mercoledì 24 luglio 2013

ESISTENZA ED INDICIBILITÀ IN MAX STIRNER




“Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte”
(G. Leopardi).

1. Introduzione
Il pensiero filosofico sfocia nel secolo scorso nella costituzione di una corrente di pensiero che prese il nome di esistenzialismo. Indubbio fu per i maggiori esponenti di questo filone, Heidegger, Sartre e Jaspers, l’influsso che nella metà del diciannovesimo secolo diede S. Kierkegaard, e successivamente E. Husserl.
Nel 1936, periodo particolarmente complicato per la Germania, comparve un articolo intitolato Die Frage an den Einzelnen, in cui l’autore, Martin Buber, pose accanto al nome di Kierkegaard quello di Max Stirner. Il nome di Stirner era stato avvicinato precedentemente a quello di Nietzsche, al quale deve insieme a Marx ed Engels una sorta di “gratitudine”, dal momento che grazie alla loro notorietà, gli studi stirneriani furono provvisti sempre di nuovi interessi, ora nella marxiana Deutsche Ideologie, ora in continua relazione a Nietzsche, e posero mano a quella che gli odierni studiosi dello stirnerismo considerano come un vero e proprio risveglio della critica stirneriana.
Oggi la bibliografia stirneriana conta intorno ai 3500 scritti, tra monografie, articoli e miscellanee, lavoro che dura ormai da circa centocinquanta anni, ma è soltanto dalla seconda metà del ventesimo secolo che comparvero studi e posizioni che prescindevano dal valutare Stirner come anarchico o come precursore di un’etica fascista. E’ in questo senso che il lavoro di Buber getta nuova luce sulla filosofia stirneriana; successivamente, infatti, il pensiero esistenziale diventerà una chiave interpretativa della sua opera, nata proprio dall’intuizione buberiana.
E’ obbligo però precisare un aspetto di tutto ciò: il pensiero esistenzialista nato nel ventesimo secolo è a mio parere segnato dall’esperienza delle due guerre mondiali ed è permeato da un’etica della responsabilità, mentre l’esistenzialismo di Kierkegaard, come quello di Stirner, è frutto di una riflessione privata sull’individuo; tale riflessione scaturiva, in Stirner, da una condizione tanto alienante, quanto miserevole della condizione umana, mentre al filosofo danese si deve additare una sorta di dovere interiore che segue un perenne crescendo di fronte alla figura del Cristo, ed una critica radicale nei confronti del modo in cui la religione cristiana era vissuta dai credenti del tempo.
Gli studiosi che videro Stirner “legato” a tematiche esistenzialiste introdussero una nuova valutazione della sua filosofia. In Aux sources de l’esistentialisme: Max Stirner (1954), Arvon osservò che tra Kierkegaard e Stirner ci sono dei punti che concordano e che addirittura si confondono: la posizione avversa al sistema hegeliano e una centralità dell’individuo squisitamente esistenziale. L’acuto critico francese approfondì con svariati lavori la tematica stirneriana ed oggi rientra tra le principali fonti di chiunque si interessi di Stirner, soprattutto per chi prediliga un’ottica marxista. Arvon non approfondì la prospettiva esistenziale del nostro filosofo, il suo lavoro fu incentrato sulla figura di Stirner in rapporto a Feuerbach e a Marx, ponendolo come l’ultimo anello della catena della scuola hegeliana; ma è suo il merito, tramite un lavoro completo e svariati anni dedicati alla tematica stirneriana, di un successivo interesse degli studiosi nei riguardi di Stirner.
A mio avviso le riflessioni di Kierkegaard e Stirner possono sicuramente essere comparate tra di loro quanto ad un punto indubbiamente in comune, ossia il valore dell’esistenza e per le possibilità di essere ad essa connesse. Il giudizio di K. Löwith è indicativo dal momento che pone accanto ai già citati Stirner e Kierkegaard Karl Marx; nel capitolo dedicato al problema dell’umanità del suo Von Hegel zu Nietzsche; scrive Löwith: «Marx termina con l’uomo comunista, che privatamente non possiede più nulla, Stirner con il non-uomo, che ha tra le altre, ancora la proprietà di essere uomo; e Kierkegaard, infine, con il Cristo, in cui l’uomo ritrova per l’eternità la sua misura sovrumana. In tal modo si spezza la catena, facente capo a Hegel, dei tentativi radicali per una nuova determinazione dell’uomo».
Sono dell’opinione che lo spessore delle meditazioni stirneriane vadano oltre la filosofia “accademica”, e quando la ricerca filosofica si spoglia della sua stessa tradizione è allora che il pensiero acquista una caratteristica fondamentale per se stesso e per il suo interno divenire, e che si esprime come pensiero liberamente creatore.
Ed è proprio in virtù di quest’aspetto peculiare della filosofia stirneriana che ritengo sia alquanto difficile restituire la carica che Stirner gli impresse. Anche se Stirner non tratta esplicitamente di filosofia del linguaggio, la sua posizione a tal riguardo è decisamente forte, il linguaggio per lui è incapace di esprimere la realtà; per quanto indispensabili, infatti, le parole per Stirner non hanno carne e sono dunque destinate a rimanere eternamente vuote. Stirner non è un semplice nominalista, la sua opera pone in luce la natura stessa del linguaggio, un linguaggio che si presenta, secondo il nostro filosofo, ancora sostanzialmente religioso, in quanto “il valore” delle parole è stato assegnato dalla chiesa. Accanto a questa considerazione sulla natura e lo sviluppo del linguaggio, sono dell’opinione che Stirner poggi su di essa una ben più radicale posizione, che intendo formulare in questi termini: tra i nomi e le regole grammaticali che costituiscono il linguaggio non rientra quella realtà fatta di intuizioni, con le sue interdipendenze tra l’uomo ed il mondo e ancor di più tra il soggetto e la sua interiorità.
Giorgio Penzo, nei suoi lavori su Stirner, è spesso ritornato su di una valutazione complessiva del filosofo, ponendo in luce che egli non brilla, per così dire, di luce riflessa (Nietzsche o il pensiero esistenzialista), ma che anzi le sue riflessioni vanno oltre, costituendo un proprio ed originale nucleo filosofico. A tal riguardo, credo che quel nucleo filosofico si possa formulare in termini squisitamente esistenziali. L’esistenza è per Stirner inesprimibile, indicibile, sicuramente dura, problematica, ma estremamente vissuta e goduta in quanto unica ed irripetibile. E’ dall’esistenza che a parere di Stirner proviene e procede il pensiero.
Tale relazione è presente, a mio avviso, nell’Unico, negli Scritti Minori e nelle Risposte ai Critici, e viene espressa, col passare degli anni, sempre con maggior convinzione. Ritengo che la tematica dell’egoismo, o meglio dell’ego-ismo, porti con sé proprio questa consapevolezza: il piano dell’autenticità è quello del singolo, mentre il concetto di uomo resta per Stirner soltanto uno spettro, è la realizzazione delle potenzialità personali, l’azione che compie l’Unico.
L’indeterminato trova la sua determinazione nella volontà singola. A differenza di Hegel, che vide l’uomo impotente di fronte al passaggio tra l’indeterminato e il determinato (ossia lo Spirito), costretto ad inglobarsi in questo processo infinito, Stirner propone la rivolta, che Penzo definisce autenticamente come essere-inrivolta, portando in luce il suo significato esistenziale anche se, in ogni caso, si viene a delineare uno schema tipicamente idealistico. Ad ogni modo, credo che la rivolta (Empörug) indichi anche un’indignazione nei riguardi del presente e che spinga al cambiamento; essa, infatti, porta con sé una consapevolezza a livello di coscienza. La rivolta assume quindi, a mio parere, un valore essenzialmente esistenziale, anche se non credo che nasca in questi termini. Sono dell’opinione che l’unico, cioè l’individuo in carne ed ossa, vivendo immerso nel “Si” impersonale attuato dallo stato e dalla religione, si comprende alienato ed è distante dalla sua più pura condizione, che è quella tellurica. Rivoltandosi, prende le distanze da quel reale perché giunge alla consapevolezza che la staticità delle forme, così come la secolarizzazione dell’autorità, sono le cause dell’alienazione verso se stesso. Tutto è riferito al singolo, è questo l’Ego-ismo stirneriano. La risposta stirneriana è una rivolta, un’associazione di uomini liberi, “vivi”; per non cadere nel Si e nelle forme statiche, infatti, bisogna condurre la propria esistenza come essere-in-rivolta, essere che di volta-in-volta crea le sue condizioni, i suoi rapporti, e di conseguenza se stesso, ma che tuttavia è sempre disposto alla loro distruzione, in quanto è nel nulla che l’unico è creatore di tutto.
E’ certamente vero che la dimensione morale è ampiamente ristretta, ma di sicuro non viene eliminata, in quanto credo che essa sia riportata alla legislazione soggettiva, che è tutt’altra cosa rispetto a quanto proponevano le interpretazioni forzate fatte sia dagli esponenti dell’anarchismo, sia dagli intellettuali di sinistra.
Sono significative quanto non popolari, a tal riguardo, due interventi tenuti da C. Cesa e D. McLellan nel convegno tenuto a Napoli nel 1996 intitolato “Max Stirner e l’individualismo moderno”: Cesa teorizzava un diverso sviluppo del marxismo sulla base di una considerazione diversa rispetto a quella che diede Marx nei confronti di Stirner, mentre McLellan presentava una riflessione amara per la storia del marxismo. Mi piace ricordare a tal proposito che, negli scritti di Stirner, si trova a mio avviso, un disprezzo non verso gli uomini, ma verso il loro stato di schiavitù; è noto che Stirner non sia un pensatore volto alla beneficenza, e lontana è dalle sue intenzioni una proposta come quella kantiana della pace perpetua, ma credo che egli sia fortemente motivato a cercare di far comprendere a quegli stessi “schiavi dell’estraniazione” come costruire gli strumenti e le basi per la loro libertà.
Porre una qualsivoglia problematica del fondamento nel pensiero stirneriano è particolarmente complicato, in quanto è di primaria importanza ricordare che non era intenzione di Stirner costituire un sistema filosofico, e questo vale anche, e credo soprattutto, per il terreno della politica. Proporre il singolo come fondamento è ovvio, seguendo il pensiero stirneriano, ma forse la problematica fondamentale è il rapporto del singolo con il mondo e le sue creazioni. Le creazioni dell’uomo (Stato, Religione e Diritto), ponendosi al di sopra di esso, lo dominano, ed è proprio questa condizione estraniante che “risveglia” l’unico che, compresa questa situazione a livello di coscienza, passa all’atto della riconquista. “Riconquista” proprio perché la lotta è contro la santità del diritto e della legge. Per Stirner, infatti, la dimensione sacra è una fissazione, un ossesso. Ponendosi come proprietario di sé, affermandosi come detentore del proprio diritto, e non riconoscendone altri, egli è libero.
E’ di fondamentale importanza, a mio avviso, avere sempre chiaro il contesto filosofico di cui Stirner fece parte. I suoi anni di studio sono anche gli anni dell’incontrastato dominio hegeliano e, successivamente, della sua scuola; non a caso, proprio in questi anni, “nasce” la storiografia come scienza e molti pensatori vengono espulsi dalle facoltà per evidente contrasto con la filosofia del tempo. Molti di questi Stirner li ritroverà da Heippel, uniti contro le istituzioni. Religione e Stato, infatti, sono stati gli argomenti principali del periodo post-hegeliano, i punti nodali su cui la scuola si divise: la filosofia di Strauss prima e Feurbach dopo, di Bauer e Stirner, e degli annali franco-tedeschi, con a capo K. Marx.
Da questo movimento di critica e ribellione, Max Stirner intraprese la lotta iniziata su di un territorio comune ad altri pensatori. Ma ben presto egli si allontanò da quel gruppo, mentre il suo pensiero andava formandosi in un modo compiuto ed
unitario.


2. La consapevolezza stirneriana
Nelle Risposte ai recensori dell’Unico e la sua proprietà, Stirner affronta una problematica principale, sorta soprattutto dall’interpretazione che i suoi contemporanei diedero della sua opera.
Nella parte iniziale di tale scritto, Stirner dà una triplice risposta che poggia sull’“accordo” dei suoi oppositori Szeliga, Feuerbach ed Hess; egli scrive, infatti, «Ueber diejenigen Worte, welche in Stirners Buche die auffälligsten sind, über den “Einzigen” nämlich und den “Egoisten”, stimmen die drei Gegner unter einander überein. Es wird daher am dienlichsten sein, diese Einigkeit zu benutzen und die berührten Punkte vorweg zu besprechen».
Precisando il significato del termine unico (Einzige), Stirner ha così l’opportunità di chiarire e di prendere le distanze da interpretazioni che a suo giudizio stravolgono le sue intenzioni ed il suo pensiero. Passando in rassegna molto velocemente le tre recensioni sotto quest’aspetto, Stirner pone in luce come in tutte e tre le critiche, l’unico appaia come «lo spettro di tutti gli spettri», come «l’individuo sacro, che ci si deve levare dalla mente», o ancora «un millantatore», come lo definisce M. Hess. La risposta alla domanda chi è l’unico Stirner risponde: « Der Einzige ist ein Wort, und bei einem Worte müßte man sich doch etwas denken können, ein Wort müßte doch einen Gedankeninhalt haben. Aber der Einzige ist ein gedankenloses Wort, es hat keinen Gedankeninhalt. – Was ist aber dann sein Inhalt, wenn der Gedanke es nicht ist? Einer, der nicht zum zweiten Male dasein, folglich auch nicht ausgedrückt werden kann; denn könnte er ausgedrückt, wirklich und ganz ausgedrückt werden, so wäre er zum zweiten Male da, wäre im “Ausdruck” da »
In realtà non credo che fosse necessario “spiegare” che cosa fosse l’unico, dal momento che nel Der Einzige non esiste altro soggetto che l’individuo esistente in carne ed ossa; certo, di esso si possono predicare molti attributi, tra i quali la forza, l’antistatalismo, l’ateismo, ma non l’esistenza. Volontà ed esistenza sono per l’unico (l’individuo) caratteri ultimi ed indivisibili che consentono la realizzazione della propria singolarità ed irripetibilità. Tali caratteri costituiscono in un certo senso la sub-stantia dell’unico e non l’essentia, in quanto su di essi poggiano gli attributi. Si predica dell’ateismo e dell’antistatalismo riferendosi non all’uomo come concetto, ma al singolo individuo, un individuo che vive e che vuole. Nell’unico, forma e contenuto dissolvono la dualità, come su di una tela dadaista; non esiste alcuna essenza esterna o interna all’individuo15, è bandito ogni tipo di dualismo metafisico, ma resta la consapevolezza della mancanza totale del proprio fondamento. Per Stirner, quindi, il fondamento dell’uomo è nullo, ma esso non è un niente, è bensì un nulla creatore dal quale l’individuo è nato. Il singolo, valutato da Stirner come un essere caduco, non può, a suo avviso, avere un fondamento eterno; tale riflessione ci conduce ad un aspetto fondamentale del suo pensiero: egli, infatti, sostituendo il genere con il singolo, pone in rilievo l’abissale aporia che si ritrova nel pensiero borghese-cristiano. Come ricorda Stirner nel principio della propria opera, lo stato e Dio servono la loro causa, ma essi, ideali oggettivizzati dagli uomini, esistono soltanto nella condizione in cui gli uomini servono la loro causa. « nicht Ich lebe, - scrive Stirner - sondern das Respektierte lebt in Mir! ».
A parere di Stirner, Dio e lo stato vivranno fin quando l’uomo spenderà la propria vita per servirli, e parimenti morranno soltanto quando l’individuo servirà la sua propria causa, quella che Stirner definisce come causa egoistica.
Sembra che il groviglio da cui deve liberarsi l’individuo sia tutta la costruzione che il genere umano, in quanto eterno, ha compiuto, tutto ciò che la razza umana ha creato come bisogno tanto esterno come lo stato, quanto interno come la morale e la religione. L’io si ritrova il solo padrone di se stesso, in una relazione col mondo che egli non ha voluto; si scopre, quindi, scaraventato nel mondo, in una condizione ben più radicale, problematica e paradossale dell’EsserCi heideggeriano. Buttato a caso tra il groviglio di tutte le altre cose del mondo, allo stesso modo in cui si gettano dei dadi (herumgewürfelt), l’unico deve cercare di emergere da tutto ciò.
Le pagine della sua opera hanno a mio avviso un duplice significato: esse si presentano come il risultato di riflessioni ed elaborazioni avute, da un lato, su di un piano socio-politico, dall’altro, su di un terreno individualistico-esistenziale.
Entrambe, a loro volta, formano una riflessione complessiva ed unitaria, che accoglie in sé sia l’aspetto sociale, sia quello individuale. Se, da una parte, Stirner parla dell’individuo, teorizzando l’egoismo, dall’altra trova nella Verein l’assetto migliore che una “società”, a suo modo di vedere, possa avere, anche se non si preoccupa di ciò che può avvenire dopo l’associazione. Certo, lui pone in evidenza come lo stato e la religione del suo tempo siano i principali responsabili della schiavitù individuale, e se in un suo scritto precedente pone l’importanza di un’educazione libera, ora, nella sua opera maggiore, mostra come l’esistenza del singolo si possa liberare da questa schiavitù.
Di differente avviso furono i suoi recensori, e soprattutto Feuerbach, il quale, come è noto, preferì porre la sua critica nei riguardi di Stirner, trasformando l’unico in un ente generico, universale, sacro. Feuerbach, d’altronde, era stato attaccato aspramente da Stirner, e proprio in virtù di questo “rapporto”, i due pensatori ebbero l’opportunità di scontrarsi, arricchendo le loro rispettive posizioni. I punti significativi della critica stirneriana si trovano nella sezione sul liberalismo umanitario, riguardante la critica del concetto di uomo. Il mascheramento del pensiero cristianoteologico, diventato pensiero umanitario dal medioevo all’età moderna, trovava la sua voce, secondo Stirner, nel pensiero feuerbachiano, riassunto nella formula “per l’uomo essere supremo è l’uomo stesso”, che Stirner riporta nel principio della sua opera.
In questo contesto polemico nei confronti del pensiero stirneriano, prende posizione Franz Zychlinski, meglio conosciuto come Szeliga. Ponendo in luce, come Feuerbach, il significato del termine Einzige, sottolinea anch’egli la sua dimensione santa.
La risposta stirneriana è come al solito molto tagliente, oltre che ben ponderata. È importante, a mio avviso, tenere ben presente che sono soprattutto le sue risposte alle critiche che legittimano un’interpretazione in chiave esistenziale del suo pensiero, dal momento che è in questa sede che Stirner pone esplicitamente la domanda capitale del suo pensiero, ovvero, la domanda del chi, del soggetto, del pensante rispetto al pensato.
«Es war die Speculation – procede Stirner – darauf gerichtet, ein Prädicat zu finden, welches so allgemein wäre, daß es Jeden in sich begriffe. Ein solches dürfte doch jedenfalls nicht ausdrücken, was Jeder sein soll, sondern was er ist. Wenn also “Mensch” dieß Prädicat wäre, so müßte darunter nicht etwas verstanden werden, was Jeder werden soll, da sonst Alle, die es noch nicht geworden, davon ausgeschlossen wären, sondern etwas, was Jeder ist. Nun, “Mensch” drückt auch wirklich aus, was Jeder ist. Allein dieses Was ist zwar Ausdruck für das Allgemeine in Jedem, für das, was Jeder mit dem Andern gemein hat, aber es ist nicht Ausdruck für den “Jeder”, es drückt nicht aus, wer Jeder ist ». Questo è il terreno sul quale poggia la riflessione stirneriana, che non è una mera speculazione sull’essere e i suoi attributi, né una filosofia che si pone come scienza delle cause ultime, ma è filosofia, nella misura in cui la filosofia viene a coincidere con l’esistenza del singolo.
Ed ogni filosofia che fa del singolo astratto un concetto si presenta, secondo Stirner, nel baratro del pensiero, mentre egli pone la domanda: « Erfüllt jenes Prädicat “Mensch ” – prosegue Stirenr – die Aufgabe des Prädicats, das Subject ganz auszudrücken, und läßt es nicht im Gegentheil am Subjecte gerade die Subjectivität weg und sagt nicht, wer, sondern nur, was das Subject sei? Soll daher das Prädicat einen Jeden in sich begreifen, so muß ein Jeder darin als Subject erscheinen d. h. nicht bloß als das, was er ist, sondern als der, der er ist».
Nell’Unico, come d’altronde negli scritti minori, un’interpretazione “rivoltosa” si affianca a quella esistenziale: l’individuo giunge alla consapevolezza della propria esistenza soltanto quando, a parere di Stirner, si riconosce come individuo essenzialmente libero, non accettandosi né come cittadino né come cristiano, ma unicamente come singolo.
L’esistenzialismo stirneriano poggia quindi, a mio avviso, su di una base particolarmente problematica: il singolo riesce ad esprimere tutte le sue potenzialità soltanto a patto che nessuno tenda a limitarlo; egli deve poter liberamente dare il proprio valore a tutto ciò che lo circonda, e diventa il creare centro del suo dominio.
Il terreno del creare esclude qualsiasi limitazione; beninteso, egli non intende creare oggetti tramite un’intuizione intellettuale, ma distruggere i rapporti esistenti tra gli uomini, i quali sono prevalentemente rapporti di sudditanza; gli uomini, infatti, a parere di Stirner, non hanno più rapporti diretti tra loro, ma sono estraniati da sé stessi a causa del diritto e dello stato. Il diritto, che Stirner definisce come la volontà della società, regola i rapporti tra gli uomini in quanto volontà del dominatore; tramite la legge e quindi il diritto, lo stato, sotto la maschera di mediatore, imprime la sua stessa volontà, e il suo dominare è un tenere sotto controllo, per cui il suo nemico più pericoloso è la volontà personale. Stirner incita a creare, dunque, nuovi rapporti tra gli individui, “Mann gegen Mann”, messi l’uno di fronte all’altro, instaurando rapporti che non hanno bisogno di intermediari o di enti superiori; proponendo nuovi rapporti interpersonali, Stirner teorizza l’unione dei liberi, cioè di uomini che non vogliono più farsi governare, ma che vogliono governarsi.
Fermo restando che a nessuna interpretazione del pensiero stirneriano spetti una posizione privilegiata, ritengo, tuttavia, che un’interpretazione che poggi su un duplice piano - ovvero quello esistenziale-politico, o meglio, quello di una fenomenologia del singolo e dei suoi rapporti - possa far luce su quel complesso susseguirsi di pensieri che è il filosofare stirneriano. E’ importante a tal proposito ricordare che la figura di Stirner è stata per lungo tempo accostata al pensiero anarchico e, tramite la lettura di Marx ed Engels, ad un’ideologia tipicamente borghese. In un certo senso, sia i teorici dell’anarchismo sia gli intellettuali di sinistra hanno contribuito alla conoscenza di Stirner pubblicando molteplici volumi, ma, ricordando la riflessione di Penzo posta in luce nel suo studio su Stirner, è significativo che, nell’introduzione di C. Luporini all’edizione italiana dello scritto di Marx ed Engels Die Deutsche Ideologie, l’autore abbia cura di far notare che si deve ripensare «la parte di Stirner stesso oggi che siamo ormai lontani da quella discussione con l’anarchismo che le fu successivamente aggregata».
Interessante è notare in che modo Stirner, dopo la sua opera maggiore, si ripresentò nel dibattito filosofico del tempo: una risposta, formulata con l’intento di rendere chiare le sue riflessioni ai propri critici, attraverso un’accessibilità migliore e un’ulteriore nitidezza rispetto a quella “romanzata” usata nel Der Einzige. Stirner non aggiungerà altro alla sua filosofia, e la replica a Kuno Fischer, che è stata scritta nel 1847, sarà la conclusione della sua attività filosofica. In riferimento a tale replica, Calasso scrive che è stata «l’ultima coda di parole che proviene dal cerchio dell’Unico».
Attraverso il dibattito critico con Fischer, Stirner pose in rilievo ancora una volta aspetti fondamentali del suo pensiero e concluse la sua opera in una forma tanto polemica quanto estremamente esplicita. Nel saggio intitolato “Die modernen Sophisten”, pubblicato per la prima volta nella Rivista di Lipsia (Leipziger Revue), Fischer presentava Stirner come un sofista e la sofistica era per lui una sorta di filosofia rovesciata, posta da un soggetto che pretendeva di distinguersi dal proprio pensiero, diventando quindi un “soggetto particolare”, oggettivando in un certo senso il pensiero e considerandolo soltanto un mezzo per i propri scopi, accogliendo sotto al suo “rozzo cuore” sia la scienza morale che quella naturale. Nello stesso anno pubblicava “Die philosophiscen Reaktionäre”, dove Stirner era considerato come un filosofo reazionario. Questa considerazione porta Fischer sulle orme critiche di Feuerbach, Szeliga ed Hess, anche perché Fischer, come i critici dell’Unico, si sofferma sulla tematica dell’egoismo.
Fischer insieme a Erdmann, con Rosenkranz e Haym furono definiti da Löwith come coloro che riuscirono a «mantenere storicamente l’impero fondato da Hegel», definendoli «i veri e propri conservatori della filosofia hegeliana tra Hegel e Nietzsche, ed in particolare Fischer fu proprio il mediatore per il rinnovamento dell’hegelismo nel secolo XX».
Stirner e Fischer rappresentano intenzioni ed approcci diversi nel modo di far filosofia, e la discussione Stirner-Fischer non è da interpretarsi come esempio chiarificatore dello scontro allora in corso tra gli hegeliani di destra e quelli sinistra. Certo, nell’attacco di Fischer si possono scorgere le critiche dei conservatori del pensiero hegeliano, ma tale critica è comunque riferita a Stirner e alla sua filosofia.
Ritengo particolarmente importante soffermarsi sulle ultime righe stirneriane.
La replica di Stirner ha un tono simile agli altri suoi scritti, ma è mia opinione che tra le righe ci sia un insolito senso di tristezza; non manca, tuttavia, il suo stile pungente.
E’ lo stesso autore del Der Einzige e delle risposte ai critici che replica a Kuno Fischer di non aver compreso il suo pensiero come i suoi precedenti critici, ma mi sembra che il tono cambi quando non è più Fischer il suo nemico, ossia quando il nemico dell’unico si presenta chiaramente nascosto tra le parole di Fischer sotto forma di ideale, o, volendo usare la terminologia stirneriana, di fissazione, “ Die fixe Ideen”. E’ opportuno, quindi, un diretto riferimento al testo. A Fischer Stirner risponde in questi termini: «Ho già fatto spesso osservare che quei critici, che con grande talento e acume d’ingegno hanno vagliato e analizzato gli oggetti della loro critica, si sono certamente sbagliati nei riguardi di Stirner, che ognuno di essi fu trascinato alle conseguenze più diverse del suo abbagli e spesso a vere e proprie sciocchezze. Così Kuno Fischer si dà l’inutile pena di sviluppare l’egoismo e l’Unico di Stirner come conseguenza dell’auto-coscienza di Bauer e della “critica pura”. [...]
Nel libro di Stirner non si trova nulla di tutto questo. Anzi il libro di Stirner era già terminato, prima che Bruno Bauer voltasse le spalle alla sua critica teologica come a cosa liquidata». Successivamente, all’accusa di Fischer là dove sostiene che l’egoismo stirneriano si presenta come un egoismo dogmatico, in quanto l’egoismo è diventato un’entità teoretica, Stirner risponde: «Se il Signor Fischer avesse letto quel saggio, non sarebbe arrivato al comico abbagli di trovare nell’egoismo di Stirner un “dogma”, “un’imperativo categorico” strettamente inteso, un “dovere” strettamente inteso, come lo suscita l’umanesimo dicendo:<Tu devi essere 'uomo' e non 'nonuomo'>, costruendo secondo questo principio il catechismo morale dell’umanità. Là lo stesso Stirner ha definito “l’egoismo” come una “frase”; ma come un’ultima frase “frase” possibile, che è adatta a mettere fine al dominio delle frasi».
Si ripresenta quindi uno Stirner energicamente determinato a “bacchettare” un critico come Fischer non particolarmente attento e impreciso nei suoi riguardi; il suo linguaggio polemico, a mio avviso, muta istantaneamente allorquando Stirner fa delle osservazioni sulla condizione sociale e sull’operato della propria fatica.
L’indecisione che c’è tra gli studiosi su questo saggio è senza dubbio giustificata, ma ritengo che il contenuto del saggio sia in pieno accordo con lo spirito stirneriano e dunque credo sia di grande interesse riflettere su di esso, non soltanto perché Stirner non ha mai preso le distanze da tale scritto, ma soprattutto perché in esso viene presentata una riflessione esistenzialmente coerente e politicamente determinata.
A mio giudizio risalta subito un tono dimesso laddove Stirner esprime certe sue considerazioni. Credo che sia stata amara la consapevolezza di Stirner riguardo alla risonanza ricevuta dalla sua opera, non perché egli era desideroso di avere una cattedra universitaria, ma in quanto la sua opera non è stata compresa. Il 1847 è considerato dagli studiosi di Stirner come l’ultimo anno della notorietà del filosofo in questione. La mancata risposta sociale determina a mio giudizio tali passi: «Il vostro “mondo morale” ve lo lascia volentieri: ab immemorabili esso è esistito soltanto sulla carta; è l’eterna menzogna della società e si infrangerà sempre contro la ricca varietà e inconciliabilità dei singoli uomini di forte volontà. Lasciamo ai poeti questo ”paradiso perduto”»; «Il mondo ha fin troppo languito sotto la tirannia del penero, sotto il terrorismo dell’idea». E’ il ripresentarsi, o meglio l’assoluta esistenza dell’“idea fissa”, non scalfita dall’opera di Stirner il motivo, a mio parere, del tono dimesso del nostro filosofo. Accanto a questa considerazione del reale nel saggio si trovano anche alcune considerazioni sull’operato del nostro filosofo: si ripresenta la problematica rispetto al linguaggio già affrontata in precedenza, e una considerazione quasi auto-biografica della sua esistenza: «Stirner stesso ha definito il suo libro come un’espressione in parte “maldestra” di ciò che voleva. Esso è l’opera faticosa degli anni migliori della sua vita; eppure lo chiama in parte “maldestra”. Tanto egli dovette lottare con una lingua, che era stata corrotta dai filosofi, maltrattata dai devoti dello Stato, della religione e di altre fedi. E resta capace di un’immensa confusione di concetti».
I migliori anni spesi alla sua opera, una lotta estenuante contro il linguaggio corrotto, il difendersi da interpretazioni errate e tendenziose della sua filosofia si trasformano in un sfogo personale. Stirner recide ogni legame con il mondo.
Non ritengo questa una posizione irrazionale, anzi, a mio giudizio è razionalissima. Stirner è un pensatore che non fa filosofia estraniato dalla realtà, e forse quel reale non era pronto per le sue riflessioni, come si mostrerà pronto successivamente per quelle marxiane. Restano con tono amaro e deciso le ultime parole di Stirner: «Il sono “Unico”. Ma questo tu non lo vuoi proprio. Tu non vuoi che io sia un uomo reale; alla mia unicità tu non dai alcun valore. Tu vuoi che io sia “l’uomo” come tu l’hai costruito, quale modello per tutti. Tu vuoi rendere norma della mia vita il “plebeo principio dell’uguaglianza”. Principio per principio! Esigenza per esigenza io ti oppongo il principio dell’egoismo. Io voglio essere soltanto io. Io disprezzo la natura, gli uomini e le loro leggi, la società umane e il suo amore; e tronco ogni rapporto obbligatorio con essa, perfino quello del linguaggio. A tutte le pretese del vostro dovere, a tutte le indicazioni del vostro giudizio categorico io oppongo l’”atarassia” del mio io. Sono già arrendevole se mi servo della lingua. Io sono l’”indicibile”, “io semplicemente mi mostro”».


3. Indicibiltà ed esistenza, l’appartenenza a se stessi
Stirner scrive al termine della sua opera: «Man sagt von Gott: “Namen nennen Dich nicht”. Das gilt von Mir: kein Begriff drückt Mich aus, nichts, was man als mein Wesen angibt, erschöpft Mich; es sind nur Namen»; questo periodo contiene a mio avviso una posizione cardine del suo pensiero.
Qualche anno più tardi, nelle risposte ai critici, scrive: «Was Stirner sagt, ist ein Wort, ein Gedanke, ein Begriff; was er meint, ist kein Wort, kein Gedanke, kein Begriff. Was er sagt, ist nicht das Gemeinte, und was er meint, ist unsagbar »; dopo questa affermazione stirneriana, solo una riflessione privata nel silenzio può a mio parere aiutare a comprendere ciò che egli sosteneva.
Di solito in filosofia non capita che un pensatore ponga delle differenze tra quello che dice e quello che in realtà sostiene, soprattutto quando quelle differenze sono in realtà invalicabili. Nelle pagine iniziali ho esposto brevemente che cosa sia l’esistenza, ma ciò che ho scritto, in fondo, non sono altro che parole, concetti espressi, idee, mentre, per Stirner, l’esistenza o l’essere caduco non è né una parola né un concetto, ma il centro su di cui ruota tutto ciò che è. La centralità dell’individuo sia in sede ontica che ontologica è non soltanto un presupposto del pensiero stirneriano, ma è anche il suo punto d’approdo, in quanto Stirner, esulando dalla creazione di qualsiasi architettonica del pensiero, fa della filosofia non una questione accademica, ma una questione di vita.
La sua posizione a proposito è decisamente nuova e le categorie del pensiero, a suo giudizio, non sono in grado di cogliere questa realtà, che a mio avviso può essere definita come una sub-realtà; infatti, anche se il singolo individuo appartiene ad una determinata cultura, è egli stesso una sub-cultura, dal momento che ogni individuo porta con sé tutto un tessuto esistenziale fatto della propria esperienza, che viene inevitabilmente compromesso allorquando lo si generalizza nella specie; l’unico è un nome indeterminato, vuoto da qualsiasi determinazione, e soltanto l’individuo può colmare la sua assenza di significato, in quanto egli è colui che vive.
Tutto ciò è stato espresso da Stirner in maniera cristallina cercando di scampare dall’equivoco; riporto di seguito un susseguirsi delle sue affermazioni che mostrano a mio avviso la veridicità di quello che sostengo: « Stirner nennt den Einzigen und sagt zugleich: Namen nennen Dich nicht; er spricht ihn aus, indem er ihn den Einzigen nennt, und fügt doch hinzu, der Einzige sei nur ein Name; er meint also etwas Anderes, als er sagt, wie etwa derjenige, der Dich Ludwig nennt, nicht einen Ludwig überhaupt, sondern Dich meint, für den er kein Wort hat »; « Man schmeichelte sich immer, daß man vom “wirklichen, individuellen” Menschen rede, wenn man vom Menschen sprach; war das aber möglich, so lange man diesen Menschen durch ein Allgemeines, ein Prädicat, auszudrücken begehrte? Mußte man nicht, um diesen zu bezeichnen, statt zu einem Prädicate, vielmehr zu einer Bezeichnung, einem Namen, seine Zuflucht nehmen, wobei die Meinung, d. h. das Unausgesprochene, die Hauptsache ist? »; « Die Einen beruhigten sich bei der “wahren, ganzen Individualität”, die doch nicht von der Beziehung auf die “Gattung” frei wird; Andere bei dem “Geiste”, welcher gleichfalls eine Bestimmtheit ist, nicht die völlige Bestimmungslosigkeit. Im “Einzigen” nur scheint diese Bestimmungslosigkeit erreicht zu sein, weil er als der gemeinte Einzige gegeben wird, weil, wenn man ihn als Begriff, d. h. als Ausgesprochenes, faßt, er als gänzlich leer, als bestimmungsloser Name erscheint, und somit auf seinen Inhalt außerhalb oder jenseits des Begriffes hinweist. Fixirt man ihn als Begriff – und das thun die Gegner – so muß man eine Definition desselben zu geben suchen und wird dadurch nothwendig auf etwas Anderes kommen, als auf das Gemeinte; man wird ihn von anderen Begriffen unterscheiden und z. B. als das “allein vollkommene Individuum” auffassen, wodurch es dann leicht wird, seinen Unsinn darzuthun. Kannst Du Dich aber definiren, bist Du ein Begriff?»; « Die Einen beruhigten sich bei der “wahren, ganzen Individualität”, die doch nicht von der Beziehung auf die “Gattung” frei wird; Andere bei dem “Geiste”, welcher gleichfalls eine Bestimmtheit ist, nicht die völlige Bestimmungslosigkeit. Im “Einzigen” nur scheint diese Bestimmungslosigkeit erreicht zu sein, weil er als der gemeinte Einzige gegeben wird, weil, wenn man ihn als Begriff, d. h. als Ausgesprochenes, faßt, er als gänzlich leer, als bestimmungsloser Name erscheint, und somit auf seinen Inhalt außerhalb oder jenseits des Begriffes hinweist. Fixirt man ihn als Begriff – und das thun die Gegner – so muß man eine Definition desselben zu geben suchen und wird dadurch nothwendig auf etwas Anderes kommen, als auf das Gemeinte; man wird ihn von anderen Begriffen unterscheiden und z. B. als das “allein vollkommene Individuum” auffassen, wodurch es dann leicht wird, seinen Unsinn darzuthun. Kannst Du Dich aber definiren, bist Du ein Begriff? »; « Es ist, indem Du der Inhalt des Einzigen bist, an einen eigenen Inhalt des Einzigen, d. h. an einen Begriffsinhalt nicht mehr zu denken ».
Nell’Unico e la sua proprietà Stirner mostrò come il cristianesimo aveva realizzato il concetto di uomo, trasformandolo in un essere “santo”, dal momento che dentro di lui albergava il divino; l’uomo era dunque eterno, e rappresentava la realizzazione di quella che era l’idea cristiana, esposta tra l’altro nell’opera del Feuerbach.
Nell’ultimo capitolo del Der Einzige Stirner affronta una problematica di capitale importanza, il dualismo tra il reale e l’ideale. Il pensiero dominante del tempo era la filosofia hegeliana che dettava le leggi del superamento di questi due termini nella sintesi; ma Stirner si pone contro questa tesi, rivolgendo la sua critica soprattutto al pensiero cristiano, tra i cui esponenti venivano annoverati pensatori quali appunto Hegel e Feuerbach.
Stirner scrive: «Der Gegensatz des Realen und Idealen ist ein unversöhnlicher, und es kann das eine niemals das andere werden: würde das Ideale zum Realen, so wäre es eben nicht mehr das Ideale, und würde das Reale zum Idealen, so wäre allein das Ideale, das Reale aber gar nicht. Der Gegensatz beider ist nicht anders zu überwinden, als wenn man beide vernichtet. Nur in diesem «man», dem Dritten, findet der Gegensatz sein Ende; sonst aber decken Idee und Realität sich nimmermehr. Die Idee kann nicht so realisiert werden, daß sie Idee bliebe, sondern nur, wenn sie als Idee stirbt, und ebenso verhält es sich mit dem Realen ».
Spezzare la tradizione cristiana per Stirner vuol dire rimettere in discussione tutto un mondo già costituito e la missione che l’individuo si è trovato davanti, che per gli antichi era realizzare il regno di Dio, per i moderni è, invece, realizzare lo sviluppo della storia dell’umanità. Tale è la missione dell’uomo, del Dio incarnato e della religione moderna. Ma avverte Stirner: «Das Ideal «der Mensch» ist realisiert, wenn die christliche Anschauung umschlägt in den Satz: «Ich, dieser Einzige, bin der Mensch». Die Begriffsfrage: «was ist der Mensch?» – hat sich dann in die persönliche umgesetzt: «wer ist der Mensch?» Bei «was» suchte man den Begriff, um ihn zu realisieren; bei «wer» ist’s überhaupt keine Frage mehr, sondern die Ant[412]wort im Fragenden gleich persönlich vorhanden: die Frage beantwortet sich von selbst ».
Mi permetto a questo punto di presentare una mia riflessione: per Stirner l’unico è l’individuo che vive qui ed ora, e non esiste predicato che possa esaurire questo suo stato di esistenza, poiché ogni concetto è ideale, mentre il singolo è reale. Penzo ha posto in luce la differenza tra l’autentico, in quanto “proprio” e l’inautentico, in quanto altro dall’io, come la santità, la fissazione e l’ossesso, realtà costituite da una dimensione inautentica come quella dello stato e della chiesa.
Ancor di più egli pone in rilievo precisamente la condizione del predicato, ovvero lo sforzo del pensiero stirneriano di eliminare qualsiasi tipo di predicato, posizione tipica di un nominalista, e soprattutto di Stirner che è il più nominalista tra tutti; in questo stesso contesto scrive anche che eliminare il predicato è come eliminare, o meglio, rigettare tutta la metafisica occidentale, la quale si fonda appunto sulla differenza tra il soggetto e il suo predicato.
A mio parere è indicativa in quest’ambito, la riflessione stirneriana sul linguaggio, in quanto Stirner classifica il linguaggio essenzialmente come linguaggio cristiano, religioso, mostrando come certi termini abbiano ricevuto un significato negativo proprio da questa matrice religiosa. Il linguaggio è un costrutto e come tale anch’esso è statico, dunque il suo sviluppo è da considerarsi, a mio avviso, soltanto formale, visto che riguarda lo sviluppo di una lingua o di determinati termini, mentre i contenuti che essi possono veicolare restano pur sempre invariati.
Ma perché Stirner nelle risposte ai critici scrive che quello che lui scrive non è quello che sostiene (meinen)? E perché quello che pensa è indicibile? Cos’è che in realtà pensa?.
Certo, l’esistenza è priva di concetto, e per questo credo che vale quanto ho scritto nelle pagine di cui sopra. Ma non si potrebbe supporre altro nel suo pensiero?
Non sapendo rispondere a questa domanda ho creduto opportuno accostarmi al mondo letterario, ed ho osservato che in un certo senso questa inadeguatezza del linguaggio era stata notata sia da Dante Alighieri che da Giacomo Leopardi.
Beninteso, questa similitudine vuole porre in evidenza l’incomunicabilità di un’esperienza o di una consapevolezza, a livello di coscienza, che l’individuo nella sua esistenza ha la possibilità di compiere, e nient’altro. Si tratta di un’esperienza o di una consapevolezza che prescinde totalmente dalla quotidianità, e che si presenta, a mio avviso, allorché ci si rapporti a Dio o a sé stessi. Significative sono le posizioni del nostro filosofo e dei due poeti succitati con i loro rispettivi terreni di indicibilità. Dio, l’Amore e il Singolo sono rispettivamente per Dante, Leopardi e Stirner gli ambiti dell’indefinibile.
L’indicibilità è intraducibilità, ma soprattutto essa è per il soggetto l’occasione autentica, che non è sottoposta a leggi e non ha bisogno di essere ragionata, dal momento che è intuizione e non concetto. Soltanto il centro fondamentale del pensiero su cui si reggono tutte le altre riflessioni è indicibile, esso si presenta come nucleo fondante. Nell’ultimo canto del paradiso, trovatosi dinanzi a Dio, Dante non riuscì a descriverlo; alla fine del suo viaggio la parola divenne insufficiente, ed egli, maestro della lingua, scrisse: Oh quanto è corto il dire e come fioco/ al mio concetto!
E questo, a quel ch’i’ vidi, / e tanto, che non basta a dicer « poco ». Allo stesso modo il Leopardi non poté esprimere l’amore che risiedeva nel suo cuore per la scomparsa Silvia, e scrisse: Lingua mortal non dice/ quel ch’io sentiva in seno. Dio che è infinito e meraviglioso è per Dante impossibile da tradurre in termini di linguaggio, in quanto il linguaggio non è adatto a questo contenuto; parimenti l’amore che il Leopardi provava è inesprimibile, pressoché indefinibile per ampiezza e profondità, in quanto è sinonimo di vita.
Ebbene, è l’esistenza concreta che per Stirner è indicibile, dal momento che essa è viva, in costante movimento e sviluppo, e non appartiene alla schiera dei concetti, i quali possono essere espressi adeguatamente tramite il linguaggio. Ma ancor più inesprimibile è la consapevolezza della propria esistenza e delle proprie possibilità, così come e l’appartenenza a sé stessi. E’ da tutta questa consapevolezza che deriva, a mio avviso, quella connessione tra i termini unico e proprietà. L’unico è quell’individuo che ha raggiunto questa consapevolezza, che ha riposto la sua causa su null’altro che se stesso, liberandosi da una fitta tela di legami che lo immobilizzavano: «Ich bin nur dadurch Ich, daß Ich Mich mache, d. h. daß nicht ein Anderer Mich macht, sondern Ich mein eigen Werk sein muß».
Non è mia intenzione riuscire ad esprimere ciò che non può essere espresso, ma è pur certo che non ci sarebbe ragion di questo modesto scritto, se in realtà il silenzio di Stirner non fosse stato, a mio parere, almeno comprensibile. La comprensione, e di conseguenza il senso, vengono a maturarsi tramite la lettura attenta dell’opera del nostro filosofo, spesso difficoltosa, e non dimenticando mai il contesto storico in cui nacque.
La genealogia dell’opera stirneriana, pur trattando una moltitudine di temi discussi in quel tempo, fa perno sempre sul medesimo punto, ovvero quello del dominio dello stato e della chiesa dell’epoca, un dominio che si presenta sia da un punto di vista psichico, che fisico. Non credo che in Stirner il silenzio sia indice di comprensione e traducibilità, come per quanto riguarda la riflessione heideggeriana, ma ritengo che sia piuttosto indice di riflessione interiore.
La consapevolezza stirneriana è espressa, a mio avviso, in tutta la sua produzione, non solo quella strettamente filosofica, ma anche quella giornalistica, approdando con totale convinzione alla pubblicazione della sua opera maggiore. Il suo pensiero non è riconducibile in senso stretto a quella corrente filosofica denominata esistenzialismo. Stirner affronta tematiche feconde per questa corrente, ma il suo interesse è principalmente la condizione dell’esistenza e non l’esistenza fine a se stessa. L’esistenza non ha bisogno di essere né spiegata né aiutata ad essere, in quanto essendo, l’esistenza già è. Ma sono le sue condizioni che possono essere migliorate e questo punto è forse il lato più problematico della filosofia dell’Unico, in quanto si è soliti attribuire “vuotezza” ad individui che non ritrovano alcuna trascendenza negli uomini e che non accettano quei valori che il sentimento religioso ha creato; valutando negativamente qualsiasi posizione personale, egoistica, si privilegia, in genere, un certo ideale di uguaglianza e di diritto che poi nella vita reale manca. «Stirner e Marx – scrive K. Löwith – filosofano l’uno contro l’altro nello stesso deserto della libertà», ma tra di loro vi fu incomprensione e assenza di dialogo, manifestazione di uno scontro di diverse posizioni di base, ma volto per vie differenti al miglioramento delle condizioni esistenti. L’Empörung stirneriano non parte da una insoddisfazione dei singoli verso le istituzioni, ma da un’insoddisfazione degli uomini verso sé stessi (von der Unzufriedenheit der Menschen mit sich aus); non si tratta, avverte Stirner, di una levata di scudi (eine Schilderhebung), ma di un sollevamento (Erhebung) dei singoli, cioè un emergere ribellandosi – sollevandosi (ein Emporkommen).
E’ indubbio che l’Empörung e la Verein sono i capisaldi della sua filosofia, in quanto sono i punti d’approdo della proposta del nostro filosofo. Centrale in quest’ambito è anche la politica, ma essa poggia su di una premessa particolare che fa di Stirner un esistenzialista caratteristico. L’ordinamento sociale che permette ad una moltitudine di persone di vivere insieme è lo stato, ma come abbiamo già detto, la staticità delle forme statali che si erge al di sopra dell’individuo, tentando di dominarlo, è un obiettivo che Stirner vuole abbattere. Ebbene, a mio avviso, vi è un legame intrinseco tra l’individuo e l’associazione o unione. Quest’ultima si presenta, infatti, come l’assetto sociale più vicino alla condizione dell’individuo unico, giacché egli, essendo principalmente un essere caduco, crea condizioni parzialmente durevoli - giammai a parere di Stirner condizioni eterne.
Anche se, tramite il presente scritto, ho cercato di porre in luce il legame che a mio avviso esiste nel pensiero stirneriano tra l’indicibilità e l’esistenza e la relativa riflessione sul linguaggio, è in ogni caso indispensabile giungere fino alla teorizzazione della Verein. In questo senso anche le dissertazioni stirneriane ricevono particolare importanza allorquando l’intento stirneriano si esplica tramite le sue successive opere. Proprio grazie a questa concatenanza il suo pensiero si mostra e nel mostrarsi credo che abbia sempre qualcosa da avere, da aggiungere; l’intera opera di Stirner non vuole essere letta in forma passiva, essa stuzzica il lettore e man mano che le parole aumentano il suo pensiero si presenta sempre più forte, aumentano vertiginosamente i concetti e, di conseguenza, il lettore è indotto ad una riflessione personale, riflessione beninteso non astratta, non sull’ontologia dell’essere, ma concentrata sulla sua situazione esistenziale come individuo isolato che è sempre vissuto in una società, dal momento che la sua condizione esistenziale è intrinsecamente legata a quella sociale.
Ma ritornando all’oggetto del presente scritto, ossia l’esistenza e l’indicibilità dell’Unico, credo opportuno soffermarmi ora sul concetto di esistenza. Nel principio del presente scritto ho posto in relazione Stirner con gli esponenti del pensiero esistenziale, esprimendo l’idea che in esso si possono ritrovare delle considerazioni che sono state alla base dell’esistenzialismo del novecento. Un punto fondamentale del pensiero stirneriano richiama una “caratteristica” della filosofia esistenzialista, presente, in particolare, nelle figure di Heidegger e di Sartre. La vicinanza di tematiche trattate ovviamente in modo differente da Stirner e da Heidegger è stata rilevata grazie all’intuizione di Penzo, che mette in luce tale “rapporto” tramite dei passi tratti dalle loro opere maggiori. Sia Stirner che Heidegger non fanno alcuna differenza tra l’esistenza e l’essenza, anzi entrambi sostengono che la vera essenza dell’uomo è la sua esistenza: «Dagegen Eigenheit, das ist mein ganzes Wesen und Dasein, das bin Ich selbst». Per quanto riguarda il pensiero heideggeriano si può leggere: « L’essenza dell’Esserci consiste nella sua esistenza. [...] Questi due caratteri dell’Esserci, il primato dell’exsistentia, e l’esser-sempre-mio, bastano a far vedere che un’analitica di questo ente si trova innanzi a un campo fenomenico del tutto particolare », « Se l’esistenza determina l’essere dell’Esserci e se la sua essenza è costituita da un poter-essere, ne viene che l’Esserci, potendo-essere fin che esiste, ha sempre ancora qualcosa da essere ».
Ma è soprattutto Sartre che pone l’accento sulla questione, anche perché, rispetto a Heidegger, la sua filosofia è incentrata sulla dimensione puramente esistenziale: « In termini filosofici, ogni oggetto ha un'essenza e un'esistenza.
Un'essenza, cioè un assieme costante di proprietà; un'esistenza, cioè una certa presenza effettiva nel mondo. Molti credono che prima venga l'essenza e poi l'esistenza.[...] Tale idea trova la sua origine nel pensiero religioso [...] E per tutti coloro i quali credono che Dio crei gli uomini, bisogna pure ch'egli l'abbia fatto riferendosi all'idea che aveva di loro. Ma anche quelli che non hanno la fede hanno conservato l'opinione tradizionale secondo cui l'oggetto non esisteva mai se non in conformità con la sua essenza; e l'intero XVIII secolo ha pensato che vi era un'essenza comune per tutti gli uomini, chiamata natura umana. L'esistenzialismo reputa, al contrario, che nell'uomo, e solo nell'uomo, l'esistenza precede l'essenza. Ciò significa semplicemente che l'uomo anzitutto è e che poi è questo o quello. L'uomo deve crearsi la propria essenza ».
Queste posizioni sembrano trovare la loro fonte principale in Hegel, filosofo che indubbiamente ha influito su tutti i pensatori sia a lui contemporanei che posteriori. Maestro di Stirner, Hegel volle presentare la sua posizione intorno ad un tema tanto dibattuto dalla scolastica, ossia la differenza ontologica dell’essenza dall’esistenza. La concezione hegeliana dell’esistenza “superava” sia la distinzione aristotelica tra atto e potenza, sia quella tomistica tra essere e atto d’essere, in cui l’esistenza era considerata come actus essendi; in Hegel, infatti, la distinzione ontologica tra essenza ed esistenza veniva colmata dallo spirito in quanto processo, e nella Scienza della logica si trova una delle prime formulazioni di questo concetto: « Così l’esistenza non è quindi da prendersi quasi un predicato o quasi una determinazione dell’essenza, in modo di poter dire la proposizione: L’essenza esiste, ossia ha esistenza; ma l’essenza è passata nell’esistenza; questa è la sua assoluta estrinsecazione, al di là della quale l’essenza non è rimasta. La proposizione dunque sarebbe: L’essenza è l’esistenza; essa non è diversa dalla sua esistenza ».
Secondo Hegel, quindi, il predicato dell’essenza e quello dell’esistenza convergono nella sintesi, ossia nell’individuo vivente; la distinzione è tolta e il mediato (il processo) è diventato immediato. Cartesio, infatti, fu contestato proprio per come faceva realizzare l’esistenza soltanto attraverso il pensiero (Cogito ergo sum), anteponendo il cogito al sum, come mostra Heidegger in Essere e Tempo. E se Heidegger vuole approfondire la dimensione ontologica del sum attraverso un’analitica esistenziale, per mettere a fuoco l’occultamento dell’Essere fatto dalla filosofia scolastica e moderna a vantaggio dell’Ente, Stirner, dal canto suo, non mostra interesse verso la problematica posta dalle meditazioni cartesiane, ma vede in Cartesio un pensatore cristiano che fonda tutto sullo spirito, sul pensiero: «Das dubitare des Cartesius enthält den entschiedenen Ausspruch, daß nur das cogitare, das Denken, der Geist – sei. [...] Nur das Vernünftige ist, nur der Geist ist! Dies ist das Prinzip der neueren Philosophie, das echt christliche. [...] Cartesius’ cogito, ergo sum hat den Sinn: Man lebt nur, wenn man denkt. Denkendes Leben heißt: «geistiges Leben»! Es lebt nur der Geist, sein Leben ist das wahre Leben.».
Heidegger e Stirner si soffermano sullo stesso punto, quello riguardante il “sum”. Beninteso, Heidegger cerca attraverso la filosofia, che per lui è ontologia, l’Essere e il suo senso, ed è costretto a rivolgersi all’uomo, “l’Esser-Ci” per indagare sul proprio senso, dal momento che l’Esser-Ci ex-siste in quanto progetto di se stesso, come essere di volta-in-volta, non come semplice presenza, come l’ente (oggetto); solo l’Esser-Ci, per Heidegger, è in grado di indagare angosciosamente circa il suo senso.
Più volte abbiamo posto in luce l’importanza della consapevolezza nel pensiero stirneriano dell’unicità dell’individuo. Per demolire la schiavitù in cui l’individuo è caduto ad opera del regno dei pensieri “divini” e “morali”, l’Unico stirneriano si richiama “al senso del suo essere” irripetibile nella sua esistenza, passando da uno stato inautentico, dove manca quell’autodeterminazione individuale, al riconoscimento da parte del singolo della sua unicità e quindi alla dimensione autentica propria dell’Unico stirneriano; mantenendo la differenza tra questi due pensatori, ci sembra che l’Esserci heideggeriano e l’Unico stirneriano condividano sia il passaggio da uno stato inautentico ad uno autentico, sia la consapevolezza che la vera essenza dell’uomo è la sua esistenza. L’Esserci, infatti, vive “innanzitutto e per lo più” nella “quotidianità media”, poiché il rapporto col mondo in generale è essenzialmente deiezione, e raggiunge la dimensione autentica soltanto nel momento in cui questo andare verso la dimensione autentica è spinto dalla “voce della coscienza” che lo porta a liberarsi dalla dimensione del “Si” impersonale, riconquistando la sua autenticità: « L’apertura dell’Esserci implicita nel voler-aver-coscienza è quindi costituita dalla situazione emotiva dell’angoscia, dalla comprensione come autoprogettarsi nell’esser-colpevole più proprio, e dal discorso come silenzio. L’apertura autentica, attestata nell’Esserci stesso dalla sua coscienza, cioè il tacito ed angoscioso autoprogettarsi nel più proprio esser colpevole, è ciò che chiamo decisione ».
L’Esserci tramite la situazione emotiva e la comprensione si scoprirà colpevole della sua “nullità”, ovvero della sua mancanza di fondamento, ma proprio in virtù di questo si comprenderà la temporalità come orizzonte dell’Essere. Le ultime frasi dell’Unico e la sua proprietà mostrano proprio che l’esistenza è la temporalità dell’unico, siccome senza l’esistenza non esiste unico: «Jedes höhere Wesen über Mir, sei es Gott, sei es der Mensch, schwächt das Gefühl meiner Einzigkeit und erbleicht erst vor der Sonne dieses Bewußtseins. Stell’ Ich auf Mich, den Einzigen, meine Sache, dann steht sie auf dem Vergänglichen, dem sterblichen Schöpfer seiner, der sich selbst verzehrt, und Ich darf sagen: Ich hab’ mein’ Sach’ auf Nichts gestellt».

L’unico e l’Esserci, quindi, giungono all’autenticità (Eigentlichkeit), ricordando lo stesso Heidegger, che insiste sul fatto che questa espressione vada presa nel suo rigoroso significato etimologico: ciò che è proprio (eigen-), termine d’altro canto fondamentale nella filosofia dell’Unico. Crediamo che in entrambi i casi non sia un prendere, ma un riprendere “una posizione” tolta da tutto ciò che tende a generalizzare l’esistenza singola. Bonanno fa notare come in questi due pensatori la tematica della morte e quella del silenzio si intreccino, ponendo in questi termini le basi per un discorso esistenziale.

Renato D’Ambrosio

LE DUE TATTICHE DELL' ANARCHISMO:

RICOSTRUIRE O DISTRUGGERE



Dal 1914 al 1922, in questi terribili otto anni di grandiosi e tragici eventi, l'umanità ha vissuto quanto un secolo. Ha conosciuto tutte le tragedie. Ha fatto tutte le esperienze. Ha vissuto la cannibalesca grande guerra. Ha visto aprirsi l'era della rivoluzione mondiale, che si concluderà — dopo una lunga e aspra epoca storica — o nel mutamento dell'ordinamento sociale, o nella caduta della civilizzazione europea nella barbarie.
Il problema peculiare e immanente e urgente dell'umanità è questo, secondo me: o l'umanità si sbarazza delle soprastrutture statali, o lo Stato soffoca e uccide l'umanità.
Per chi bene osservi, la causa della crisi profonda, che travaglia e squassa la civilizzazione dalle fondamenta, è nella crisi del principio di Stato.
O l'umanità, con uno sforzo pertinace, titanico, atterra e abbatte questi "compartimenti stagni" e raggiunge l'unità dell'economia mondiale, o soccomberà, soffocata.
Non quindi nelle dittature borghesi od operaie è la soluzione; ma in un regime economico di produttori gestenti la produzione per soddisfare i bisogni dei produttori stessi, in cui i mezzi di produzione siano a libera disposizione di tutti. Un siffatto ordinamento a economia associata e razionale non può esser coronato che da una soprastruttura politica libertaria; cioè da comuni autonomi e indipendenti, ma associati da contrattazioni liberamente consentite.
È una mia idea fissa, questa: o le società umane spezzeranno e supereranno l'organizzazione di esse per mezzo della violenza statale, o esse periranno, infrangendosi sugli scogli degli Stati accentratori, burocratici e militaristi.
È sintomatico il fatto generale che tutti gli Stati del mondo si irrigidiscono in forme dittatoriali, e soffocano le società umane minacciandole di morte. È sempre più visibile questo fatto patologico: l'ipertrofia dello Stato determinante l'atrofia della società umana.
Di modo che il compito più concreto e reale degli anarchici dorrebbe essere di insistere su questa crisi fondamentale della civilizzazione capitalista: sulla crisi degli Stati e sull'avvento dell'anarchismo come via unica d'uscita.
Ho insistito a bella posta su questa questione perché taluni nostri compagni, presi e preoccupati e travolti dalle soluzioni immediate, vanno affermando che l'anarchismo, date le idee delle attuali popolazioni, è un ideale lontano. Quindi che occorra realizzare, costruire, con una «rivoluzione purchessia», fatta d'accordo cogli elementi affini. Poco importa se dalla padella si cascherà nelle brace; e se, per non fare «il gioco della borghesia», si faccia il gioco dei partiti affini.
Perché oggi chi non rincorra la chimera delle realizzazioni, o soluzioni, o costruzioni immediate, e voglia procedere sulle vie impervie ma diritte della rivoluzione anarchica, fa il gioco della borghesia!
Errico Malatesta così scriveva su Umanità Nova del 14 ottobre 1922: «È stata spesso ripetuta la frase: La rivoluzione sarà anarchica, o non sarà. L'affermazione può sembrare molto "rivoluzionaria", molto "anarchica", ma in realtà è una sciocchezza, quando non è un mezzo peggiore dello stesso riformismo per paralizzare le buone volontà ed indurre la gente a star tranquilla, a sopportare in pace il presente, aspettando il paradiso futuro».
E dire che da molti anni gli anarchici hanno sempre creduto di dover lavorare alla costituzione dei nuclei dinamici anarchici per predicare e agire unicamente a determinare una corrente di volontà verso la soluzione anarchica; la sola, secondo me, adeguata a risolvere la tremenda crisi da cui è dilaniata l'umanità.
Solo coll'anarchismo l'umanità potrà aprire un nuovo ciclo vitale. L'anarchismo avanti tutto, dunque. La rivoluzione sino in fondo!
 
— Quale il compito degli anarchici? — Ricostruire o distruggere?
È notorio a tutti gli anarchici intelligenti, a tutti gli spiriti critici che vi sono due tattiche, due concezioni del compito degli anarchici nell'era storica: quella che chiameremo contingentista e ricostruttrice è incarnata da Errico Malatesta; l'altra, quella che definiremo integralista e demolitrice, è rappresentata da Luigi Galleani.
Queste due tattiche fondamentali dell'anarchismo si son trovate faccia a faccia con gli avvenimenti grandiosi nel biennio 19-20, cioè nel periodo rivoluzionario apertosi in Italia subito dopo l'armistizio. Ed esse hanno subito la prova sperimentale del fuoco.
Peccato davvero che, grazie all'esistenza d'un grosso volgo sovversivo, dovuto all'inversione sindacalista, solo pochi abbiano seguito il dialogo tra le due tattiche, avvenuto in modo elevato e impersonale tra Torino e Milano: tra Cronaca Sovversiva e Umanità Nova, tra Galleani e Malatesta.
La tesi di Malatesta era: «Essendo noi pochini, e non potendo da soli determinare un movimento, o iniziarlo, occorreva il fronte unico coi partiti autoritari affini per far insieme la rivoluzione».
Data la situazione rivoluzionaria acutissima, questa tesi aveva il torto capitale di non dare alcuna importanza agli avvenimenti improvvisi, al loro corso, agli scatti delle folle e all'imprevisto, e di illudere e di illudersi sui sentimenti e volontà rivoluzionari dei D'Aragona e dei Serrati, peggio, dei partiti autoritari di governo, antirivoluzionari per natura e definizione.
La tesi di Luigi Galleani era quella «di essere e di operare da anarchici, semplicemente e puramente, sempre: avanti, durante e dopo la rivoluzione». Tesi integralista, che si occupa e si preoccupa, avanti tutto, di procedere diritti, contro corrente, contro le autorità vecchie e nuove, per le vie aspre, ma diritte, dell'anarchismo. Era la tattica della intransigenza pura e semplice, sino all'avvento dell'anarchismo. «Bisogna restare in rivoluzione in permanenza, a traverso tutto il ciclo storico per costruire l'anarchismo, sopratutto col preparare le condizioni obiettive distruggendo».
Luigi Galleani contava, avanti tutto, nella pressione degli avvenimenti, sugli impeti rivoltosi e generosi delle folle, della canaglia, in talune ore decisive della storia; e sull'imprevisto. Era per la rivoluzione sino in fondo! E alle perorazioni pel fronte unico di Malatesta, rispondeva: «Il fronte unico che è giù tra le folle anelito vivo, come è fra le probabilità meno controverse del domani, perde però ogni credito man mano che si sale verso l'Olimpo, e muove come sterile utopia fra le diffidenze, le invidiuzze e le acerbe competizioni dei semidei della rivoluzione». E concludeva: «nei grandi cimenti storici sono tutte con noi le folle anonime e inorganizzabili».
E contestava agli organizzatori il diritto di rappresentarle, di parlare in nome di esse nei loro congressi, cioè la loro auto-investitura.
Infatti, si può dire che il congresso di Bologna del 1920, oltre che dare un programma e unostatuto all'U.A.I., sia stato il congresso della ricostruzione, alla vigilia della rivoluzione.
Coi sindacati e coi consigli di fabbrica, gli anarchici ricostruttori gettavano i piani di ricostruzione per l'indomani della rivoluzione che, allora, tutti credevano imminente.
L'ossessione della ricostruzione era così grande che... dimenticammo di occuparci della sua pregiudiziale: la distruzione!
Errico Malatesta scriveva: «Noi non avremo vinto se non in quanto riusciremo a ricostruire e solo fino al punto al quale arriverà la nostra capacità ricostruttiva».
Confesso la mia beata ignoranza in codesta questione della ricostruzione.
Dato che il Malatesta asserisce che «né il comunismo, né l'anarchismo si impongono per forza (ciò che è vero); che perché le masse non sono ancora anarchiche, non si potrà realizzare l'anarchismo direttamente e immediatamente all'indomani della rivoluzione», io non riesco a capire che cosa potremo «vincere» e «ricostruire» in un regime statalista!
È vero che allora Errico Malatesta, sia nei suoi comizi trionfali, sia nelle sue conferenze,supponeva e attribuiva ai nostri «affini e alleati», ai socialisti, grandi e nobili sentimenti di libertà...
Io mi sono molto meravigliato più volte nel sentirlo dire, rivolto al socialisti: «voi dite di essere amanti della libertà e di volere la libertà. Noi anarchici pure siamo animati dagli stessi sentimenti. Quindi, nella rivoluzione che faremo insieme, noi siamo certi che voi ci garantirete le libertà spirituali e la libertà di esperimentazione, e nella libera gara si vedrà quale programma sarà il migliore...».
Potrebbe darsi benissimo che questa fosse buona tattica per far trionfare la sua politica della concordia e degli accordi col partiti autoritari affini, ma io non ho mai potuto capacitarmi o convincermi delle aspirazioni di libertà nei partiti autoritari di governo. E non dopo il terribile esperimento russo e tedesco, ma da oltre vent'anni.
Ho sempre pensato che, poiché i partiti autoritari classici, borghesi, dal conservatore al democratico, sono condannati dalla storia, il partito più pericoloso, perturbatore, deviatore e dannoso all'emancipazione integrale delle masse lavoratrici e dell'umanità, sia propriamente costituito da tutte le frazioni, nessuna eccettuata, dei partiti socialisti autoritari.
Io ho la chiara visione che, dopo qualche secolo di inaudite lotte, e dopo la... vittoria e l'avventodel socialismo, che non sarà altro che capitalismo di Stato, o forse, anche un sistema misto di proprietà privata e di proprietà di Stato, gli operai si ritroveranno allo stesso punto di partenza. Dovranno ricominciare la lotta per la distruzione dello Stato e per l'anarchismo, il cui ordinamento politico solo consente l'applicazione del comunismo, cioè dell'eguaglianza economica e sociale.
Per questo non capisco che cosa d'anarchico e in qual modo si possa costruire anarchicamente sotto i ferrei regimi sociali dittatoriali e statali.
Ma alla politica degli accordi coi partiti affini e a quella della ricostruzione, ecco qua come rispondeva L. Galleani.
L'importanza del dialogo tra Malatesta e Galleani apparirà in tutta la sua grandiosità, quando si sappia che Galleani si rivolgeva ai congressisti anarchici di Bologna, ammonendoli e tracciando, per tutti gli anarchici, in pochi incisivi e scultorei periodi, la tattica dell'anarchismo integralistia e autonomo, nell'era storica.
Perché vi facciate un'opinione di quanto "l'inversione sindacalista" abbia deformato e inquinato il concetto integralista e autonomo dell'anarchismo e la sua grande, bella e ardua missione, vi dirò che, dopo aver interrogato moltissimi sindacalisti e anarchici, ebbi l'impressione che Galleani era incompreso! Vox clamantis in deserto, o per pochi spiriti critici.
Nessuna meraviglia, del resto, poiché l'anarchismo classico è confuso con la pratica riformista dell'U.S.I.
Di ciò abbiamo tutti peccato, perché avevamo paura di aprire il fuoco per non vederci accusati di fare il gioco della borghesia.
Ecco qua dunque le formidabili argomentazioni di Luigi Galleani:
«La prossima rivoluzione che dovrà sovvertire dalle fondamenta, nelle sue basi economiche, nei basistici privilegi di classe l'infame ordine sociale, non durerà dunque che "dal sabato al lunedì" in cui i consigli di fabbrica accorreranno per adagiare su le vecchie fondamenta la casa nuova che avranno arbitrariamente costrutta pei redenti cittadini dell'ordine novo?
Non ci fate piangere!
La rivoluzione del 1789, la quale non investì che l'opera morta, che l'involucro esteriore dell'antico regime, non ha dopo centotrent'anni realizzato fino ad ora i postulati della Dichiarazione dei Diritti: i nostri buoni "cittadini" sono sempre a comizio per reclamare il suffragio universale.
Interpretata dai filosofi, da Giambattista Vico o da Giuseppe Ferrari, la storia affida a ciascuna generazione la sua parte del compito rinnovatore. La generazione critica è superata? Ed è la volta allora della generazione che del vecchio, dell'irrazionale, dell'iniquo, deve iniziare la demolizione. È la nostra. Non vorrà, speriamo, eluderlo ipotecando la funzione ricostruttiva dei nipoti.
Distruggere deve! Scavare la fossa al passato, abbattere dell'ordine borghese ogni vestigia, sgombrare il terreno ai figli che, liberi, potranno soli riedificare la libera città dell'eguaglianza e della pace, della giustizia e dell'amore che è il nostro sogno, che sarà il loro orgoglio e la loro gioia».
Ricostruire e distruggere sono due fasi, o due momenti, o due aspetti d'un medesimo fenomeno di quel vasto, profondo e aspro processo rinnovatore e distruttore, che riempirà di sé tutto un evo storico.
La fase demolitrice è sorpassata? Dalla risposta che si darà a questa domanda si sarà determinata la tattica anarchica.
Ma gli anarchici paiono colti da impazienza; vogliono precorrere i tempi, saltarli, cancellarli, se è possibile.
Mal si adattano al tremendo compito anarchico di demolitori. Abbiamo creato dei partiti anarchici. Abbiamo irreggimentato. Le fila si sono ingrossate; furono gonfiate e stamburate anche ad arte, a puro scopo di concorrenza. Abbiamo fatto delle promesse; parlato di realizzazioni, di costruzioni. C'è pure fra mezzo a noi un volgo anarchico e sindacalista. Esso vuole sentir parlare di realizzazioni immediate. L'avvento dell'anarchismo è cosa di là da venire Non attrae, non seduce, non piace, non c'è soddisfazione a lavorare per i secoli futuri, contro tutti e contro tutto. È da matti procedere contro corrente. Si vuole sapere che cosa possiamo dare e fare all'indomani della rivoluzione, che cosa sappiamo costruire.
A forza di promettere il millennio, di raccontar mirabilia sulle nostre capacità di liberazione, di salvazione e di ricostruzione, ci siamo creati in un modo così involontario e inavvertito una specie di obbligo morale di salvare gli operai da tutti i mali cascati loro addosso.
Mi è rimasta impressa questa frase scritta da uno dei migliori anarchici dell'U.A.I. su Il Risveglio: «Persino L'Avvenire Anarchico non sa indicare un mezzo per liberarci dalla reazione». È tutto dire! La rivoluzione sino in fondo non è compresa.
 
La politica contingentista e ricostruttrice, sia del fronte unico che dei consigli di fabbrica, come organi di ricostruzione, nel cimento degli avvenimenti e della prova sperimentale del fuoco, ha segnato un completo e clamoroso fallimento.
Ecco quanto, ad esperienza vissuta, lo stesso E. Malatesta riconosceva su U.N. nel suo articolo “Il compito nell'ora presente”:
«Quando tornai In Italia, nelle circostanze che tutti conoscono, la rivoluzione era all'ordine del giorno.
Noi eravamo troppo poco numerosi per potere, con qualche probabilità di successo, prendere da soli l'iniziativa dell'azione. Perciò io fui tra i più caldi fautori del "fronte unico" che fu uno sforzo per trascinare all'azione coloro che avendo promesso la rivoluzione, gli uni per scopi sporcamente elettorali, gli altri per un transitorio entusiasmo provocato dai fatti di Russia, non potevano decentemente confessare che essi la rivoluzione non la volevano perché, a non parlare che delle ragioni oneste, non la credevano possibile.
I fatti mi han dato torto.
Noi dicemmo parole dure, gridammo al tradimento.
Ma se guardiamo il fondo delle cose, se consideriamo il tipo di organizzazione adottato dai socialisti ed il personale che costituisce la loro classe dirigente, e principalmente la maniera come essi concepiscono il divenire rivoluzionario, allora dovremo convenire che non furono essi i traditori, ma noi gl'ingenui.
Fare degli anarchici, metterci in grado di poter dare alla preparazione rivoluzionaria ed al fatto rivoluzionario l'impronta nostra, ecco il compito nostro attuale...».
 
Parole e verità tattiche che possiamo sottoscrivere a due mani. Certo, Malatesta scriveva sotto l'amarezza della dura e tremenda esperienza fatta. Ma, poco dopo, per liberarsi dalla reazione, il suo contingentalismo lo faceva ricadere nelle intese coi partiti affini, che scontava ancor più amaramente.
E a Saint'Irmier, nei riguardi dei sindacati e dei consigli di fabbrica, in relazione all'illusione ricostruttrice, così si esprimeva lo stesso Malatesta: «Ogni organizzazione sindacale sviluppandosi tende a diventare reazionaria. I sindacati, deboli all'inizio, ad andatura più o meno rivoluzionaria, aumentando i loro effettivi e i loro fondi, aumentando la possibilità d'imporre il sindacato obbligatorio, cercano di adattarsi, piuttosto che di trasformare le istituzioni economiche».
E sui consigli di fabbrica: «L'importanza dei consigli di fabbrica sarà grande una volta scoppiata la rivoluzione, ma attualmente servono sopratutto al padronato per mantenere la disciplina».
Di modo che la tattica integralista e demolitrice, perseguita e applicata da L. Galleani, esce così consacrata dagli avvenimenti stessi.
 
Ho visto che anche qualcuno del vostri ha discusso di queste cose su L'Adunata.
Gli anarchici devono guardar la realtà cruda e nuda, freddamente negli occhi. Essi non devono illudersi né illudere; sopratutto non promettere mirabilia ricostruttrici.
Arduo e immane è il nostro compito. Perché non abbiamo costruito l'anarchia in Russia o... altrove? Non minchioniamoci, o compagni.
Noi siamo appena all'inizio del nostro ciclo storico... Il ciclo della rivoluzione religiosa e il ciclo della rivoluzione politica hanno durato secoli. Il ciclo storico della rivoluzione economica, che sovverte e tocca tanti interessi materiali, durerà l'espace d'un matin?
La scienza sociale — scriveva Bakunin — si forgia nel fuoco delle rivoluzioni.
Le rivoluzioni sono come dei grandi laboratori sperimentali, in cui col sangue di una generazione si sperimenta e si forgia sistemi e ordinamenti di vita nuova e libera che poi una successiva evoluzione progressiva ha il compito di attuare e irradiare.
E la storia, l'osservazione e l'esperienza dimostrano, purtroppo, che le popolazioni non ricavano le regole di vita dalle previsioni teoriche. Ciò è ancor privilegio delle èlites intellettuali e rivoluzionarie. Esse non mutano via, tattica e sistemi che quando ci battono dentro col naso e sanguinano... Quando fanno la esperienza.
Purtroppo, tutto lascia supporre che avverrà così anche colle folle socialiste, ancora tutte in balìa delle superstizioni autoritarie e statali.
Hanno tanto predicato che un governo di uomini-provvidenza è necessario per emanciparle che esse si sono convinte che non sono capaci di fare i loro propri affari da per loro stesse; e hanno abdicato, anzi, stanno abdicando nelle mani di quel salvatori che più promettono loro di essere capaci di salvarle.
Qualcosa di simile abbiamo fatto e stiamo facendo anche noi.
Giorni sono G. Damiani su U.N., commentando lo sfacelo del P.S. si doleva amaramente che «beghe» o «i grimaldelli della diffamazione», cioè della nostra opposizione, impediva a loro di «richiamare le masse». Già, perché col dare loro la tessera dell'U.A.I., esse masse si spogliano taumaturgicamente delle incrostazioni psicologiche delle loro superstizioni autoritarie e governative.
Ah, se non ci fossero le critiche di quel diabolico di Avvenire Anarchico, noi potremmo attirarle a noi.
Ecco una cosa che non dovrebbero più fare, gli anarchici; cioè agitare e stamburare cifre ed effettivi, insomma, l'esteriorità artificiale, gonfia e tronfia, che crolla al primo soffio di tempesta.
Noi non abbiamo mai promesso di realizzare l'anarchia né in un giorno, né in una settimana, né in un mese, né in un anno, né in un secolo.
Per la conquista della libertà, per costruire l'anarchia, l'umanità ci metterà il tempo che dovrà metterci.
La sola cosa importante è di procedere, sin da oggi, per la impervia, ma diritta strada anarchica della rivoluzione sino in fondo.
E senza alcun dubbio gli avvenimenti hanno dimostrato che questa è la via e la tattica buone, incarnate da Galleani. Per angusta ad augusta. Colla tattica intransigente in formazioni coscienti volitive e autonome alla rivoluzione anarchica.
All'avvento dell'anarchia si arriverà a traverso una terribile serie di rivoluzioni, lungo un aspro ciclo storico.
Luigi Galleani, qualche anno fa, così tracciava il compito degli anarchici, nell'era storica, e la concezione della rivoluzione.
«Non è dinnanzi a voi che una forma ed un patto di ricostruzione: "distruggere!", demolire, liberare il terreno dalle scorie e dai detriti del vecchio ordine; distruggere! senza scrupoli, senza pietà, senza riposo, senza paure: distruggere!
Penseranno i venturi, i figli ed i nipoti ad edificare la città nuova e felice, in cui tutti gli aneliti di libertà troveranno la consacrazione, il pensiero libero, il lavoro libero, l'amor libero, la libera integrale educazione dei figli ad ugual presidio della vita e della civiltà.
Distruggere!
Mano alla scure ed al piccone e menate sodo: non c'è altro rimedio!
All'anarchia — intesa come società di liberi e d'eguali — non si passerà così, di punto in bianco. Avrà un'applicazione universale, per dir così, soltanto quando l'umanità tutta si sentirà capace di vivere senza le odierne forme di coercizione. E le rovescerà pel fatto stesso che non le ritiene necessarie, ma dannose. Però se l'anarchia potremo viverla in un lontano domani e la saluteranno certo le generazioni ora nascenti, l'anarchismo noi possiamo e dobbiamo viverlo oggi.
Perché l'anarchismo si propone di determinare la lotta che già esiste oggi latente nel seno della società in senso proficuo agli interessi di tutti, di svegliare lo spirito di ribellione innato nel popolo e spingerlo alla rivolta contro le classi dominanti».
Tattica anarchica che si riassume in due parole sole: essere e operare da anarchici, a traverso tutte le rivoluzioni: avantidurante e dopo, sino all'avvento dell'anarchia che ha da essere realizzato dagli anarchici all'infuori dei compromessi con i partiti autoritari, senza mai allearsi a questi partiti nemici, se non si vuole mancare alla propria missione storica, ciò che, in parte, avvenne durante il periodo rivoluzionario.
Che i grandiosi avvenimenti del biennio 19-20 ci servano almeno di ammaestramento.
Faccia a faccia con gli avvenimenti la tattica contingentista e ricostruttrice si è addimostrata inadeguata, inoperante, utopistica, fallimentare, sì da farsi sfuggire l'attimo rivoluzionario, in quanto la tattica integralista e autonoma si è rivelata adeguata al mezzo e al finedell'anarchismo.
Dalla prova del fuoco degli avvenimenti è uscita più saldamente temprata la tattica fondamentale dell'anarchismo: all'anarchismo, a traverso la rivoluzione sino in fondo, lungo e durante tutto un intero evo storico.
 
 
[L'Adunata dei Refrattari, anno I, n. 18 del 30 dicembre 1922]

martedì 23 luglio 2013

SENZA ORDINI DEL GIORNO



È giorno di tempesta oggi. Temporale nell'atmosfera, burrasca in mare e lotta fra gli uomini. Le nuvole sono gravide di minacciose folgori, i giganteschi marosi urlano il loro tragico mistero, ed i viventi cozzano gli uni contro gli altri con l'avidità degli spiriti insoddisfatti ed insoddisfabili. Eppure ieri il cielo era limpido, il mare tranquillo e gli umani parevano sorridersi in una simpatica comunicazione sentimentale. L'alba veniente, che s'immaginava rosea, portò la bufera, e forse domani porterà accanimento alla battaglia universale. Ma forse riuscirà anche a placare gli elementi con le sue aure dorate senza che noi, minuscoli esseri, si possa alimentare o spegnere con la nostra volontà l'incendio ora divampante.
L'uno è troppo poco e la quantità non ha valore perché non è mai proporzionata alla qualità che dovrebbe avere. L'uno non ha la forza bastevole e la massa manca della volontà di rompere la cappa di piombo che s'appesantisce sull'universo, impedendo al raggio solare di arrivare fino alla terra a portarvi la sua festosità.
Così oggi si parla di sovvertimento, si tendono gli animi in una aspettativa di distruzione e di costruzione ben meditata, tolta dalla bilancia di precisione e comparata. Pare si creda alla possibilità di suonare a proprio piacere l'ora del precipizio evolutivo.
Si vuol che la dimane s'inizi e si chiuda secondo una misurazione creata e voluta dalla sola mente umana e se ne classifica lo spazio e se ne limita, forse, anche il tempo. All'uopo si meditano od escogitano mezzi ed espedienti, si auspicano fatti precisi.
La partenza, è vero, talvolta è facile di combinare e d'istradare; ma l'arrivo?...
La nave che salpa corre veloce verso il porto designato se l'onda e l'aria si mantengono calme; il guaio si è che, di solito, in ogni traversata s'imbatte in una tempesta o in una furia di venti. Allora il veliero arrischia di venire inghiottito dalla voragine od è costretto a cambiare rotta.
È bene che lo spirito umano si tempri all'attività, al pensiero ed alla lotta perché sia preparato a tutte le battaglie, a cogliere le scarse e brevi vittorie ed a consumare le possibili disfatte; ma troppo di frequente si confonde la tempra con la limatura e si smussa la capacità e si spegne la forza che, animata da illusioni, cade di fronte alla cruda realtà. È bene premunirsi contro gli assalti avversari e tenersi pronti ad abbattere gli ostacoli che sorgono sul nostro procelloso cammino, ma è errore legare il proprio pensiero e misurare la propria forza ad una guida o ad una rotta che la sbrigliata fantasia crea. I fatti sorpassano sempre — o sbalzano — le previsioni: l'arma tenuta a portata di mano, la parola che si voleva levare ed il sogno che sì carezzava nell'intimo vengono resi inutili da ciò che l'attimo appressatosi porta con sé.
Gli animatori dello sciopero generale, scoppiato a Milano nel 1904, soffrirono serenamente il loro martiriologio pensando al probabile scatenarsi di altri scioperi più cruenti, più compatti e vasti, ma forse non pensarono — dato il solito procedere del tempo — che dopo appena una quindicina d'anni si sarebbe giunti alla proclamazione dì uno sciopero internazionale, e che si sarebbe giunti ad una tattica assolutamente nuova: «agli scioperi bianchi». Eppure lo sciopero bianco oggi è una forte arma nella lotta di classe. Un anno fa sembrava inattuabile e, forse, molti non la pensavano. Gli eventi hanno sorpassato le previsioni, i fatti hanno portato a realtà neanche supposte. La lotta ha escogitati nuovi metodi ed ha annullati tutti gli accordi precedentemente presi dai lavoratori; gli argini costruiti con tanta meticolosità, onde incanalare la marea proletaria, han ceduto ai colpi ed al dilagare della realtà che sorpassò la comune mentalità umana.
Oggi si pensa all'appressarsi di un grande moto rivoluzionario e si mira alla costituzione deisoviet.
Potrebbe darsi che fra appena qualche settimana i soviet siano già attuati senza che i proletari abbiano sopportata la prova rivoluzionaria. Invece la conquista avrà portato il bisogno di un'altra vittoria.
La vita è sovrana e libera procede. Non vi è rete o masso che la possano imprigionare. La vita vibra al di sopra della volontà umana, e anche all'infuori della nostra consapevolezza.
Gli accordi sono inutili ed i confinamenti catastrofici anche nel campo morale. Gli impegni presi imprigionano sempre un pochino la scapigliatura degli spiriti libertari, costringono ad un adattamento ed abituano alla paura di non essere in numero sufficiente. Invece l'uomo deve avere la piena padronanza della sua unica volontà e la consapevolezza della sua unica forza. Se egli è veramente libero, è preparato a tutte le manifestazioni che le casualità portano ed allora, fra le armi, sceglie la più affilata, e fra le vie la più breve.
Gli anarchici poi, devono sempre cogliere lo spirito degli eventi e ravvivare il fuoco dove esso si spegne.
La borghesia aveva creato un regime, dettate delle leggi e s'illudeva che l'adempimento del dovere ed il rispetto del diritto fossero buoni limiti ai proletari. I proletari invece non s'inchinano più ai comandi e ridono della illusione borghese. I socialisti hanno lanciato un programma, hanno dettato una disciplina, ma la massa non rispetta l'uno e non sottostà all'altra.
Borghesi e direzione del partito socialista si sono fiaccati in uno sforzo di creazione che — per non essere naturale — oggi rimane nullo. Si sono raccolti ad una stazione di partenza, ma la stazione d'arrivo fissata si è perduta causa l'illusione di trovare la strada piana e ben irrotata. Gli uni e l'altra si sentono le redini spezzate nelle mani e brancolano nell'incapacità di orientarsi. Hanno uno scopo fisso loro, ed un governo da rabberciare od un governo nuovo da costituire.
Gli anarchici non hanno che l'assoluta libertà da conquistare. Non hanno programmi da attuare o modalità da far conoscere. Tutto può valere e tutto è permesso purché miri a distruggere od a cancellare le leggi, le autorità, le tradizioni ed i confini.
Libertà: ecco il programma! Libertà, ecco il fine!
A che servono dunque i convegni anarchici, le federazioni e le unioni? Via compagni, confessatelo almeno a voi stessi, se vi vergognate di confessarlo ad altri, che gli ordini del giorno che voterete al prossimo convegno servono a scarabocchiare della carta, e che tutti i vostri accordi servono a farvi sorridere di compiacenza quando vi accorgete di averli dimenticati. Se proprio desideravate di fissare un posto ed una data nei quali convenissero gli anarchici per conoscersi, per stringersi la mano e magari... consumare un pasto insieme, potevate essere più chiari, forse avrei pensato di venirci anch'io. Fra di noi ci sono sempre tipi interessanti che si amerebbe conoscere un po' da vicino. Ci lasceremmo in armonia più di quanto ci teniamo adesso ed a Napoli, a Milano, a Trieste, ecc. porteremmo tutti la nostra porzione di compiacimeuto e riporteremmo la nostra buona volontà di sfogare il prurito, che ci tormenta le mani, appena ci si presenta l'occasione. Ed anche se altri sente la voglia di maneggiare le redini o la frusta, noi saremmo sempre animati dallo spirito di confusione che amiamo portare nella società perché questa rovini più in fretta, e più in fretta si polverizzi la sua carogna.
 
 
[Nichilismo, anno I, n. 6 dal 21 giugno al 5 luglio 1920]

CONTRO IL LINGUAGGIO DELLA MILITANZA


Contro il linguaggio della militanza


Tristemente, negli ultimi anni, fin troppi scritti che provengono dal conflitto sociale sono stati forgiati con un linguaggio rigido, legnoso, un modo di esprimersi stanco, cadaverico, che sembra contraddire l’energia delle rivolte di cui intendono parlare. È il linguaggio della militanza, non della libertà, non dell’individualità che nonostante tutto crea se stessa. Forse questo è dovuto in parte al fatto che molti conflitti odierni sorgono dalla durezza dei tempi; sono la risposta alle attuali realtà sociali, politiche ed economiche. Ma come può una risposta di questo tipo controbattere tali realtà? Il metodo stesso della nostra risposta non dovrebbe riflettere il nostro rifiuto di queste realtà imposte?
La militanza viene confusa con passione e intensità, mentre invece è solo una camicia di forza corazzata che racchiude la nudità di ciascuno, irrigidendo e limitando i movimenti di ognuno. La serietà viene scambiata per risolutezza, mentre invece è l’asservimento all’astratto, al futuro, alla causa, al passato, un altro genere di auto-imprigionamento. E non è precisamente questo che abbiamo bisogno di rifiutare, in maniera decisa, quando lottiamo per rendere le nostre vite propriamente nostre in ogni momento?
Forse il problema è che tanti fra quelli che sono coinvolti nel conflitto sociale non vedono se stessi come liberi individui che creano le proprie vite, che incontrano ostacoli in questo processo auto-creativo e che lottano per distruggere tali ostacoli, ma piuttosto come persone oppresse che resistono alla propria oppressione.
Non è necessario ignorare la realtà dell’oppressione per riconoscere che, quando i nostri progetti diventano resistenza all'oppressione, allora finiamo per concentrarci sul nostro oppressore. Perdiamo le nostre vite, e con esse la capacità di distruggere quanto si erge sulla nostra strada. Poiché la resistenza si focalizza sui progetti del nemico, ci mantiene sulla difensiva ed è garanzia della nostra sconfitta (anche in caso di vittoria) sottraendoci i nostri progetti.
Se, invece, partissimo dai nostri progetti di auto-creazione, insistendo nello spostarci per il mondo come esseri liberi e senza scopi, allora incontreremmo governanti, sfruttatori, sbirri, preti, giudici, ecc, non necessariamente in quanto oppressori, ma come ostacoli sul nostro cammino, da distruggere piuttosto che a cui resistere.
È solo in questo contesto che la distruzione assume il suo significato insorgente, poetico, rivoluzionario, come atto veramente gratuito che sfida la logica del lavoro e apre la realtà al meraviglioso, alla sorpresa. Solo allora la distruzione diventa un'avventura giocosa.

wolfi landstreicher

lunedì 22 luglio 2013

L' ESPROPRAZIONE


L'espropriazione



Fin dalle epoche più remote esistevano uomini — paragonabili agli odierni pescecani — che, servendosi della forza brutale e dell'astuzia, si appropriavano del patrimonio comune.
Se si fossero limitati a ciò, sarebbe stato poco male, in quanto che i danneggiati, adottando i sistemi dei loro predoni, avrebbero potuto, forse, riconquistare i beni perduti, rivalendosi magari sugli altri.
Il vero male sorse invece allorquando detti predoni, per consolidare e aumentare i prodotti del furto, costituirono l'autorità e pretesero di dettar leggi al mondo e precisamente a coloro che erano stati da essi usurpati.
Si ebbero, in tal modo, da una parte i tiranni e dall'altra gli schiavi.
I primi proclamarono solennemente: «La proprietà è frutto del lavoro e del risparmio ed è sacra ed inviolabile». E la difesa dell'ipocrita principio della proprietà sacra e inviolabile venne affidata a tre losche figure che imperano ancora: il gendarme — sinonimo della brutalità e della ferocia —, il prete e il moralista, che personificano la menzogna. 
Contro tale principio insorsero dei filosofi, che sentenziarono: «La proprietà è un furto»; ad essi fecero coro migliaia e migliaia di schiavi auspicanti alla libertà e alla eguaglianza, e che si divisero in scuole e partiti con a capo dei pastori, i quali vanno ripetendo — fino ad addormentare il pubblico per la noia che arrecano — i loro discorsi sui diritti e doveri dei lavoratori, sull'umanitarismo, sull'altruismo, sulla giustizia, sulla solidarietà, sulla fratellanza, sull'eguaglianza, sulla libertà, ecc., ecc., e, come se dovessero costruire un edificio, tracciano il disegno della società futura, fra gli sguardi inebetiti dei poveri e il sorriso ironico dei ricchi.
Codesti discorsi sentimentali sono delle geremiadi, che sembra vogliano convincere i proprietari a rinunciare ai loro beni a vantaggio dell'umanità derelitta. Ma i ricchi sono sordi, non si commuovono e, sopratutto, sono forti, perché dispongono dei gendarmi, dei preti, dei moralisti e dei social riformisti più o meno verniciati di rivoluzionarismo; anzi i ricchi, vedendo che il popolo si contenta di fare dei piagnistei e che si lascia abbindolare dai cattivi pastori, diventano sempre più spavaldi ed aggressivi, e, come se non bastasse loro la violenza delle autorità regie o repubblicane, assoldano delle bande armate per la difesa dei loro capitali.
A me i discorsi piacciono assai poco e tanto meno quelli sentimentali e rettorici; a me non importa sapere se la proprietà sia il prodotto del lavoro o del furto; non faccio considerazioni sul diritto e sulla giustizia, né mi preme di suscitare sentimenti di umanità. Io so che debbo vivere la mia vita più agiatamente e più liberamente che mi è possibile, e cerco ai procurarmi i mezzi all'uopo necessari.
«Il diritto alla vita non si mendica, ma si prende», per cui io dico ai miei compagni: viviamo più anarchicamente che possiamo, senza attendere il ritardatario sol dell'avvenire, che per noi anarchici avrà sempre raggi poco salutari.
La società ci considera giustamente nemici, perciò non cerchiamo nessuna via di riconciliazione, rifiutiamo i mezzi di lotta che essa ci offre — mezzi per le lotte politiche e sindacali — e scegliamo da noi i nostri mezzi, e siano questi adeguati al difficile compito che ci proponiamo, superiori a quelli adottati dal nostro nemico. Accettiamo la sfida e combattiamo senza tregua né quartiere, per conseguire la vittoria subito e non nell'anno duemila.
La forza si abbatte con la forza, la violenza con la violenza, la proprietà con l'espropriazione.
Io do all'espropriazione individuale la massima importanza rivoluzionaria, il più alto significato sovvertitore. Essa significa: ribellione pratica ed efficace contro il sistema di sfruttamento perpetrato dagli oziosi e dai gaudenti a danno dei lavoratori; conquista del diritto alla vita, alla gioia e alla libertà, poiché la società calpesta soltanto i poveri; vendetta contro i detentori della proprietà e contro le istituzioni sociali. Anzi il moltiplicarsi delle espropriazioni individuali costituisce una vera e profonda disgregazione sociale; e il rivoluzionarismo e l'anarchismo — oggi più che mai, di fronte alla tracotanza del partito socialista che pretende d'imporre la sua dittatura — non hanno ragione di essere e di manifestarsi se non come tendenze essenzialmente anti-sociali.
La rivoluzione, per demolire i presenti e futuri organismi di oppressione e di sfruttamento, non si compie a date fisse sulle barricate, bensì si esplica ogni ora, ogni momento nei molteplici assalti contro la società, per opera degli individui spregiudicati e ribelli.
È necessario rovesciare e distruggere tutti i princìpi che sorreggono la società così detta civile; e l'espropriazione dei singoli, mentre da un lato avvelena l'esistenza dei ricchi, che si sentono soffocare sotto il peso delle ricchezze in pericolo, dall'altro mina dalle fondamenta l'edificio sociale e morale.
L'espropriazione individuale sistematica dei ribelli e dei forti, la violazione irriverente dei princìpi dominanti — religiosi, autoritari e morali —, la profanazione iconoclastica di tutto ciò che è ritenuto sacro e inviolabile, costituiscono il fondamento della critica rivoluzionaria ed anarchica, la ragione di essere dell'anarchismo antisocialista.
Per cui noi, essendo anarchici, insorgiamo contro la crociata degli umanitaristi a buon mercato, degli altruisti bottegai, che con impiastri pretendono di guarire la putredine sociale.
Coloro che approvano la rivoluzione e l'espropriazione collettiva — di là da venire — e ripudiano l'espropriazione individuale, anziché dei rivoluzionari sono sacrestani della monarchia. Parlino essi di riformismo — magari antiparlamentare — ma non di rivoluzione e tanto meno di anarchismo.
L'esempio d'azione di Giulio Bonnot — per citare un solo nome — vale, per me, assai più di tutte le predicazioni rivoluzionarie degli anarchici socialisti.
Di ciò convinto, io mi rivolgo, non al gregge che non vuol comprendermi, ma agli uomini dotati di forte volontà, e dico loro: in attesa dell'Apocalisse, compiamo la nostra rivoluzione espropriatrice, per conseguire il nostro benessere e la nostra libertà.
 
Erinne Vivani
 
[Nichilismo, anno I, n. 11 dal 10 al 25 settembre 1920]

BREVIARIO DEL CAOS - sesta ed ultima parte




Il secolo vorrebbe scegliere tutto, ed è per questo che non abbiamo stile, il secolo vorrebbe capire tutto, ed è la ragione per cui non esce più dal labirinto, il secolo vorrebbe perfino umanizzare la massa di perdizione in quanto massa, ed è per questo che andiamo verso la carneficina planetaria. Vogliamo l'impossibile e tra poco non avremo neanche l'ombra del possibile, sbarcheremo sulla luna e quaggiù berremo le nostre deiezioni, domani i nostri figli mangeranno cose ritenute immonde, la vita che ci attende è talmente assurda e talmente orribile che i migliori preferiranno la morte e la follia e il caos all'ordine, un ordine per la morte seconda e la follia perpetua e il caos organizzato. L'ordine futuro sarà di gran lunga il più disumano che mai si sia visto, il più bravo a mentirci e il più infallibile nell'ingannarci, un mostro tiepido e metodicamente informe, misterioso e piatto, sfuggente e dispotico, che divora in continuazione senza cessare di essere inafferrabile. Il peggio è che, dopo averci illusi, non ci impedirà di andare in rovina, giacché se può abusale di noi, esso è altresì la debolezza stessa.

Non eviteremo gli abusi di tale ordine e l'ordine non ci eviterà il caos né la morte, questa è la logica della situazione, e noi avvertiamo che da cinquanta secoli vi eravamo destinati. I peggiori degli esseri umani sono ormai i più incuranti, lo stato delle cose permette loro di irridere i giusti e i santi come gli scienziati e i filosofi, i peggiori degli esseri umani trionfano incontrastati e probabilmente non hanno neppure torto, possono farsi beffe impunemente delle forme che si disgregano e dei valori che si deteriorano, in un disordine dilagante essi possono appoggiarsi all'ordine, possono ergersi al di sopra di tutto nell'ora in cui tutto minaccia di andare a fondo, possono andar fieri di aver scelto il volto buio e di morire vincitori dei giochi, avranno avuto la loro ricompensa. Non c'è più modo di difenderci da loro, essi seguono la corrente che porta al precipizio, e noi invece cerchiamo di risalirla, soli a remare contro il filo dell'acqua, soli a opporci all'ordine e soli a perseverare nel rifiuto di essere, di essere quaggiù strumenti dell'arrendevolezza in mezzo alla massa, vittima delle loro imposture.

Nessuno ci ha detto la verità, la verità non ha più difensori sulla Terra, è troppo difficile da capire, e coloro che la penetrano saranno sempre meno numerosi. Il nostro secolo ha visto la morte delle idee chiare e distinte, noi non ci intendiamo su nulla, a parte i sottintesi, le convenienze e gli interessi, in tutto il resto gli equivoci hanno campo libero. Non ci intendiamo su nulla e nemmeno crediamo più in nulla, per credere a qualcosa, ai giorni nostri, bisogna essere allucinati, tutti i nostri più alti ingegni sono divenuti tragici, ciò dimostra che non hanno più fede. La religione non è che un elemento dell'ordine e, quel che è peggio, di un ordine per il caos e per la morte, coloro che si sforzano di viverla saranno gli eretici di domani e domani l'eresia attesterà la fede ridivenuta sincera, da cento parti stiamo andando verso l'esplosione dei sistemi, poi andremo verso il brulicare delle sette, ma non saremo salvati dal fervore di qualcuno o dalla spontaneità di qualcun altro. E già troppo tardi, siamo entrati nel vortice, non sfuggiremo più a ciò che ci trascina, e sappiamo di essere condannati.

Quando ascolto i nostri sedicenti spirituali propinarci le loro banalità e quando vedo una folla, più di ruminanti che di uomini, prestare orecchio a quelle insulsaggini, mi rendo conto che stiamo diventando stupidi e che meritiamo la sorte a noi riservata. So che tutti questi ruminanti fanno il loro dovere di bestie, tirano l'aratro e montano, muggiscono e figliano, danno allo Stato il loro latte e talvolta la loro carne, ma vorrei che finalmente si decidessero a umanizzarsi e a chiedersi se quello che viene loro insegnato o predicato vale qualcosa. Come può essere che prestino fede, fosse pure solo per abitudine, a un tale cumulo di scempiaggini? Non provano vergogna a essere cosi, non si accorgono che si disonorano e che la cortesia in questo genere di cose altro non è che una dichiarazione di fallimento? Il conforto intellettuale che cercano è ormai introvabile e nessuna tradizione lo assicura loro, soltanto la stupidità è in grado di darcelo. E siamo caduti cosi in basso che i Capi di Stato, a corto di legittimità, sono costretti a mescolarsi con il gregge, recitando la commedia ai ruminanti che portano a pascolare?

Se la gente non sperasse più in nulla e non credesse a nulla, si rifiuterebbe subito di moltiplicare il suo seme, e i nostri problemi sarebbero risolti in una o due generazioni con lo spopolamento universale. Quello che qui affermo non sono il solo a sostenerlo, ma se ve ne sono altri che la pensano come me, quanti oserebbero scriverlo, o meglio: professarlo dall'alto di una cattedra, spingendosi al punto di gridarlo ai quattro venti? E quale governo tollererebbe un insegnamento di tal fatta? E quale religione simili omelie? Insistono a chiederci di sperare e di credere, dobbiamo sperare in qualsiasi cosa, pur di sperare, dobbiamo credere, magari a quel che vogliamo, pur di credere a qualcosa, siamo liberi di fare una scelta tra le fandonie di nostra convenienza, a patto che siano stupide. Ora, tutti i fini che si propone la speranza e lutti gli obiettivi che la fede si dà hanno in comune il fatto di esserlo, di essere immancabilmente stupidi, e oggi, per giunta, imperdonabili, giacché non possiamo restare imbecilli una generazione di più fra mezzi che sono diventati più liberi di noi.

Quando gli uomini si persuaderanno che i loro figli saranno più infelici di chi li ha generati e i figli dei loro figli ancora più infelici, quando si persuaderanno che non vi è più rimedio nell'universo, che la scienza non farà miracoli e che il Cielo è vuoto quanto le loro tasche, che tutti gli spirituali sotto degli impostori e tutti i governanti degli imbecilli, tutte le religioni sorpassate, tutte le politiche impotenti, allora si abbandoneranno alla disperazione e vegeteranno nella miscredenza, ma moriranno sterili. Ora, la sterilizzazione sembra essere una forma di salvezza, ma senza la disperazione e senza la miscredenza gli uomini non acconsentiranno mai a divenire sterili, e le donne ancora meno, è l'ottimismo a ucciderci, e l'ottimismo è il peccato per eccellenza. Il rifiuto di sperare e il rifiuto di credere portano immancabilmente con sé quello di generare, è una correlazione che ci si sforza di negare, e anche coloro che vorrebbero spopolare il mondo, prima che sia troppo tardi, non oseranno professare tale convenienza. Ecco perché nessuno agisce sulle cause, quand'anche deplorasse gii effetti che fatalmente comportano.

I popoli poveri continueranno a rimanere poveri e tutti gli appelli alla carità non li solleveranno più dalla miseria, i popoli sventurati sono abissi in cui si volatilizzano gli aiuti dei popoli ricchi, soltanto lo spopolamento - e poco importa con quali mezzi - li salverebbe dall'indigenza, ma il loro orgoglio nazionale vi si oppone, e bisogna anche aver riguardi per questa gente da nulla che, nel suo delirio, pensa di avere dei diritti, nonostante la sua impotenza. In verità, coloro che li incoraggiano a perseverare in tali illusioni, nel nome di una spiritualità fasulla, accrescono il disordine e preparano loro il futuro più orribile; sarebbe meglio insegnare loro fin d'ora che chi muore di fame sarà inchiodato alla miseria, e più presto di quanto non si pensi, poiché la buona volontà non può supplire alla mancanza di eccedenze, nemmeno nei paesi che consideriamo ancora ricchi, dico ancora perché la loro opulenza è alla mercé di una guerra. Dopo la guerra saremo tutti rovinati, e non possiamo evitare la guerra, perché l'ordine che salvaguardiamo si dissolverebbe completamente in una pace esiziale ai suoi imperativi come alla sua ragione d'essere.

Nessuna spiritualità prevarrà sulla biologia e sull'ecologia, tutti gli spirituali sono sorpassati, non vi è nessuna differenza tra maghi e preti, ci si rende altrettanto spregevoli a consultare gli uni quanto a rispettare gli altri. Le leggi della natura si fanno beffe tanto degli esorcismi quanto delle orazioni, e adesso che si impara a conoscerle meglio ci si macchia di una colpa a trasgredirle, e doppiamente se lo si fa per amore di esorcismi e orazioni. Il rifiuto di sacrificare agli dèi e di onorare i loro sacerdoti in verità non farà più morire nessuno, ma l'ignoranza dell'ecologia e il disprezzo della biologia preparano all'intera specie il futuro più tragico. Le nostre religioni sono pestilenze e i poteri che le appoggiano congiure di avvelenatori, la nostra spiritualità non è che masturbazione delle facoltà mentali, ormai abbiamo bisogno di tutte le nostre risorse se vogliamo ripensare il mondo, un mondo in cui l'uomo è l'unico padrone della vita e della morte, l'unico, si badi bene, perché l'alibi metafisico viene ormai definitivamente a cadere, e non possiamo nasconderci dietro la nostra impotenza.

Per quanto tempo ancora potremo ingannarci? Tutti i termini sono giunti alla scadenza, il numero degli esseri umani si gonfia come un mare in cui stia per scatenarsi la tempesta, il suolo esaurito scoraggia i nostri sforzi, l'acqua mancherà dappertutto e l'aria già scarseggia, i cibi hanno sempre meno consistenza e i rifiuti ingombrano l'ecumene avvelenando ogni cosa. L'ora della verità non sarà anche quella della nostra agonia? Che cosa opporremo alla nostra morte? Le ordinanze dei nostri Capi di Stato oppure le preghiere dei nostri spirituali? A che cosa ci servono questi parassiti e questi l'autori di disordine? Gli uni ci portano alla dissoluzione, gii altri li benedicono esortandoci e li esortano benedicendoci, stiamo andando verso il caos con passo eguale, il cuore pieno di speranza, sognando il Paese della Cuccagna, la cui scienza gratificherà i nostri trenta miliardi di figli e di nipoti, nell'ora in cui le cento nazioni formeranno ormai un unico popolo, e le tre razze ne costituiranno una sola. Per quanto tempo ancora potremo ingannarci, sperando che avvenga l'impossibile, ad onta della nostra evidenza? Giacché l'uomo non sarà superato, qualunque cosa accada.

Siamo già troppo numerosi, e siccome i miracoli non sono nell'ordine delle cose, non si potrà mai dare ai sette miliardi di uomini che forse saremo nel DUEMILA ciò che attualmente non assicuriamo alla metà: l'idea pare chiara e distinta, ma al giorno d'oggi le idee chiare e distinte non usano più, lo spirito europeo ha perduto l'incisività insieme con la coerenza, ha dimostrato di non essere all'altezza delle sue opere comunicandole al resto degli esseri umani. Gli Africani e gli Asiatici non attribuiscono lo stesso significato alle parole che mutuano da noi, e la loro vendetta consiste nel farci dubitare di noi stessi, servendosi dei nostri vocabolari. L'Europa è ricca e debole, la Storia ci insegna che il dovere del ricco è quello di essere più forte del povero o di aspettarsi il peggio. Eppure i nostri spirituali e i nostri intellettuali provano un senso di colpa così forte da farli perseverare nell'errore, che li inebria perché è generoso, essi temono di incorrere nel Razzismo, in caso di disinganno. Sono persuaso che ci disinganneremo troppo tardi, e che il Razzismo ha un avvenire.

Non eviteremo né la Fame né il Razzismo, chi sostiene il contrario nega l'evidenza o cerca di fuorviarci. Non ne voglio all'uomo qualunque, che è sempre più indifferente e si ritiene soddisfatto, dal momento che l'industrializzazione gli procura le apparenze della felicità, foss'anche provvisoria. Non ne voglio all'uomo qualunque, questo sventurato per missione che si sveglierà soltanto nel pieno dell'incubo, il mio libro non si rivolge a lui: parlo ai giovani, che nelle università insorgono contro la morale e l'ordine, questi giovani fanno paura a troppa gente, e sappiamo che se scoppierà una guerra moriranno per primi. Parlo a queste vittime rituali, che l'ordine per la morte finisce con l'immolare, immolare in nome della morale, una morale che il sacrificio informa e il sangue ritempra, li illumino sul perché della loro insurrezione e anche li giustifico, anzi li approvo, e tuttavia, in ultima analisi, consiglio loro di obbedire, giacché non basta aver ragione, ragione per tutti i tempi a venire, bisogna anche sopravvivere al presente e durare fino al momento in cui abbia inizio il futuro.

Non è bene aver ragione troppo presto nell'universo in cui non siamo ancora contemporanei gli uni degli altri, non è bene aver ragione troppo presto e di conseguenza morire nell'ignominia. Gli Africani e gli Asiatici hanno scoperto il Nazionalismo, e non sono estranei al Razzismo, quella gente segue le nostre orme, e se aspettiamo che si disingannino, diventeremo loro servi o loro vittime, le nostre donne saranno le loro prostitute e i nostri beni il loro bottino. Non ci perdoneranno di averli umiliati senza poi sterminarli, non ci perdoneranno di averli costretti ad abdicare nella speranza di vincerci, ci vinceranno, se avremo ragione troppo presto, essi si giovano tanto dei nostri spirituali, all'ombra dell'ecumenismo, quanto dei nostri intellettuali, sotto il manto dell'obiettività: siamo perduti, se cadiamo nella trappola. Parliamo di fraternità e dimentichiamo che di fronte a noi abbiamo dei mendicanti e dei vendicatori, brutti, malsani, viziosi, crudeli e dispotici, più cattivi dei peggiori di noi e più bugiardi dei nostri sofisti più incalliti.

E perciò l'ordine, che aborriamo, e la morale, che disprezziamo, l'ordine sorpassato e la morale inaccettabile, che non abbiamo ancora saputo sostituire - né l'uno né l'altra -, noi li difenderemo, ahimè!, con le armi in pugno, giacché chi ci sta di fronte si prepara ad attaccarci, in nome della morale indifendibile e sotto il vessillo dell'ordine condannato. Domando io: che cosa opporremo a questi Barbari? La tolleranza e il lassismo? Ci schiaccerebbero, irridendoci. E se andremo incontro ai loro eserciti, adorni di bori e a mani nude, predicando loro la pace, faranno come i Mongoli nel Medioevo, quando trentamila pellegrini buddhisti disarmati si offrirono ai loro colpi, nella speranza di intenerire i loro cuori: li sterminarono tutti, dopo un attimo di sorpresa. E qualora mi si dicesse che i Mongoli sono diventati buddhisti, replicherei che i pellegrini sono morti. Poiché dobbiamo morire, evitiamo almeno di porgere la gola e di morire vittime dei nostri sentimenti, dimostriamo invece ai nostri avversari che il nostro valore è pari al loro, e trattiamoli come ci tratterebbero loro una volta vinti.

Non ci intenderemo su niente, perché ci verrà a mancare tutto, non eviteremo né la Fame né il Razzismo e non potremo sottrarci all'una se non abbandonandoci all'altro, un giorno diventeremo Razzisti per poter mangiare, saremo uomini bisognosi nel senso peggiore del termine, saremo Materialisti e Razzisti, i due princìpi si uniranno, come si uniscono oggi il Nazionalismo e il Socialismo. Giacché ora le idee giocano con gli uomini, ormai rincretiniti, gli uomini credono di scegliere, e ciò che hanno scelto li ha prevenuti, ormai i popoli non sono altro che trastulli delle loro idee e oggetti dei loro mezzi, mai sono apparsi più schiavi, mai tanto posseduti e tanto alienati, e i cinici incalliti che li guidano non sono meno idioti di quei ruminanti dei loro sudditi. Nessuno vede chiaro, perché non ci sono più idee chiare e distinte, stiamo andando verso la catastrofe, a cui tutte le strade ci conducono, oggi siamo sempre più stanchi di paradossi, cerchiamo Va semplicità, la troveremo solo nella morte, ed è per questo che domani la morte non farà indietreggiare nessuno.

I nostri padroni sono o burloni o sofisti, sono o esorcisti o ipnotizzatori, cercano di guadagnar tempo sul caos e sulla morte, ma non possono più impedire l'irreparabile, e noi andiamo dritti alla catastrofe. Le idee più micidiali ci attendono al varco e non saremo più in grado di eluderle quando il bisogno ci afferrerà alla gola, per tramutarci in belve; ci avviciniamo al ciglio fatale, e non appena saremo a confronto con esso rinunceremo a tutte le nostre illusioni umanitarie e scaraventeremo i nostri avversari nel precipizio. Denominatore comune dei politici futuri sarà lo sterminio, al quale contribuirà anche la natura, aggiungendo la sua furia alla nostra. La fine del secolo vedrà il Trionfo della morte, il mondo oberato di uomini si scaricherà di dosso il peso dei viventi in soprannumero, non rimarrà isola che possa offrire ricetto ai potenti per sottrarli all'infèrno generale che ci preparano, e lo spettacolo della loro agonia sarà la consolazione dei popoli che essi hanno traviato. L'ordine futuro sarà il legatario universale dei nostri fallimenti e i profeti, in mezzo alle nostre rovine, raduneranno i superstiti.

Tutto quello che ci sta accadendo era previsto da lunga data, e coloro che conoscevano la Tradizione sapevano che il mondo era condannato, ma non trovavano orecchi disposti ad ascoltarli. Il cuore dell'uomo non è cambiato, il cuore dell'uomo è simile al mare profondò e tenebroso, i mutamenti hanno luogo soltanto in superficie, dove la nostra sensibilità riflette la luce, ma quando scendiamo ritroviamo ciò che fu e sarà: la filosofia vi si addentra appena, e soltanto la teologia ha le chiavi dell'abisso. La nostra teologia è stata l'aberrazione per eccellenza, e noi ne espiamo i crimini e gli errori: aveva ricusato la natura e la natura si è vendicata, noi siamo antifisici e le nostre religioni cosiddette rivelate non hanno saputo far altro che costruire la tomba della specie. La follia della croce è ora quella dell'uomo, la voluttà del sacrificio è l'ultima all'altezza delle nostre opere, la passione per la morte sarà la consumazione delle nostre idee. Nel caos in cui sprofondiamo vi è più logica che nell'ordine, l'ordine di morte in cui ci siamo mantenuti per tanti secoli e che si disgrega sotto i nostri passi automatici.

Noi entriamo nella notte, dove tutto si disgrega, e ormai non possiamo più guardare indietro, dove le luci stanno spegnendosi del tutto, siamo soli con le nostre idee e le nostre opere, in balìa della loro comune dismisura. Eppure bisogna andare avanti, non è in nostro potere fermarci, abbiamo smarrito il cammino, e quando indugiamo è il cammino a trascinarci. In verità, siamo giustamente puniti per non aver ripensato il mondo, il mondo ci sfugge nel momento in cui lo umanizziamo, ci sfugge perché non vediamo chiaro in noi stessi, e non vogliamo veder chiaro per paura di dover profanare quello che ancora riveriamo. La profanazione ci avrebbe salvati, il coraggio intellettuale avrebbe contrastato la fatalità, divenuta la nostra quintessenza: gli Anarchici e i Nichilisti volevano lare tabula rasa e il futuro darà loro ragione, ma l'ordine li schiaccia e li schiaccerà, finché permane, quell'ordine che ci protegge e ci proteggerà dalla sovversione, non già dal caos e dalla morte, verso i quali ci ingiunge di marciare serrando i ranghi, gli uni contro gli altri, a passo di carica, nella notte che presto macchieremo di sangue.

I giovani non possono più salvare il mondo, il mondo non può più essere salvato, l'idea di salvezza è semplicemente un'idea sbagliata, e noi dobbiamo pagare i nostri innumerevoli errori, è troppo tardi per riparare ad alcunché, il tempo delle riparazioni è scaduto e quello delle riforme è finito. I più fortunati moriranno combattendo e i più miserabili stipati negli scantinati o accoppiandosi tra le fiamme, per ingannare l'agonia con l'orgasmo. Il mondo sarà un grido di dolore e di estasi, in cui gli uomini più puri non avranno altra risorsa che ammazzarsi l'un l'altro per non dover disprezzare se stessi. La scelta dell'agonia sarà l'ultima a noi rimasta, e ciò sarà prima di quanto non si pensi, dall'oggi al domani saremo scaraventati nel precipizio e lì ci sveglieremo, non fosse che per il tempo di sentire che stiamo spirando. Allora rivedremo ciò che videro i Conquistatori del Nuovo Mondo, dove, al loro avvicinarsi, intere tribù si gettavano dalla cima della loro montagna unicamente per prevenire l'orrore inevitabile, ingannando la morte con la morte stessa.

Beati i morti! E tre volte miseri coloro che, in preda alla follia, generano! Beati i casti! Beati gli sterili! Beati anche coloro che preferiscono la lussuria alla fecondità! Oggi gli Onanisti e i Sodomiti sono meno colpevoli dei padri e delle madri di famiglia, perché i primi distruggeranno se stessi e i secondi distruggeranno il mondo, a forza di moltiplicare le bocche inutili. Vergogna agli spirituali, che ci obbligano a riverirli e ci insegnano a sragionare! Saremmo meno miserabili e meno ridicoli se non ci fossero loro, quei predicatori di fumo e quei consolatori da strapazzo, essi non ci servono più a nulla, dopo essere serviti soltanto a ingannarci su di noi, su di loro e sulla nostra evidenza. Si puniscono i falsari e poi si dovrebbero risparmiare coloro che non vivono se non accreditando idee false? La tolleranza è raggiro e il rispetto soltanto delirio, lo abbiamo capito pagando di persona e faremo pagare altri a nostra volta, prima di sprofondare nella fornace manderemo coloro che ci portano alla morte a spianarci la strada che non ci evitano, poi sarà la dissoluzione.

Albert Caraco