: tutto ritorna, ogni attimo è importante, tutto è importante, tutto è uguale. Pensare fino in fondo questo pensiero esige dunque il confronto con il "tutto è uguale", con il "non vale la pena".
Dando ora uno sguardo d'insieme all'esposizione nietzscheana, notiamo che la discussione del contenuto è passata in secondo piano rispetto alla modalità del pensiero e delle sue condizioni. Queste ultime possono essere ricondotte a due, che a loro volta si coappartengono:
1) Il pensare partendo dall'attimo. Trasporsi nella temporalità dell'agire e del decidere.
2) Il pensare il pensiero come superamento del nichilismo. Trasporsi nella necessità della situazione che emerge con il nichilismo.
D'altra parte il contenuto del pensiero non è trascurato, ma emerge in modo singolare; in questo pensiero ciò che va pensato, per il modo in cui è pensato, si ripercuote su colui che lo pensa. L'eterno ritorno dell'uguale è pensato soltanto se è pensato nichilisticamente e secondo l'attimo.

L'essenza di una posizione metafisica di fondo. La sua possibilità nella storia della filosofia occidentale
Il pensiero dell'eterno ritorno è il pensiero metafisico di N. in quanto pensa l'ente nel suo insieme. Proprio per questo, sussiste un rapporto di coinvolgimento e di ripercussione tra il pensiero e colui che lo pensa. (In tale pensiero, colui che pensa entre nell'anello del ritorno in modo da deciderne egli stesso). La ragione del fatto che questo rapporto sia così incalzante è insita nella metafisica di N., che occorre mettere in luce. Ma prima va chiarita la posizione metafisica di fondo nella storia della filosofia occidentale. Tale posizione deve essere qui discussa in linea di principio, secondo una prospettiva essenzialmente storica.
Con il termine "metafisica" si indicano le domande fondamentali di una filosofia. Il significato abituale della parola contiene ancora un debole riflesso di questo carattere: si designa ciò che sta dietro, sullo sfondo, che è oscuro e indeterminato; e ancora: si nomina la fine e il confine del pensare e del domandare, piuttosto che l'inizio e il loro spiegamento. La storia di questa parola è singolare; da questa storia dipende la configurazione del mondo spirituale occidentale e quindi del mondo in generale.
"Metafisica" indica dunque la cerchia delle domande vere e proprie della filosofia, che sono incluse in una sola domanda fondamentale, che le guida e nella quale sono fuse. Tale domanda mette subito anche se stessa nella chiarezza che produce. All'inizio la filosofia domanda dell'archè (il principio, ciò che sta all'inizio e domina). Poichè l'archè viene cercato non per singoli fatti, ma solo per l'ente, domandando dell'archè, è già posta la questione dell'ente nel suo insieme; l'ente è divenuto visibile in quanto ente e nel suo insieme. Si domanda di ciò che determina e domina l'ente nel suo insieme e nel suo governare. Corrispondentemente, la domanda della filosofia può essere espressa nella forma più semplice: che cosa è l'ente? Con la definizione di questa domanda-guida, la filosofia occidentale raggiunge, al suo inizio, la conclusione essenziale.
La filosofia occidentale, nello svolgimento della sua storia, rimane nel quadro della domanda-guida, la quale, tuttavia, retrocede sempre di più in secondo piano. Essa non viene ulteriormente dispiegata nella sua struttura propria. Con le risposte alla domanda-guida, non più dispiegata, maturano determinate posizioni nei confronti dell'ente in quanto tale, che determinano anche la posizione dell'uomo in rapporto all'ente. Quest'ultimo viene esperito sia come physis, sia come creazione da parte di un creatore, sia come realtà di uno spirito assoluto. Queste posizioni, che scaturiscono dalla e con la domanda-guida, a sua volta non dispiegata, costituiscono la posizione metafisica di fondo.
Nondimeno, il concetto di una posizione metafisica di fondo, e le stesse posizioni metafisiche che si sono succedute storicamente, rimangono in una situazione di non chiarezza, se la domanda-guida non si dispiega nella sua essenza.Dispiegare la domanda, significa domandare in modo più essenziale e più originario, in modo tale da vederne la struttura interna. La domanda-guida dispiegata chiede "che cosa è l'ente?", a differenza di quella più originaria che la regge e la dirige, che chiamiamo domanda fondamentale.
Tracciamo ora la struttura della domanda-guida dispiegata. Con tale domanda non si intendono un ente qualunque o soltanto tutti gli enti, ma l'intero, l'ente in quanto uno. Oltre a quest'uno, non c'è che il nulla, e qui, al primo sommario passo della domanda sull'ente ci siamo imbattuti nel nulla. Ora, il campo della domanda, ossia l'ente nel suo insieme, non viene interrogato e misurato per ridurlo a conoscenza nella sua inestimabile molteplicità, ma la domanda mira fin dall'inizio all'ente in quanto è essente. Domandiamo l'essere dell'ente, la sua enticità, in greco ousìa. Sia nel campo della domanda, che nella demarcazione del fine - che si condizionano reciprocamente - si fa esperibile la vicinanza del nulla. Esso rende esperibile l'ente come ente, come la notte il giorno.
Nello spiegamento della domanda l'ente viene preso di mira in relazione a ciò che è, a quale aspetto abbia, e quindi a come sia fatto in se stesso; chiamiamo ciò la sua costituzione. L'ente ha inoltre il suo modo d'essere, e in quanto tale è o possibile o reale o necessario. In base alla interazione reciproca di questi due riguardi, si determina l'essere dell'ente. Già a questo punto si vede come questa domanda possieda una struttura ben determinata e molto ricca, che noi non conosciamo e non dominiamo. E benchè il campo della domanda non possa essere assemblato sommando settori separati dell'ente, tuttavia, la domanda-guida ha di volta in volta un riferimento eccelso a una regione determinata. Sussistono, nella costituzione e nei modi dell'ente, ordini e gradi che si chiariscono a vicenda. Ogni volta è determinante, nello spiegamento della domanda, una sola regione, dalla quale l'ente nel suo insieme non viene dedotto, ma condotta nel suo schiarimento.

La posizione metafisica di fondo di Nietzsche
La posizione metafisica di fondo di N., ossia la posizione assegnata alla sua filosofia dalla storia della filosofia occidentale, può essere determinata in base alla risposta che egli dà alla domanda relativa alla costituzione dell'ente e al suo modo di essere. N. dà due risposte riguardo all'ente nel suo insieme: dice sia che l'ente nel suo insieme è volontà di potenza e sia che è eterno ritorno dell'uguale. Venendo dalla domanda-guida dispiegata, ora l'interpretazione è in grado di chiarire la coappartenenza necessaria di queste due risposte. Dire che l'ente "è" volontà di potenza significa che l'ente in quanto tale ha la costituzione di ciò che N. determina come volontà di potenza. E dire che l'ente "è" eterno ritorno significa che l'ente in quanto ente è, riguardo al suo modo di essere, eterno ritorno dell'uguale. Dunque la coappartenenza si determina essenzialmente in base alla coappartenenza di costituzione e modo di essere.
La posizione metafisica di N., nel contesto della filosofia occidentale, è la fine della metafisica in quanto torna all'inizio del pensiero greco, a suo modo lo riprende e chiude così l'anello del domandare. Con la risposta di N. alla domanda-guida, tuttavia, non vengono ripetute le posizioni dell'inizio nella sua forma di allora, ma vengono in luce in forma mutata.
Le posizioni di fondo decisive dell'inizio erano quelle di Parmenide e di Eraclito. La prima risposta dice che l'ente è; e con tale risposta viene fissato per l'avvenire che "è" ed "essere" significano stabilità e presenza, eterno presente. L'altra risposta dice che l'ente diviene; l'ente è essente nel divenire costante, nello svilupparsi e nel corrispettivo corrompersi.
Il pensiero di N. è la fusione di queste due determinazioni fondamentali dell'ente. Egli dice che l'ente è qualcosa che è diventato fisso, e che è nel creare e nel distruggere costanti. L'ente e il diveniente sono fusi insieme in quanto il diveniente, nel creare, diviene essendo e divenendo è.
Questa posizione metafisica è espressa da N. in una annotazione intitolata "Ricapitolazione" (La volontà di potenza, n. 617). Tale annotazione comincia con l'affermazione seguente: "Imprimere al divenire il carattere dell'essere - è questa la suprema volontà di potenza". E subito dopo: "Che tutto ritorni, è l'estremo avvicinamento di un mondo del divenire a quello dell'essere: culmine della contemplazione". Ciò significa: la trasformazione del diveniente in ente - la volontà di potenza nella sua forma suprema - è, nella sua essenza più profonda, istantaneità dell'attimo della decisione che crea, cioè eterno ritorno dell'uguale.
N., per caratterizzare ciò che noi chiamiamo la sua posizione metafisica di fondo, ha scelto la seguente locuzione: amor fati. Essa va compresa sulla base del suo pensiero più profondo: amor, è da intendere come la volontà che trasfigura;fatum, come quella svolta della necessità che si svela nell'attimo. L'amor fati è quindi la volontà trasfiguratrice di appartenere a ciò che dell'ente è massimamente ente.
Ora, il pensiero di N. ha dunque fuso insieme le determinazioni fondamentali dell'inizio della filosofia occidentale; nondimeno, egli non è pervenuto alle posizioni dell'inizio, ma a quelle posizioni già elaborate alla luce della filosofia platonica. Lo stesso N. designa la sua filosofia come un platonismo rovesciato; platonismo che viene non eliminato ma consolidato dal rovesciamento. Il circolo, dunque, che con la sua filosofia si chiude, irrigidito su un inizio già messo a tacere, non dà più via libera a nessuna possibilità di domandare in modo essenziale la domanda-guida. Quella di N. è dunque la fine della filosofia occidentale.
Poichè tuttavia la posizione metafisica di N. rappresenta la fine della metafisica, vi sia attua per questo il massimo e più profondo raccoglimento, cioè il compimento di tutte le posizioni di fondo essenziali della filosofia occidentale da Platone in poi. Un nuovo inizio sarà possibile solo riandando all'originarietà del primo inizio. La tradizionale domanda-guida "che cosa è l'ente?", deve essere dispiegata venendo fuori da essa e andando oltre essa stessa in un domandare più originario.


III. La volontà di potenza come conoscenza

Nietzsche come pensatore del compimento della metafisica
N. è stato un "destino", non però della sorte di un singolo, bensì della storia dell'epoca moderna quale epoca finale dell'occidente. Noi prescindiamo dall' "uomo" e dagli aspetti psicologici e storiografici; ci interessa la traccia che il pensiero di N. ha segnato nella storia dell'essere, ossia nelle regioni non ancora toccate da future decisioni.
N. è un pensatore essenziale; sono pensatori quegli eletti destinati a pensare un unico pensiero, e sempre sull'ente nel suo insieme. I pensatori sono fondatori di ciò che non si rende mai visibile per immagini, nè può essere calcolato tecnicamente, ma intorno a cui tutto l'ente ruota. Ora però sono pensatori essenziali quelli il cui unico pensiero mira a un'unica e suprema decisione. Tale decisione, che diventa il fondamento di tutta la storia, e decide sull'uomo senza essere opera dell'uomo, è quella tra il predominio dell'ente e il dominio dell'essere.
N. mira risolutamente a tale decisione e ne prepara l' avvento. Come tutti i pensatori occidentali prima di lui, afferma il predominio dell'ente rispetto all'essere, senza sapere ciò che è insito in questa affermazione. Finora la posizione occidentale nei confronti di questa decisione si è sviluppata in un pensiero che si può designare come "metafisica". La metafisica pensa l'essere muovendo dall'ente e andando all'ente quale suo fondamento e causa. L'ente, nel pensiero occidentale, dai Greci fino a N., ha, dunque, la preminenza sull'essere in quanto misura, fine e realizzazione di esso. Ma N., con il suo unico pensiero, la volontà di potenza, attua in modo definitivo l'affermazione di questo predominio, e pensa già al compimento dell'epoca moderna.
N. è la transizione dal periodo preparatorio dell'età moderna - l'età tra il 1600 e il 1900 - all'inizio del suo compimento. Compimento significa qui spiegamento illimitato di tutte le potenze essenziali dell'ente; compimento metafisico di un'epoca non è esaurimento di qualcosa già noto, ma predisposizione incondizionata e completa di ciò che è inatteso nè mai è da attendere. Il pensiero nietzscheano della volontà di potenza pensa l'ente nel suo insieme, sicchè il fondamento metafisico della storia dell'epoca presente e futura diventa visibile e al tempo stesso determinante. N. è l'ultimo metafisico dell'Occidente. Percorrere il corso del suo pensiero fino alla volontà di potenza significa finire sotto la decisione storica che decide se questa epoca finale è la conclusione della storia occidentale oppure il controcanto per un nuovo inizio.

La cosiddetta "opera capitale" di Nietzsche
Dicendo che il pensiero della volontà di potenza è l'unico pensiero di N., si intende affermare al tempo stesso che il pensiero dell'eterno ritorno è necessariamente incluso in esso, ne è il compimento intimo. Entrambi i pensieri dicono la stessa cosa e pensano lo stesso carattere fondamentale dell'ente nel suo insieme.
Dal tempo in cui il pensiero della volontà di potenza gli si fece chiaro, N. lottò per arrivare ad una configurazione speculativa di esso, che, nei suoi intenti, aveva i tratti di quella che egli stesso, con la tradizione, chiama l'"opera capitale". Tale opera tuttavia non fu mai portata a termine.
La letteratura corrente spiega questa mancanza ricorrendo ad una molteplicità di ragioni: la copiosità del materiale, l'estensione dei singoli ambiti nei quali si sarebbe dovuto provare che la volontà di potenza è il carattere fondamentale dell'ente, una diminuita capacità lavorativa, eccetera.
E' tuttavia sbagliato pensare che l'"opera capitale" debba avere le caratteristiche delle tradizionali opere filosofiche; ciò va contro l'essenza stessa del pensiero della volontà di potenza. N. sapeva perfettamente che la forma doveva essere completamente diversa, come dimostrano i molti tentativi compiuti. Soltanto presupponendo arbitrariamente un modello tradizionale di opera, si possono definire gli inediti di N. "frammenti" o "lavori preliminari". Occorre invece pensare adeguatamente ciò che in essi è pensato senza deformarli secondo le nostre abitudini.
Oggi è disponibile al pubblico un libro intitolato: La volontà di potenza, che non è un libro di N., sebbene contenga sue annotazioni scritte dal 1882 al 1888, secondo un piano dello stesso N.. Esso è un sufficiente supporto per tentare di seguire il corso del suo pensiero; bisogna però liberarsi dell'ordinamento presentato, in cui si mescolano brani di periodi diversi. Distinguiamo in modo netto tra il libro, fabbricato a posteriori, e il corso del pensiero che porta alla volontà di potenza, di cui tentiamo di ripensare la struttura interna. Ci atteniamo per ora a quei brani che risalgono al 1887/88, in cui N. raggiunse la massima lucidità di pensiero; e tra questi scegliamo quelli nei quali l'insieme di questo pensiero è felicemente riuscito ed espresso in una compattezza che gli è propria.

La volontà di potenza come principio di una nuova posizione di valori
Secondo l'articolazione menzionata, il terzo libro, al quale ci atterremo, è intitolato "Principio di una nuova posizione di valori". Questo titolo ci fornisce già un importante chiarimento su ciò che è la volontà di potenza: "il principio di una nuova posizione di valori". Valore significa per N. condizione della vita (laddove "vita", il più delle volte, non indica solo l'essere dell'uomo, ma l'ente nel suo insieme). N. non vede l'essenza della vita, darwinianamente, nell'autoconservazione, ma nel potenziamento oltre se stessa, nelle possibilità che essa getta innanzi a sè. Il valore deve essere pensato come ciò che promuove tale potenziamento.
Nel potenziamento è insito una visione che prevede e che penetra (vorblickendes Durchblicken), una "prospettiva". La vita che potenzia se stessa ha dunque un carattere prospettico, che, corrispondentemente, è proprio anche del valore (in quanto l'essenza del condizionante - il valore - è determinata dall'essenza di ciò che deve condizionare - la vita).
"Posizione di valori" significa allora determinare quelle condizioni prospettiche che potenziano la vita. E "nuova posizione" sta a indicare che si sta preparando il rovesciamento di una posizione di valori molto vecchia, ossia quella platonico-cristiana. La vecchia posizione di valori fornisce alla vita la prospettiva su qualcosa di sovrasensibile; la nuova deve porre altre condizioni prospettiche, corrispondentemente ad una nuova determinazione dell'essenza della vita. Pertanto, il principio di una nuova posizione di valori è ciò che determina nel suo fondamento essenziale la vita, di cui i valori sono le condizioni prospettiche. Se però il principio è la volontà di potenza, ciò significa allora che la vita è essa stessa, nel suo fondamento essenziale, volontà di potenza.
Con questo detto: la vita è volontà di potenza, si compie la metafisica occidentale, all'inizio della quale stanno le oscure parole: l'ente nel suo insieme è fùsis. Il che dimostra la fedeltà di N. - questo pensatore essenziale, questo "destino" -, alla storia più occulta dell' Occidente.
Se il pensiero della volontà di potenza è il pensiero supremo della metafisica nietzscheana e quindi occidentale, arriveremo a pensare questo pensiero se lo "incontreremo" in ogni regione dell'ente: nella natura, nell'arte, nella storia, nella conoscenza. La domanda sull'essenza della conoscenza in generale e della scienza in particolare deve avere ora la priorità, poichè il sapere, nella storia dell' Occidente, è giunto ad avere un potere fondamentale. Si veda la scienza, il cui potere è stato acquisito attraverso un processo storico il cui fondamento metafisico sta nel fatto che la conoscenza e il sapere vengono concepiti come tècne. Domandare dell' essenza del conoscere significa pertanto arrivare alla consapevolezza di ciò che propriamente accade nella storia che noi siamo. Per fare questo, pensiamo a fondo, domandando, il pensiero fondamentale di N..

La conoscenza nel pensiero fondamentale di Nietzsche sull'essenza della verità
La domanda metafisica sull'essenza della conoscenza è propria dell'uomo occidentale, il quale non può non porsi il problema della sua posizione rispetto all'ente. La conoscenza è ritenuta nella storia dell'Occidente quell'atteggiamento del rap-presentare (Vor-stellen) mediante il quale il vero viene colto e serbato come possesso. La domanda che chiede del vero è una domanda che chiede dell'ente; cogliere il vero significa mantenere l'ente - nel rap-presentare - così come esso è. In epoca moderna, tale domanda diviene oggetto di indagine scientifica, una questione di "teorie della conoscenza". Poichè l'uomo in quanto ente entra in rapporto all'ente nel suo insieme attraverso il comportamento, in termini espliciti o inespliciti l'uomo si attiene sempre al vero. La verità è ciò a cui egli aspira e che esige in ogni ambito. Pertanto, l'essenza metafisica dell'uomo si potrebbe cogliere nella tesi: l'uomo è il veneratore ma quindi anche il rinnegatore della verità.
In Nietzsche, la questione della conoscenza, benchè sia influenzata dalla contemporaneità, entra in una connessione storica con l'inizio del pensiero occidentale e dovrà essere determinata a partire dal suo pensiero fondamentale, ossia dalla volontà di potenza.
In una annotazione del 1884, egli osserva "che la venerazione della verità è già la conseguenza di un'illusione". (La volontà di potenza, n. 602).
In quanto l'essenza della verità è illusione, la verità non può essere il valore supremo, ma "derealizzazione", impedimento della vita che vuole il potenziamento e la "realizzazione" sempre più alta. Invece l'arte, che assicurare prospetticamente la vita nelle possibilità del suo potenziamento, vale più della verità.
Certo, la tesi dell' illusorietà della verità suona strana e terribile, e si presta a facili confutazioni da parte dell'intelletto comune, del tipo: se ogni verità è illusione, allora la stessa tesi dell'illusorietà della verità risulta illusoria. Ma una tesi essenziale come questa non può essere confutata in modo capzioso ed esige di essere scandagliata più a fondo. Ciò avverrà mostrando che questa tesi è connessa con l'interpretazione metafisica dell'ente, ed è antica quanto la metafisica stessa.
Un detto di Eraclito, nella sua prima parte, afferma: "Avere vedute (dokéonta) è infatti/ soltanto anche/ il conoscere di colui che è più famoso, il custodire/ tenere salda una veduta".
Laddove il termine greco dokéonta (avere vedute, ciò che si mostra) non va interpretato soggettivamente, secondo il senso gnoseologico moderno che distingue tra apparenza e realtà vera. Ciò che si mostra e si offre alla vista non è "apparenza", ma è ciò che ha valore di ente. Il detto di Eraclito significa che il più considerato, il più degno di fama è tale proprio perchè ha la forza di scorgere ciò che è, ossia ciò che viene alla luce attraverso l'immagine, e che viene fissato come vero attraverso il conoscere.
Pur nella loro distanza, l'uno è all'inizio, l'altro alla fine della metafisica occidentale, le due concezioni di Eraclito e di Nietzsche manifestano dunque una coappartenenza storica.

L'essenza della verità (correttezza) come "giudizio di valore"
Nel brano 493 della Volontà di potenza, Nietzsche definisce così la verità:
"La verità è la specie di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere".
Viene dunque ribadita la concezione della verità come illusione, errore. Per comprenderla più a fondo intensifichiamo la lettura dei brani dell'ultimo periodo (1887/88), raccolti nella prima sezione del terzo libro. Scegliamo come punto di partenza il n. 507, che ci permette di balzare, per così dire, nel centro dell'interpretazione nietzscheana della conoscenza come volontà di potenza.
Il brano incomincia: "Il giudizio di valore "io credo che questo e quest'altro sia così" come essenza della "verità" ".
La concezione della verità che da Platone e Aristotele in poi domina il pensiero e la storia dell'uomo occidentale, fino nelle azioni quotidiane e nelle opinioni abituali, consiste nella correttezza del rappresentare, dove il rappresentare significa adeguazione all'ente; verità è dunque adeguazione del rappresentare a che cosa l'ente è e a come è. Questo vale per tutti i pensatori dell' Occidente, nonostante le apparenti diversità, e anche Nietzsche è in sintonia con questa tradizione. Quindi la definizione della verità come illusione ed errore ha, quale presupposto non esplicitato, quella connotazione della verità come correttezza del rappresentare. Solo che in Nietzsche questo concetto si è trasformato in modo peculiare.
Nel brano citato egli afferma che la verità è un "giudizio di valore", ossia: condizione prospettica del potenziamento della vita. Tale giudizio di valore ha il carattere di una "credenza", di un ritenere per vero. Con la connotazione della verità come giudizio di valore la tradizionale concezione della verità come correttezza viene dunque deviata in una direzione completamente diversa. Lo vediamo dalla prosecuzione del brano citato:
"Nei giudizi di valore si esprimono condizioni di conservazione e di crescita. Tutti i nostri sensi e organi di conoscenza sono sviluppati solo in vista di condizioni di conservazione e di crescita".
Pertanto, la verità e il coglimento della verità stanno al servizio della vita, i sensi e gli organi stessi della conoscenza, vale a dire la loro essenza e il loro esercizio, sono attivati e guidati nella prospettiva della vita.

Il preteso biologismo di Nietzsche
Si è soliti definire la concezione di N. come biologistica. In effetti, questa definizione coglie un aspetto essenziale di una filosofia che interpreta l'ente nel suo insieme come "vita", che mira a un potenziamento consapevole e pianificato dell'esistenza, che vede inoltre nell' "animale da preda" e nella "bestia bionda" la forma più alta di uomo. Nondimeno, essa è anche l'ostacolo principale che impedisce di arrivare ai pensieri fondamentali di N.. Occorre chiarire questo punto.
La biologia, come ogni scienza, presuppone una definizione essenziale dei fenomeni che costituiscono il suo ambito, poggia su tesi che pongono e delimitano la regione dell'ente entro la quale si mantiene e si muove. Queste tesi, che possiamo chiamare regionali, sono metafisiche; esse non possono essere dimostrate, nè pensate con i concetti delle rispettive scienze. Ogni scienza è fondata storicamente sul rispettivo dominio di una determinata interpretazione dell'essere. Per lo più, tale fondamento metafisico non viene riconosciuto, a volte è addirittura respinto come fantasticheria filosofica.
L'errore del biologismo non sta solo nell'estensione di concetti oltre l'ambito della biologia, ma nel misconoscimento del carattere metafisico delle tesi regionali che fondano lo stesso pensiero biologico.
Ora, non si può definire biologistico il pensiero di N., poichè, sebbene parli in termini biologici, pensando l'ente nel suo insieme come "vita", fonda questa immagine del mondo in termini metafisici. La fondazione metafisica del primato della vita trova la sua ragione nel fatto che egli porta a compimento l'essenza della metafisica occidentale, esprime ciò che era mantenuto ancora non detto nell'essenza iniziale dell'essere come physis.

La metafisica occidentale come "logica"
La conoscenza è un rapportarsi del pensiero all'ente. Il detto di Parmenide: "Lo stesso è però percezione e anche essere", esprime appunto questa coappartenenza di essere e di percezione: senza percezione l'ente non è presente, ma anche la percezione non può verificarsi là dove non c'è ente.
La metafisica occidentale determina l'ente come ciò che può essere colto nel pensiero, attraverso le "categorie", che sono i modi (qualità, quantità, relazione) della genesi dell'ente. Questo pensare e dire le "genesi dell'ente", percorrendo le loro relazioni, da Platone in poi si chiama "dialettica".
Non solo il pensiero metafisico, ma anche quello quotidiano, riposa sulla "fiducia" nella ragione e sul suo primato, ossia sul fatto che nel pensiero della ragione e nelle sue categorie si mostri l'ente in quanto tale. In altri termini, che nella ragione vengano colti e assicurati il vero e la verità. In questo senso la metafisica è anche "logica".
La posizione di N. nei confronti di questa essenza della metafisica può essere chiarita dall'affermazione contenuta nel già citato brano n. 507 della Volontà di potenza:
"La fiducia nella ragione e nelle sue categorie, nella dialettica, quindi il valore che si dà alla logica, dimostrano soltanto la loro utilità, provata dall'esperienza, per la vita: non la loro "verità" ".
Questo passo contiene sia l'indicazione della fiducia nella ragione come carattere fondamentale della storia occidentale, sia una interpretazione del carattere di verità della ragione e della logica. N. afferma che tale fiducia non dimostra la "verità" della conoscenza nel senso che essa riproduca adeguatamente, come una copia, il reale, ma testimonia soltanto che il tenere-per-vero fa parte dell'essenza della vita.

La verità e il vero
Ciò tuttavia non significa che N. si liberi della tradizionale concezione della verità come correttezza. Nella correttezza è insita l'adeguatezza della rappresentazione dell'ente, ma tale adeguatezza - che esprime l'essenza della verità - non consiste nelle immagini-copia delle cose esterne. Il contenuto essenziale del concetto metafisico di verità dice invece che: 1) la verità è un carattere della ragione; 2) il tratto fondamentale di questo carattere sta nel rappresentare l'ente in quanto tale.
La meditazione di N. sull'essenza della verità ruota intorno a questi concetti. Gli ultimi capoversi del brano n. 507 forniscono una risposta:
"Che ci debba essere un bel po' di credenza; che si possa giudicare; che manchi il dubbio riguardo a tutti i valori essenziali: - è questo il presupposto di ogni vivente e della sua vita".
Qui si dice che la verità è la struttura fondamentale per la vita; essa non si determina a posteriori per un utile pratico, ma deve già esserci perchè sia possibile in generale la vita. Sennonchè, nella frase seguente, N. afferma:
"Quindi è necessario che qualcosa debba essere tenuto per vero, - non che qualcosa sia vero".
Ci troviamo di fronte ad una affermazione apparentemente contraddittoria: da una parte si postula che è necessario per il vivente che ci sia verità; dall'altra, che non importa che qualcosa sia vero. Occorre trovare il fondamento di tale affermazione per raggiungere una posizione nel cui orizzonte la si possa capire in modo unitario.

L'antitesi di "mondo vero" e "mondo apparente". La riconduzione a rapporti di valore
Il fondamento è nominato nella parte finale del brano n. 507, là dove si dice che l'essenza della verità è un "giudizio di valore":
""Il mondo vero e il mondo apparente" - questa antitesi vieneda me ricondotta a rapporti di valore".
Tale antitesi - cui Platone ha dato un'impronta "classica" - è antica quanto il pensiero occidentale ed è la struttura portante della metafisica.
Anche per N. il "mondo vero" è il vero ente e il "mondo apparente" il non vero; ma egli vuole determinare tale distinzione secondo la sua provenienza. Ora, ciò che fa dell'ente un ente vero è la stabilità, la presenza stabile; ciò che muta è ritenuto invece il non ente. Secondo N. la posizione di ciò che è stabile e fisso e la corrispondente posizione di ciò che è instabile, è una determinata valutazione che viene guidata dalla concezione di ciò che ha valore, ossia di ciò che è condizione della vita. La posizione di valori è infatti il processo fondamentale della vita stessa, è il modo in cui essa attua pienamente la sua essenza.
In altri termini, è chiamato "ente" ed è interpretato con il carattere della stabilità, solo ciò che conserva la vita nella sua sussistenza. "Noi abbiamo proiettato le nostre condizioni di conservazione come predicati dell'essere in generale". Così precisa N. nel medesimo brano.

Mondo e vita come "divenire"
Se tuttavia il mondo avesse un carattere transeunte e instabile, allora la verità - intesa come ciò che è stabile e fisso - sarebbe una fissazione di ciò che è diveniente, e quindi sarebbe ad esso inadeguata. Il vero - inteso nel senso del corretto - non si regolerebbe sul divenire. La verità sarebbe dunque non-correttezza, errore, "illusione" necessaria.
Il detto di N. secondo cui la verità è appunto una illusione, implica, però, contemporaneamente, l'essenza della verità come correttezza, ossia adeguazione a ciò che "è"; solo se il mondo "è" un mondo diveniente, la verità nel senso di ciò che è stabile può essere definita una illusione.
Ma l'interpretazione del mondo come divenire è altresì una posizione di valori, deriva cioè dalla vita. Scrive N. nel brano n. 577 della Volontà di potenza:
"Contro il valore di ciò che rimane eternamente uguale (vedi l'ingenuità di Spinoza come pure di Descartes) c'è il valore di ciò che è più breve e transeunte, il seducente scintillio dorato sul ventre del serpente vita".
Qui N. pone un valore contro l'altro, espressioni di diverse vedute dell'essenza della vita: la vita che si consolida e si fissa, e la vita come "serpente", che continuamente si arrotola, eternamente diveniente. La verità come tenere-per-vero e fissarsi su un "così è" non può essere il valore supremo, perchè rinnega il carattere diveniente della vita, nondimeno è un valore necessario. Ma se il vero significa lo stesso che l'ente, ed il vero non è il valore supremo, allora nemmeno l'ente può costituire l'essenza del mondo.
Per approfondire queste questioni, domandiamo ora come si determina in N. il conoscere, dato che in lui, come in tutti i pensatori moderni, l'essenza della verità si determina partendo dall'essenza della conoscenza.

Il conoscere come schematizzazione di un caos secondo il bisogno pratico
Conoscere non è per l'uomo qualcosa di occasionale o di legato a una teoria della conoscenza, bensì è un comportamento in cui l'uomo sta da sempre, in cui egli si rapporta all'ente e a se stesso. Conoscere il conoscere nella sua essenza significa riandare al fondamento essenziale già aperto, ma non ancora esplicato; tale meditazione sul sapere fa parte della storia dell'uomo occidentale.
Per quanto riguarda N., l'affermazione decisiva sulla sua concezione della conoscenza, è contenuta all'inizio del brano n. 515 della Volontà di potenza:
"Non "conoscere" ma schematizzare, - imporre al caos tutta la regolarità e tutte le forme sufficienti al nostro bisogno pratico".
Conoscere dunque non nel senso di riprodurre un'immagine-copia della realtà, ma "schematizzare"; con questo termine - che richiama l'essenza del pensiero secondo le categorie e i loro schemi, e rinvia quindi al medesimo contesto teorico di Platone e di Aristotele - N. intende l'imposizione al "caos" di forme regolatrici, determinata dal nostro "bisogno pratico". Con ciò sono dati gli elementi essenziali della concezione della conoscenza in N.; essa, nonostante sia in contrasto con la nostra rappresentazione abituale, che riferisce il conoscere ad un mondo ben ordinato e non ad un "caos", si collega alla grande tradizione del pensiero metafisico. Ad essa si perviene "risalendo" oltre il comportamento conoscitivo, fino a quell'atto originario da cui scaturisce il conoscere stesso. Questo conoscere il conoscere, in base alla sua provenienza e alle sue "condizioni", è il passo ricco di conseguenze, compiuto dai primi pensatori greci, mediante il quale si decide l'essere dell'ente. Si tratta ora di vedere in quale misura N. - riallacciandosi alla tradizione - porti fino in fondo le estreme conseguenze di queste decisioni.

Il concetto di "caos"
N. non intende questo termine nel senso greco originario - che indica un'apertura che si spalanca senza sostegno e senza fondo - ma piuttosto in quello moderno di movimento disordinato e confuso; al tempo stesso, "caos" ha in N. un'accezione più ampia e un significato più proprio, che scaturisce dalla sua posizione di fondo.
Nell'ambito del processo conoscitivo, ci imbattiamo nel concetto di caos "risalendo" dietro a ciò che ci appare ordinato e fisso come oggetto; ci si presenta allora quella che Kant chiamava la "ressa della sensazioni", ossia lo scompiglio dei dati cosiddetti esterni e delle sensazioni del "senso interno". E in questo ambito ci imbattiamo nella nostra corporeità, attraverso la quale fluisce la vita di cui avvertiamo il flusso sfuggente.
N. indica con il caos la vita che è corpo, che incalza e fluisce, e il cui ordine è celato. Ciò che è conosciuto ed è conoscibile è dunque caos, che ci si presenta in stati corporali. Inteso in questo modo, il concetto indica un peculiare progetto preventivo del mondo, in cui l'ente nel suo insieme è visto in relazione al corpo e al suo vivere come corpo.
Ancora una volta, va ribadito che non si tratta tanto di caratterizzare come biologismo questo pensiero, ma di coglierne il fondamento metafisico. In questa fondazione del progetto del mondo, è incluso tutto ciò che è decisivo, quindi anche la posizione del valore supremo, che è, non già la filosofia, ma l'arte, in quanto trasfigura la vita e la eleva a possibilità più alte. Essa si avvicina al reale, al diveniente, più del vero, di ciò che è fissato e immobilizzato, osa e conquista il caos, la straripante e indomita sovrabbondanza della vita.

Il bisogno pratico come bisogno di schemi. Formazione di orizzonte e prospettiva
Anche il concetto di "bisogno pratico" - che si trova in una connessione essenziale con la vitalità della vita - necessita di un chiarimento.
Se il vivente fosse trascinato nel flusso perenne e dissolto in esso, allora la vita sarebbe annientamento: è quindi insito in essa che il vivente resista al flusso e spinga a qualcosa di stabile. Il bisogno pratico, o prassi, è appunto l'atto del vivente che si oppone all'impeto della vita e al travolgimento del caos mediante schemi che lo stabilizzano: il bisogno pratico è dunque un bisogno di schemi. Esso consiste nel delimitare un orizzonte, all'interno del quale l'atto del vivere può dispiegarsi.
Tale orizzonte non si limita a fissare il caos in determinati riguardi, ma lo fa anche apparire, in quanto caos, attraverso la sua trasparente stabilità. In quanto hanno il loro fondamento essenziale nell'atto del vivere, prassi e caos si coappartengono. La prassi è la stessa attività della ragione che dispiega i suoi concetti e le sue categorie in funzione dell'assicurazione della sussistenza.
Il conoscere, tradizionalmente, è un porre-dinanzi (Vor-stellen). Ora, anche nel concetto nietzscheano della conoscenza, viene mantenuto questo significato, ma l'accento si sposta nel senso di porre-stabilmente, cioè del fissare in una forma. Per N., conoscere non è "riconoscere" nel senso di riprodurre delle immagini, ma piuttosto un assegnare un posto nello stabile (Zustellen), ossia un sussumere, uno schematizzare.

Intesa e calcolo
L'assicurazione della sussistenza dell'essere vivente riguarda un duplice aspetto: il rapporto dell'uomo con l'uomo, e il rapporto dell'uomo con le cose. (Tale rapporto rimane su di un piano superficiale se non se ne considera il fondamento, che è, secondo la tesi di Essere e Tempo, la comprensione dell'essere). I termini "intesa" e "calcolo" si riferiscono, rispettivamente, al rapporto con l'uomo e con la cosa.
L'intesa, in senso essenziale, si riferisce al convenire sugli stessi principi, su qualcosa di identico e di stabile, che diviene così anche il fondamento dello stesso divergere delle opinioni. L'intesa, lungi dall'essere una sorta di cedimento o di debolezza, richiede invece la lotta suprema e più difficile, perchè implica l'edificazione dei fini essenziali, e fissa la stessa identità (Selbstheit) ed identicità (Selbigkeit) umana. L'accordo reciproco, inoltre, non si riferisce solo agli uomoni, ma anche alle cose alle quali essi si rapportano. Di qui il "calcolo", che fissa e stabilizza le cose che l'uomo può prendere in questo o in quell'uso.
Siamo ora in grado di leggere il secondo capoverso del brano n. 515, che recita: "Nella formazione della ragione, della logica, delle categorie è stato determinante il bisogno: il bisogno non di "conoscere" ma di sussumere, di schematizzare, al fine dell'intesa, del calcolo".
Questa frase descrive ciò in cui N. vede l'essenza della ragione e del conoscere: la prassi, in quanto atto del vivere, come assegnazione di schemi che attengono al comportamento dell'uomo con l'uomo e con le cose. Schemi che vengono escogitati e premessi al caos in modo tale che esso appare sempre e unicamente nel loro orizzonte.

L'essenza inventiva della ragione
Nel prosieguo della annotazione n. 515, N. inserisce la seguente osservazione:
"(L'adattare, l'escogitare il simile, l'uguale, - lo stesso processo che ogni impressione sensoriale percorre, è lo sviluppo della ragione!)"
Questo passo, lungi dall'essere incidentale perchè messo tra parentesi, fa emergere una concezione essenziale della ragione, concepita come adattare, escogitare (Ausdichten) l'uguale al fine di stabilizzare e quindi di assicurare la sussistenza. Per pensare e determinare una cosa nel suo apparire, la ragione (il cui "sviluppo" non va inteso in senso biologico ma metafisico, nel senso di spiegamento dell'essenza) pone anticipatamente la sua identicità. Quest'ultima, pertanto, non è qualcosa che viene constatata a posteriori in seguito a ripetute osservazioni, ma che preesiste ad esse, che è stata "inventata". Il carattere di cosa, nella sua siffatta "cosità" - determinata dalla qualità, la relazione, la causa, ossia dalle cosiddette categorie - è di origine inventata, quindi più elevata rispetto al nostro fare immediato.
Tale carattere inventivo della ragione non è una scoperta di N., ma è stato visto e pensato a fondo per la prima volta da Kant nella sua dottrina della immaginazione produttiva e poi ripreso dall'idealismo tedesco. Ma lo stesso Platone, quando nel Fedro narra della caduta dell'idea dall'iperuranio nell'anima dell'uomo, esprime, con questo mito, l'interpretazione greca del medesimo concetto, cioè dell'essenza inventiva della ragione, della sua origine più elevata.
Nel passo citato, N. afferma anche che ogni impressione sensoriale percorre il processo di escogitazione che mira all'uguale; questo significa che non solo le categorie della ragione sono orizzonti dell'escogitazione, ma già le stesse impressioni sensibili, che costituiscono la "ressa" delle sensazioni, sono una molteplicità escogitata. Fra le categorie, la categoria della finalità è, secondo N., quella fondamentale. Lo si evince dal medesimo passo, dove si dice che
"La finalità nella ragione è un effetto, non una causa".
Ciò che egli vuole sottolineare con questa frase, è che tale categoria scaturisce dall'essenza inventiva della ragione, per questo è prima di tutto un effetto e non una causa, diversamente da quanto pensa la tradizione metafisica. Tuttavia ha un carattere di orizzonte tale da dare indicazioni per la produzione di altre cose, quindi è anche causa. Il ruolo privilegiato che N. assegna alla finalità deriva dall'identificazione dell'essenza della ragione con l'atto del vivere che mira alla stabilità. Se infatti la ragione evadesse nel senza scopo rinunciando ad escogitare l'uguale, sarebbe sopraffatta dall'impeto del caos.
L'interpretazione "biologica" del conoscere in Nietzsche
Non si può a questo punto non rilevare il carattere biologico di questa concezione, che identifica le categorie e l'articolazione logica del pensiero nelle condizioni della vita. Nell'ultimo capoverso del brano n. 515, N. esprime tale carattere in termini inequivocabili:
"La costrizione soggettiva a non poter qui contraddire è una costrizione biologica".
Qui N. fa riferimento al principio di non contraddizione, ossia alla legge fondamentale della ragione, interpretato come una costrizione "biologica" per padroneggiare il caos imponendo ad esso la forma dell'unitario e dell' incontraddittorio.
Ma tuttavia, mentre da un lato questa interpretazione pare comprovare il biologismo di N., dall'altro, eleva il suo pensiero alle altezze del pensiero metafisico e della domanda guida che lo muove. Il principio d non contraddizione, infatti, è il supremo principio del pensiero, enunciato e discusso a fondo per la prima volta da Aristotele.
Aristotele, nel quarto libro della Metafisica, ne ha dato la seguente definizione: "Che infatti lo stesso contemporaneamente sia presente e non sia presente, questo è impossibile (adynatov) nella stessa cosa e riguardo alla stessa cosa".
In questo principio viene enunciata una impossibilità: il contemporaneo essere e non essere presente. Ma la presenza, secondo i pensatori greci, è l'essenza dell'essere. Dunque si tratta di una impossibilità propria dell'essere.
Anche N. vede l'elemento decisivo del principio di non contraddizione in un adynatov, ma lo intende nel senso di una "incapacità":
"Noi non riusciamo ad affermare e a negare la stessa e identica cosa: è questo un principio di esperienza soggettivo, in esso non si esprime una "necessità", ma solo una incapacità". (Primo capoverso del brano n. 516).
N. non intende il principio di non contraddizione in termini metafisici, ossia come un principio che stabilisca qualcosa in merito all'essere, ma in termini logici, come una regola del pensiero. Di conseguenza, egli vede una impossibilità soggettiva, non oggettiva (una "necessità"), una incapacità dell'uomo a non poter fissare una cosa e il suo contrario; si potrebbe quasi dire che egli interpreta il principio in termini biologici. Tuttavia, in questa discussione emerge qualcosa che impedisce qualsiasi interpretazione biologica. (Il fatto che la discussione di questo principio ritorni nel compimento della metafisica occidentale è il segno della sua importanza; il compimnto stesso si contraddistingue per come la discussione viene attuata).
N. non è certo l'unico filosofo che interpreta questo principio in senso esclusivamente logico; tale modo di intenderlo si era già diffuso ai tempi di Aristotele. Dobbiamo quindi chiederci che cosa esso propriamente ponga fin dall'inizio e in modo tale che in seguito possa essere un principio-regola per il pensiero.

Il principio di non contraddizione come principio dell'essere (Aristotele)
Per Aristotele, il principio dice qualcosa di decisivo sull'ente in quanto tale, e precisamente che esso ha la sua essenza nella presenza e nella stabilità. Anche i riguardi secondo i quali un ente deve essere rappresentato devono tenerne conto. L'uomo che, mantendosi in una contraddizione, ignora ciò, scioglie il riferimento all'ente e fuoriesce dalla sua essenza.
Aristotele pensava in modo greco: l'essere era scorto direttamente nella sua presenza, non c'era bisogno di interrogarsi sui presupposti del principio di non contraddizione, poichè esso era concepito già come la pre-supposizione (Voraus-ansetzung) dell'essenza dell'ente.
N., benchè si sia avvicinato come nessun altro al modo di pensare della grecità, pensa in modo moderno; ciò lo porta a misconoscere il fondamento storico dell'interpretazione del principio di non contraddizione. Per questo il confronto con il primo inizio del pensiero occidentale diviene un mero rovesciamento del pensiero greco e non arriva ad una posizione chefuoriesca da quella iniziale.

Il principio di non contraddizione come comando (Nietzsche)
N., intendendo questo principio in termini logici, non chiede che cosa venga detto sull'ente, ma se sia possibile una posizione tale che stabilisca che cosa è l'ente nella sua essenza, il modo in cui questo principio è un tenere-per-vero. Si legga il capoverso decisivo del brano n. 516:
"In breve, la questione rimane aperta: gli assiomi logici sono adeguati al reale o sono criteri e mezzi per creare il reale, il concetto di "realtà" per noi?... Per poter affermare la prima cosa, occorerebbe però, come si è detto, conoscere già l'ente; il che assolutamente non è. Il principio non contiene quindi un criterio di verità, ma un imperativo circa ciò che deve valere come vero".
Il principio, per N., non è una commisurazione ad una realtà in qualche modo coglibile, ma soltanto dà l'indicazione di che cosa debba valere come essente: esprime un dover essere, un imperativo. D'altra parte, questa interpretazione di N. è in consonanza con la sua concezione della verità come tenere-per-vero, anzi, ci conduce nella sua essenza più intima. Il tenere-per-vero ha infatti bisogno di un parametro; la discussione sul principio di non contraddizione ci dice ora che tale parametro è un imperativo, un comando. Ora, se l'essenza della conoscenza ha il carattere del comando, e la conoscenza, in quanto assicurazione della sussistenza è una disposizione necessaria della vita, allora la vita in sè ha il tratto essenziale del comandare.
L'assicurazione della sussistenza, quindi, si attua in una decisione in merito a cosa debba valere come essente; tale decisione è l'atto fondamentale che traspone l'essere vivente "uomo" nella traiettoria di una prospettiva sull'ente e ve lo mantiene.
Da quanto detto finora si possono mettere in rilievo quattro punti che ci avvicinano all' essenza della conoscenza e della verità in N.:
1) E' ora più chiaro in che senso la conoscenza è per N. necessaria alla vita. Essa non è imposta al vivente dal di fuori, come un utile o un successo, ma è una necessità interna al conoscere stesso, che consiste appunto in un comando;
2) Come si concilia il carattere di comando insito nel conoscere con il carattere inventivo della conoscenza? In realtà, l'autentico comandare scaturisce da una libertà, è una forma fondamentale dell' essere libero; e la libertà in sè èinventare: ossia fondare senza fondamenti un fondamento;
3) Quando N. parla, a proposito del principio di non contraddizione (brano n. 516), di un "non poter contraddire" come una "incapacità" e non come una "verità", usa il termine "incapacità" in modo equivoco, in quanto suggerisce l'idea di un non-potere nel senso di un venir meno di un comportamento, mentre è inteso un non-potere-non, un necessario comportarsi. (Tale equivocità nasce dal voler contrapporre "verità" ad "incapacità", al fine di sottolineare il carattere di comando e di invenzione - e non di riproduzione della realtà - proprio del principio di non contraddizione);
4) La necessità (il non-potere-non del comandare e dell'inventare) scaturisce dalla libertà. Il principio di non contraddizione è un imperativo fondato dalla libertà. A questo punto si chiarisce anche la questione del presunto biologismo di N.: infatti l'essenza di questo principio non è determinata dal piano biologico. Anzi, lo stesso biologico ha per N. il carattere di comando e di invenzione, di prospettiva e di orizzonte; è pensato in direzione della libertà.

La verità e la differenza di "mondo vero" e "mondo apparente"
Per un certo periodo, la posizione metafisica di N. è assicurata mediante la contrapposizione gerarchica di verità e arte, che consiste in un platonismo rovesciato. La verità, in quanto fissa ciò che diviene, si mantiene nel mondo apparente; l'arte, come trasfigurazione del vivente in possibilità più elevate, lascia libero il diveniente di divenire, e si muove così nel mondo "vero". Tale posizione, tuttavia, non è definitiva; l'ultima speculazione di N. sulla verità compie un passo estremo e raggiunge la sua ultima essenza possibile.
Innanzitutto, va rilevato che nella posizione suaccennata vi è una duplice ambiguità, che riguarda sia la verità che l'arte. Il vero, come si è visto, in quanto è ciò che fissa si esclude dall'autentica realtà, dunque è errore ("La verità è la specie di errore senza la quale una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere", scrive N. nel brano n. 493 dellaVolontà di potenza). Ma in questa definizione, la verità è pensata due volte, e in modo diverso: una volta come fissazione, e l'altra come accordo con la realtà. Solo se pensiamo la verità come accordo, infatti, la verità come stabilità può essere definita un errore. N. dunque non rifiuta la tradizionale concezione della verità come accordo e adeguazione; essa rimane piuttosto il metro per valutare il rapporto con l'arte, che proprio sul fondamento di tale accordo è concepita come un valore superiore.
Ma qui, a proposito dell'arte, N. non parla di "verità", ma di "parvenza", poichè anch'essa, avendo forma, è qualcosa di fissato. A questo punto, tutte le "verità" sono soltanto specie e gradi di "errori". Se non c'è verità, non c'è "mondo vero", tutto non diventa quindi "mondo apparente", "parvenza"?
No, perchè se vengono a mancare la misurazione e la stima rispetto a qualcosa di vero, non si può più parlare di parvenza. Con ciò, è compiuto il passo decisivo verso una posizione di fondo estrema. Ma che cosa rimane se con il mondo vero viene abolito anche il mondo apparente? Non pare che tutto si dissolva nel nulla? La proposizione conclusiva dell'annotazione n. 567, afferma: "L'antitesi fra mondo apparente e mondo vero si riduce all'antitesi fra "mondo" e "nulla"".

L'estremo mutamento della verità concepita in termini metafisici
In realtà, verità e parvenza, conoscenza e arte, non possono scomparire con l'abolizione del mondo vero e del mondo apparente, poichè sono valori necessari, che appartengono al patrimonio essenziale della vita. E' invece mutata l'essenza della verità, che si colloca all'estremo del pensiero metafisico. Nel brano n. 749, N. parla di "incantesimo", di "magia dell'estremo":
"L'incantesimo che combatte per noi, l'occhio di Venere che irretisce e acceca i nostri avversari, è la magia dell'estremo, la seduzione che viene esercitata da ogni cosa estrema: noi immoralisti siamo gli estremi..."
Il termine "immoralista" rinvia ad un concetto metafisico: "morale" è ogni metafisica, in quanto fondata sulla distinzione del mondo soprasensibile dal mondo sensibile. Definirsi "immoralista" da parte di N., significa essere al di fuori della distinzione che regge la metafisica, significa andare a quell'estremo dove non possono essere più ricavati da un mondo vero, i fini e i parametri per un mondo non vero e imperfetto. Ma che ne è della verità, dopo l'abolizione di tale distinzione?
Nel Crepuscolo degli idoli, N. dà la seguente risposta:
"6. Il mondo vero lo abbiamo abolito: quale mondo è rimasto? forse quello apparente?... Ma no! con il mondo vero abbiamo abolito anche quello apparente!
(Meriggio; attimo dell'ombra più corta; fine del'errore più lungo; apogeo dell'umanità; INCIPIT ZARATHUSTRA)"
L'indicazione di N. è: incipit Zarathustra. Zarathustra è l'eroe che tramonta, è l'estremo nella storia della metafisica. Di nuovo, domandiamoci come pensa N. nel tramonto - ossia nel compimeto della metafisica - l'essenza della verità.

La verità come giustizia
N. pensa l'essenza della verità nei termini di ciò che egli chiama "giustizia". Tale concezione, già presente agli inizi della filosofia nietzscheana, viene enunciata in termini più decisi nel periodo dello Zarathustra, anche se molto raramente. (I pochi pensieri sulla "giustizia" non furono mai pubblicati). Manca inoltre, da parte di N., il tentativo di collegare il pensiero della giustizia con l'essenza della verità; nondimeno, una tale connessione è possibile, se si pensa a fondo il concetto nietzscheano della verità.
Innanzitutto, pensiamo fino all'estremo l'essenza della verità, seguendo due vie: la prima, prendendo l'avvio dalla definizione di questo concetto in N.; la seconda, riandando alla definizione metafisica inesplicita e più generale, che è ovunque direttrice.

La prima via
N. intende la verità come tenere-per-vero, che ha originariamente il carattere di un comando. Abolita la distinzione metafisica, per non cadere nel puro arbitrio, tale comando deve riferirsi a un qualche parametro, che tuttavia non si identifichi in un "vero" in sè sussistente. Ora, in quanto il tenere-per-vero deve avere una vincolanza e un fondamento,esso tiene salda ancora l'essenza tradizionale della verità.

La seconda via
L'interpretazione della verità come tenere-per-vero concepisce il vero come stabilizzazione del caos, e quindi non corrisponde al suo carattere diveniente; dunque è errore, illusione. Sennonchè, connotare il vero come illusione ed errore, presuppone l'essenza della verità come adeguazione e accordo (omòiosis). Con l'abolizione della distinzione metafisica, tale concezione della verità come omòiosis muta, nel senso che diviene adattamento e insediamento della vita umana nel caos. Questo adattamento non è assimilazione a qualcosa di effettivamente presente, ma è trasfigurazione imperativo-inventiva, prospettico-orizzontica.
A questo punto si pone in modo ancora più netto la domanda da dove prenda la misura e la direttiva l'essere vero come adattamento. Solo l'adattamento stesso può dare la misura, "approntare" il retto (das Rechte) e decidere sulla direttiva (Richte). La verità, quindi, in quanto omòiosis, deve essere "giustizia" (Gerechtigkeit). (Il pensiero nietzscheano della "giustizia" è l'ultima conseguenza del fatto che la alètheia dovette rimanere impensata nella sua essenza. L'idea di "giustizia" è l'accadimento dell'abbandono dell'ente da parte dell'essere entro il pensiero dell'ente stesso).
Per N., dunque, la "giustizia" è l'essenza della verità nel senso del tenere-per-vero, cioè dell'adattamento al caos. Vi sono solo due annotazioni di questo periodo che definiscono tale concetto. La prima è intitolata "Le vie della libertà" ed è del 1884 [VII, II, 125-26 (ediz. critica di Colli e Montinari)]. La "giustizia" viene qui concepita come la via autentica dell'essere libero; di essa si dice quanto segue:
"Giustizia come modo di pensare costruttivo, esclusivo, distruttivo, che muove dai giudizi di valore: sommo rappresentante della vita stessa".
"Giustizia" come il pensare che "muove dai giudizi di valore" significa: quel modo fondamentale del pensiero, di quel pensiero inventivo-imperativo che fissa un orizzonte tale da assicurare la sussistenza (i "giudizi di valore" indicano appunto le condizioni essenziali del vivente).
La giustizia ha la costituzione essenziale del pensiero costruttivo, esclusivo, distruttivo: "costruttivo" (bauend), nel senso che esegue (erstellt) qualcosa che non è presente lì davanti, nè si appoggia a qualcosa di dato, ma e-rige (er-richtet) e apre una prospettiva, pone una direttiva (Richte). In questo vi è l'origine del carattere inventivo e imperativo di ogni conoscere.
Il pensiero costruttivo è al tempo stesso "esclusivo" (ausscheidend), in quanto deve de-cidere (ent-scheiden) ed es-cludere (aus-scheiden); esso è anche "distruttivo" (vernichtend) poichè elimina e libera la strada da fissazioni che impediscono possibilità più elevate.
La giustizia, dunque, è il fondamento essenziale della vita, della verità e della conoscenza. Le tre determinazioni del costruire, dell'escludere e del distruggere, che contrassegnano il modo del pensiero nei cui termini viene concepita la giustizia, dicono al tempo stesso, e soprattutto, del carattere di questo pensiero: esso è un sopraelevarsi, un diventare signore di se stesso in base ad un'altezza più elevata. Ma tale elevazione è l'essenza della potenza. Possiamo così leggere la seconda annotazione:
"Giustizia, in quanto funzione di una potenza che guarda lontano intorno a sè, che vede al di là delle prospettive piccine del bene e del male, che ha dunque un più ampio orizzonte del vantaggio - l'intenzione di conservare qualcosa che è più di questa e quella persona" [VII, II, 171].
Questa potenza "che guarda lontano intorno a sè", è tutt'altro che una forza ciecamente impellente, ma è, essa stessa, un guardare prospettico, che apre e mantiene aperta una grande prospettiva. Nel riferimento al bene e al male, N. intende il superamento della distinzione metafisica del mondo vero e del mondo apparente. La giustizia è un vedere oltre tale distinzione, è avere "un più ampio orizzonte del vantaggio" (Vorteil). Ora, questo termine non va pensato secondo le rappresentazioni quotidiane, ma la parola Vor-teil, secondo il suo significato genuino, vuol dire ciò che è impartito prima di ogni partizione. Quindi questo significa: nella giustizia, in quanto apertura di prospettiva, si allarga l'orizzonte di ciò che già dall'inizio viene impartito a ogni rappresentare e calcolare. Che cosa sia questo orizzonte, N. non lo dice, ma dalle sue parole si evince che il mirare della giustizia è superiore al destino dei singoli esseri umani, e che essa vede entro una più alta determinazione dell'essenza del mondo e dell'uomo occidentale moderno.

L'essenza della volontà di potenza. La stabilizzazione del divenire nella presenza
Da quanto detto finora emerge che la giustizia, che fonda il carattere imperativo e inventivo della conoscenza, pur determinandosi solo in base a se stessa, è la "funzione" della volontà di potenza. Si deve quindi pensare la volontà di potenza partendo dall'essenza della giustizia, e la giustizia riportandola al suo fondamento essenziale.
L'essenza della volontà di potenza è originariamente unitaria, e non può essere pensata correttamente combinando semplicemente i due termini, "volontà" e "potenza", oppure equiparandoli l'uno all'altro. N. rifiuta di determinare l'essenza "separata" dei due termini. Per quanto riguarda la volontà, egli afferma che è una parola solo in apparenza semplice, in realtà è qualcosa di molteplice; la volontà, presa per sè, non esiste. Nondimeno, egli dice anche che essa è comando, sopraelevazione, innalzamento della propria essenza. Ma pensando l'essenza della volontà, pensiamo già la volontà di potenza; lo stesso vale per la potenza, che è determinata come un guardare oltre, in una veduta che tutto abbraccia, in quanto superpotenziamento. Volontà di potenza significa allora: ottenere il potere della sopraelevazione di se stesso; il superpotenziamento che porta alla sopraelevazione è contemporaneamente l'atto della sopraelevazione.
Ora, tuttavia, tale concezione, che estende la giustizia a potenza fondamentale dell'ente in generale, non diventa una antropomorfizzazione di tutto ciò che è? Di ciò N. è consapevole, come si evince dal brano n. 614 della Volontà di potenza:
""Antropomorfizzare" il mondo, cioè sentirci sempre più in esso come signori".
Tale antropomorfizzazione, che deriva da una interpretazione dell'essere-uomo che è nel fondo della sua essenza volontà di potenza, fa parte della storia finale della metafisica, caratterizzata dall'abbandono dell'essere.
Nella interpretazione di N. giunge a compimento la concezione dell'essere, che i Greci determinarono come stabilità della presenza. Per N. l'essenza dell'ente è il caos, il divenire, che si determina come volontà di potenza. Ciò non significa, però, "rimuovere" l'essere a favore del divenire, poichè quest'ultimo è pensato nella sua stabilità. Infatti la volontà di potenza, nella sua essenza più profonda, non è altro che la stabilizzazione del divenire nella presenza. In una annotazione del 1888 (La volontà di potenza, n. 617), egli scrive:
"Ricapitolazione:
"Imprimere al divenire il carattere dell'essere - è questa la suprema volontà di potenza".
Ecco dunque che, nel pensiero della volontà di potenza, viene ripensato il pensiero iniziale dell'essere come physis, non come imitazione del primo inizio, ma come trasformazione del pensiero moderno dell'ente. Ma qui, nel suo compimento, la domanda della verità, nella cui essenza l'essere stesso è presente, non soltanto rimane non domandata, ma viene sepolta nella sua problematicità. Per questo il compimento diventa una fine: l'essere è coperto dall'ombra dell'ente e della supremazia del cosiddetto reale. Tale adombramento proviene tuttavia dall'essere stesso, fa parte della storia dell'essere, caratterizzata dal rifiutarsi della verità.
Questa fine è però la necessità dell'altro inizio; sta a noi cogliere tale necessarietà e capire la fine come compimento.
"Eppure, scorgendo questa ombra come ombra, noi stiamo già in un'altra luce, senza trovare il fuoco da cui emana il suo rilucere".

Martin Heidegger 

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