venerdì 20 dicembre 2013

DELLA REDENZIONE



Un giorno quando Zarathustra passò sul gran ponte, gli storpi e i mendicanti lo circondarono, e un gobbo gli parlò così:
«Guarda, Zarathustra! Anche il popolo impara da te e presta fede alla tua dottrina: ma affinchè possa crederti interamente è ancor necessario una cosa – tu devi anzitutto convincere gli infermi! Ne hai qui grande scelta e, in verità, un'occasione che devi afferrare... Tu devi rendere la vista ai ciechi e far correre gli zoppi; e togliere un poco a colui che ha troppa roba sul dorso: – ecco, io penso, il vero modo per far sì che gl'infermi credano in Zarathustra!»
Ma Zarathustra rispose a colui che gli aveva parlato:
«Se si toglie al gobbo la gobba, gli si toglie pure lo spirito – così insegna il popolo. E se si rende la vista al cieco, egli vedrà troppe cose brutte sulla terra: così che dovrà maledire chi lo guarì. E colui che fa correr lo zoppo, gli fa il danno peggiore: giacchè appena potrà correre, i suoi vizi lo trascineranno con loro – così insegna il popolo a proposito degli infermi. E perchè Zarathustra non dovrebbe imparare dal popolo, quando il popolo impara da Zarathustra?
Ma, dacchè mi trovo fra gli uomini, è per me la cosa più insignificante che io veda... A questo manca un occhio, a quello un'orecchia, a un terzo la gamba, e vi sono altri che han perduto la lingua o il naso o la testa.
Vedo e ho veduto cose peggiori, e parecchie così orribili; non vorrei parlare di ciascuna e non posso tacere di alcune; uomini che non sono altro che un grande occhio, o una gran bocca, o un grande ventre, o qualche altra cosa di grande, – io li chiamo storpi a rovescio.
Quando uscii dalla mia solitudine, e passai per la prima volta sopra questo ponte: non credetti ai miei occhi e guardai e guardai e dissi alfine: «Questa è una orecchia!
Un'orecchia grande come un uomo!» Io guardai meglio: e, in verità, sotto l'orecchia si agitava ancora qualche cosa che era piccola da far pietà, e povera e debole. E, veramente, l'orecchia enorme, era posta sopra un tenue e piccolo stelo, – ma lo stelo era un uomo! E chi avesse guardato attraverso una lente avrebbe anche potuto scorgere un grazioso visino; e anche una piccola anima flaccida pendente dallo stelo. Tuttavia il popolo mi disse che la grande orecchia non era soltanto un uomo, bensì un grand'uomo, un genio. Ma io non credetti mai al popolo quando parlò di grandi uomini – e tenni la mia credenza che quegli fosse uno storpio a rovescio, il quale aveva troppo poco di tutto, e d'una sola cosa troppo».
Quando Zarathustra ebbe parlato così al gobbo, ed a coloro dei quali il gobbo era interprete e mandatario, si volse con profonda scontentezza ai discepoli e disse: «In verità, amici, io m'aggiro tra gli uomini come in mezzo a un ammasso di frammenti e di membra umane!
Questo per i miei occhi è cosa terribile, veder gli uomini frantumati e lacerati come su un campo di battaglia o di carneficina.
E se il mio sguardo fugge dal presente al passato: trova sempre la stessa cosa: frammenti, membra, casi orrendi – ma non un uomo!
Il presente e il passato sulla terra – o miei amici! – ecco quel che mi è più insopportabile; e non saprei vivere, se non fossi un veggente di ciò che deve accadere.
Un veggente, un volente, un creatore, un avvenire stesso, e un ponte sull'avvenire – e, ahimè! ancora, in certo modo, uno storpio su quel ponte: tutto ciò è Zarathustra.
E voi pure vi chiedete sovente: «chi è per noi Zarathustra?
Come ci deve chiamare?». E, come me, voi rispondete con nuove domande alle vostre domande.
È egli uno che promette? Uno che adempie? Un conquistatore?
Oppure un erede? Un autunno? Oppure un aratro? Un medico? Oppure un convalescente?
È egli un poeta? uno che dice la verità? Un liberatore? Un domatore? Un buono? Oppure un cattivo?
Io m'aggiro fra gli uomini, frammento dell'avvenire: quell'avvenire che vedo.
E a questo tende ogni mio pensiero, ogni desiderio; comporre in unità ciò che è ora frammento e mistero, e lugubre caso.
E come potrei sopportar d'essere uomo, se l'uomo non fosse anche poeta, profeta e redentore del caso?
Riscattare i passati e trasformare tutto «ciò che fu» in «così volli!» – questo soltanto chiamo riscatto!
Volontà – si chiama così il liberatore e il dispensatore di gioie: questo v'insegnai, o amici! Ma ora imparate anche questo: la volontà stessa è tuttavia prigioniera. Il volere redime: ma come si chiama ciò che incatena gli stessi liberatori?
«Così fu»: ecco ciò che fa digrignare i denti alla volontà, e la sua più solitaria afflizione. Impotente contro ciò che fu fatto – è una spettatrice malevola per tutto ciò ch'è trascorso.
La volontà non può agir sul passato; non poter infrangere il tempo e le brame del tempo – è la sua più solitaria afflizione.
La volontà riscatta: che cosa potrà trovare per liberarsi dalla sua afflizione e beffarsi delle sue catene?
Ah, ogni prigioniero diventa un pazzo! La volontà prigioniera, essa pure, si libera come follia.
Che il tempo non possa tornare indietro, è la sua collera.
«Ciò che fu» – così si chiama la pietra che la volontà non può rovesciare.
E così essa rovescia, per ira e dispetto, le pietre, e si vendica di colui che non prova, al pari di lei, rabbia e dispetto.
Così la volontà liberatrice, divenne cagione di duolo: e su tutto ciò che può soffrire, si vendica di non poter tornare indietro.
Questa, questa soltanto, è la vera vendetta: la ripugnanza della volontà per il tempo e per il «così fu».
Davvero una grande follia dimora nella nostra volontà; e fu sventura per ogni cosa umana che tal follia imparasse ad aver dello spirito!
Lo spirito della vendetta: miei amici, ecco ciò che fu sin adesso la miglior riflessione degli uomini; e dov'era il dolore, si suppose ci fosse un castigo.
«Castigo», così la vendetta chiama sè stessa; con una parola menzognera si procura una buona coscienza.
E siccome in colui che vuole, v'è sempre il dolore di non poter volere sul passato – la volontà, essa stessa, e tutta la vita, dovrebbero – esser punizione!
E così nube su nube si addensò su lo spirito: fino a che predicò la follia: «Tutto passa, tutto è degno perciò di passare!»
«E questa è proprio giustizia, la legge che impone al tempo di divorare i propri nati»: così predicò la follia.
«Moralmente ordinate son le cose, secondo il diritto e il castigo. Oh, dove trovar redenzione dal flusso delle cose e dal castigo chiamato esistenza? – Così predicò la follia.
«Può darsi redenzione quando esiste un eterno diritto? Ah, non si può sollevare la pietra «esso fu»: eterno dunque dev'essere anche il castigo!» Così predicò la follia.
«Nessun'azione può esser distrutta: come potrebbe venir soppressa dal castigo? Questo, questo è ciò che d'eterno v'è nel castigo dell'«esistenza»: che l'esistenza sia in eterno colpa ed azione!
«A meno che la volontà non finisca per liberarsi essa stessa e che il volere divenga rinunzia al volere» – ma voi la conoscete, o miei fratelli, questa canzone della follia! Vi condussi lungi da tali canzoni quando v'insegnai: «la volontà è creatrice».
Tutto ciò «che fu» è frammento ed enigma, e spaventevole caso, finchè non dica la volontà creatrice: «Ma così io volli!».
Fin che non dica la volontà creatrice: «Ma così io voglio! Così io vorrò!».
Ma ha essa di già parlato in tal modo? E quand'è che questo successe? È già liberata la volontà dalla sua propria follia?
Divenne essa la redentrice di sè medesima, e messaggera di gioe? Disimparò lo spirito della vendetta e il digrignare dei denti?
E chi le insegnò a riconciliarsi col tempo, e qualcosa ch'è superiore a tutte le riconciliazioni?
Bisogna che la volontà, che è volontà di potenza, voglia qualcosa di più alto che la riconciliazione: ma come? Chi le insegnò a voler dominare anche sul passato? » Ma a questo punto del suo discorso accadde che Zarathustra s'interruppe, d'improvviso, simile a qualcuno che si spaventa estremamente. Con occhio atterrito egli guardò i suoi discepoli; l'occhio suo penetrava come una freccia i loro pensieri più ascosi. Ma, dopo un momento, di nuovo egli rise e disse benigno:
«È difficile viver tra uomini, perchè il silenzio è tanto difficile. Specialmente per un chiacchierone....»
Così parlò Zarathustra. Ma il gobbo aveva ascoltato il discorso celandosi il volto; e quando udì rider Zarathustra, lo guardò incuriosito e disse lento:
«Ma perchè Zarathustra parla con noi altrimenti che coi suoi discepoli?».
Zarathustra rispose: «Perchè mai dovreste stupirne!
Coi gobbi bisogna parlare gobbescamente!

«Va bene, disse il gobbo; e con gli scolari si può parlare come usa alla scuola... Ma perchè Zarathustra parla altrimenti ai discepoli suoi – che a sè stesso?»

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